Leggimi la mano Chirologia

giovedì 7 aprile 2011

LA MEDITAZIONE, ELEMENTO ESSENZIALE DELLA VITA DI PREGHIERA Arnaldo Pigna


Arnaldo Pigna


Necessità  della meditazione1

     È constatazione universale che l'uomo prende esplicita coscienza di sé e del mondo che lo circonda solo attraverso la riflessione. Ed è solo pensando intensamente, cioè meditando, che egli approfondisce tale conoscenza e può procedere oltre nella costruzione di sé e della storia. Si medita per trovare una soluzione, per spiegare un evento, per aprire ed illuminare un cammino. Questo, poi, sarà tanto più facile conseguirlo quanto più l'uomo è capace di una riflessione completa su di sé, quale fondamento intimo dell'agire umano. In effetti, le azioni sono considerate umane solo nella misura in cui partono dall'intimo di se stessi.

     D'altra parte l'uomo è costituzionalmente aperto al mondo e agli altri, e naturalmente inclinato verso l'esterno. È chiaro, però, che egli ha un suo modo proprio di rapportarvisi che richiede particolari condizioni, necessarie perché l'incontro si attui nello scambio, nell'offerta, nell'accoglienza, e si eviti la dispersione e l'alienazione. La prima condizione perché l'uomo non si disperda all' esterno è la capacità di ritrovarsi e raccogliersi in se stesso; perché, poi, il rapporto con il mondo e, soprattutto, con gli altri non sia alienante o oggettivante è necessaria la assunzione e la rielaborazione interiore da parte del soggetto stesso e, quindi, ancora una volta, un ritorno nella propria intimità.

     Tutto ciò fa parte dello sviluppo normale dell' esistenza umana; per questo l'apertura al mondo e il ritorno su di sé si ritrova in tutte le attività proprie dell'uomo. Ne segue che «l'uomo si trova, da sempre, sulla strada del ritorno. Ciononostante egli può lasciare inosservato questo viaggio, e per lo più avviene così. Abbiamo allora l'uomo che si agita all' esterno come se fosse privo d'interiorità, quantunque egli viva inconsciamente nel suo interno, né potrebbe essere diversamente, altrimenti cesserebbe d'essere uomo e cadrebbe al livello della pianta o addirittura del minerale. Orbene la meditazione tende ad assumere l'esterno per compenetrarlo con l'interno giacché essa fa suo oggetto proprio questo ritorno che avviene continuamente e in tal modo rende possibile l'interiorità. In altre parole, essa ricupera l'uomo dalla sua dispersione nell' esteriore e lo riconduce verso l'interno ove trova non solo se stesso, ma anche il mondo nella sua totalità ed insieme nel suo nucleo. Dopo tutto la meditazione non aggiunge qualcosa di completamente nuovo alla nostra vita. Non fa che osservare e rendere possibile il mistero più intimo che accade di continuo nella vita; sposta l'attenzione dall' esterno all'interno, e siccome questo fatto caratterizza tutto l'uomo, essa, lungi dall' essere solo un gioco cerebrale, ci fa dono del più prezioso brano della nostra attività vitale» ( J.B. Lotz, Guida alla meditazione. Ed Paoline, 1968, pp. 38-39).
     Una caratteristica della vita moderna è la fretta e l'efficienza che spesso si traduce in dispersione e superficialità. La conseguenza è  la progressiva diminuzione della capacità di ritrovare se stessi nel silenzio e nella solitudine, di riflettere su di sé e sul senso della propria vita. In effetti, è osservazione comune che l'uomo della tecnica e del consumo vive prevalentemente d'immagini e di sensazioni che, restando alla superficie dell'essere, finiscono col fargli percepire solo la dimensione superficiale dell'esistenza, mentre l'io intimo e profondo rimane mortificato e coartato.

E poiché  noi percepiamo e costruiamo il nostro essere da quello che facciamo e sentiamo, a furia di vivere in superficie e all' esterno rischiamo di perdere il senso di noi stessi, della nostra vita, della nostra esistenza. Corti di vista e incalzati dalla fretta diventiamo schiavi dei nostri bisogni (spesso fittizi e falsi, perché artificialmente indotti dall' onnipresente pubblicità) e succubi del ritmo frenetico imposto dalla produzione per il consumo e dal consumo per la produzione. A questo punto si viene a creare un pericoloso dualismo tra quello che noi siamo e quello che continuamente facciamo. Poiché tutto ciò in cui siamo continuamente occupati non è in rapporto e sintonia e, pertanto, non soddisfa il nostro io profondo, cadiamo nel vuoto, nella noia e nella stanchezza.

     Senza centro, instabile, debole e, perciò, incapace di superare le difficoltà che sempre si frappongono per costruire un vero incontro con gli altri, l'uomo finisce, così, con il diventare sempre meno capace di stabilire anche autentici rapporti personali. È evidente, infatti, che, nonostante il moltiplicarsi delle opportunità d'incontro che la nostra società offre, ciò che più affligge la generazione attuale è proprio la povertà delle relazioni. Nonostante tutti i tentativi, non ci si raggiunge mai veramente. E questo vale anche all'interno dei nuclei più intimi quali il matrimonio e la famiglia (come, analogamente, all'interno della scelta sacerdotale o religiosa, quando l'Altro si percepisce solo con la sfera superficiale o intellettuale di se stessi); di qui le crisi e le separazioni sempre più frequenti. Del resto è naturale che chi non ha trovato se stesso ed è, dunque, personalmente privo di profondità, non sia in grado di raggiungere l'altro nella sua sfera più interiore ed autentica, che è la sfera del vero amore personale.
     Tutto ciò si esperimenta in modo drammatico nel contesto della vita consacrata che è sostanzialmente imperniata su valori spirituali ed interiori, su di essi si fonda e di essi si nutre. Non è un mistero per nessuno che la sua crisi dipende in buona parte dall'insufficiente esperienza di Dio; ed è diventato un ritornello, quasi un luogo comune, il richiamo continuo alla dimensione spirituale della vita. Troppo grande è il divario tra vitalità interiore e impegno esteriore considerato sia come attività sia come organizzazione e continua ricerca di nuove soluzioni. Abbiamo bisogno di riscoprirci e ritrovarci per quello che siamo, nella nostra identità profonda e nel nostro destino più alto, che è la nostra relazione a Dio e la nostra comunione con Lui. Tutti sembrano d'accordo su questo. Ma poi l'unica conclusione che si tira è: «cosa dobbiamo fare?» e continuiamo ad agitarci per rifondare, creare o inventare sempre nuove soluzioni che spesso hanno come unico risultato quello di non attuare quelle adottate il giorno prima. Si dimentica in modo sistematico che per ridare il primato all'essere c'è bisogno d'ascolto; che per ascoltare bisogna essere raccolti; che per raccogliersi bisogna saper tacere; che, infine, si tace davvero, ci si raccoglie e si sta in ascolto solo se si è attenti, desiderosi ed aperti all' accoglienza di Qualcuno.

      Purtroppo si è perduta quasi totalmente la capacità apprezzare e coltivare il silenzio. Quando lo si vive, e non succede spesso data la confusione continua in cui siamo immersi, lo si fa più come difesa e impotenza che come espressione di attesa e attuazione di pienezza. Non di rado, infatti, si tace solo perché si ha paura di rivelarsi o perché ci si sente indifferenti di fronte agli altri o, addirittura, perché disprezziamo o rifiutiamo coloro che ci circondano. Tale silenzio è solo paura, rancore,  orgoglio che non costruiscono nulla. Il silenzio positivo è attesa, attenzione, rispetto e omaggio all’altro; questo si traduce, spesso, in ammirazione per le doti che gli si riconoscono e in riconoscenza e gioia per il bene che procurano. Non ci vuol molto per capire che questo silenzio è tutto un servizio all’amore. Quando due sguardi si incontrano in profondità le parole diventano superflue.

      E’ scontato, d’altra parte, che per imparare a parlare, bisogna prima imparare a tacere e ascoltare. Solo nel silenzio le parole vuote scompaiono, mentre quelle vere e ricche di contenuto ritrovano il loro splendore e la loro forza originaria. Per questo la sapienza degli antichi ammoniva: “aut tace aut dic meliora silentio”
     Ma la nostra “civiltà”, dicevamo, rende sempre più difficile la scoperta ed il culto del silenzio autentico; la conclusione è che, sia nell’ambito profano che in quello religioso, si continua a vivere nell'esteriore ed a coltivare solo la dimensione superficiale della vita. Nel primo caso ci si accontenta di lasciarsi portare dalle sollecitazioni del consumismo e del materialismo, nel secondo ci si fa totalmente assorbire dalla preoccupazione di creare o inventare nuove formule o nuove proposte capaci di venire incontro alle sempre nuove sollecitazioni e sfide che la società dei consumi offre. Si continua, cioè, a pensare che la risposta a tutte le sfide e ai problemi della vita sia data dal nostro fare. Con ciò, però, si mette anche a nudo il peccato profondo che soggiace a tutto questo: la pretesa, cioè, che la salvezza del mondo dipenda, in definitiva, dalla nostra attività e dal nostro corretto comportamento, magari mutuato da quello di Gesù. S. Agostino ci direbbe: «È questo l'orrendo e occulto veleno del vostro errore: che pretendiate di far esistere il vangelo nell' esempio di Cristo e non nella sua grazia, nel dono della sua persona». 

     Molti si adattano a questo stato di superficialità e di assolutizzazione delle apparenze come ad una fatalità: è la vita piatta e insignificante di tanti nostri contemporanei, i quali sono diventati addirittura incapaci di chiedersi con serietà: chi sono io, da dove vengo, dove vado, che senso ha la mia vita? Altri si pongono il problema, ma non più in grado di rientrare in se stessi e di riflettere, non sanno nemmeno come e dove cercare e, ovviamente, non trovano risposta. Sta di fatto che, incapace di apertura e di slancio creativo verso valori più alti e più profondi, l'uomo rimane senza ideali, senza stimoli e senza speranze. Nella maggior parte dei casi la conclusione è una nuova fuga da se stessi secondo la filosofia del «carpe diem» che, però, non fa che aumentare il vuoto e il disorientamento, spingendo verso l'apatia e l'appiattimento o la contestazione continua e inconcludente. Nella vita consacrata ci pare che il forte bisogno di vita spirituale che stimola coloro che non hanno ceduto alla rassegnazione e alla dispersione troverà la sua reale attuazione solo nella misura in cui saranno capaci di liberare il cuore per renderlo di nuovo luogo e spazio di Dio. E la prima condizione per questo è il ritorno in se stessi per mezzo della meditazione e il dialogo personale con Lui nella preghiera.
     Oggi ci rendiamo chiaramente conto come il progresso, insieme alle immense possibilità di crescita e di sviluppo, comporti per l'uomo anche l'incalcolabile rischio di ridurlo ad un momento del processo evolutivo e ad un elemento di quello produttivo. Egli deve ridiventare davvero «padrone» delle cose e per far questo è necessario che riacquisti la padronanza di se stesso. Ma ciò non è possibile se non comincia con il ritrovarsi attraverso la conoscenza di sé e del proprio destino. E questo per il semplice motivo che la sua vita non sta all' esterno, ma nel suo intimo; le sue ricchezze non stanno in superficie, ma nel profondo. Bisogna, dunque, passare dall'esteriore all'interiore, dal superficiale al profondo, dove l'uomo ritrovando se stesso e incontrando l'Assoluto, scopre anche il senso della vita e riesce a comprendere e valutare meglio il significato delle parole e la portata dei messaggi che continuamente lo martellano. Se l'uomo non si concede momenti di silenzio, di solitudine, di riflessione si disperde esteriormente in un caos inabitabile, mentre il suo «io» precipita sempre più nell'isolamento che lo introduce nel regno della morte. E questo è il compito della meditazione.
     La difficoltà di incontrare l'altro, di cui parlavamo sopra, si ritrova, ovviamente, anche per quanto riguarda l'Altro per eccellenza, cioè Dio. Oggi con il dilagare del cosiddetto «pensiero debole» vengono relativizzati anche gli stessi enunciati dogmatici, e i rapporti con il divino vengono sempre più affidati ai sentimenti e alle esperienze (personali o di gruppo), ma ciò rende più evidente l'esigenza di imparare ad interiorizzare e assimilare i contenuti delle verità di fede. Il sentimentalismo religioso non è che una variante del consumismo e non costituisce affatto una conquista di fronte all'intellettualismo eccessivo del periodo in cui veniva privilegiata la parte razionale e scientifica della conoscenza a scapito di quella intuitiva e affettiva. Non abbiamo certo fatto un guadagno se dal predominio assoluto della razionalità siamo passati alla sua negazione e alla accettazione della istintualità come via privilegiata se non proprio esclusiva alla verità. Una verità che, del resto, appare sempre meno decifrabile, fino al punto di non avere più nemmeno una consistenza chiara e certa. L'unico modo per uscire da un intellettualismo arido che rischia di ridurre Dio ad un'idea astratta, senza cadere nel vitalismo che riduce Dio ad un prodotto di consumo, è seguire, appunto, la via della meditazione che è la via umana per trasferire la verità nella vita, perché la vita sia vissuta nella verità. .

     Si sa che anche la meditazione, essendo un' operazione dell'uomo, presuppone la visione che l'uomo ha di se stesso, del suo senso e del suo destino; e come, di conseguenza essa possa essere concepita in modi diversi, e soprattutto, possa essere praticata con metodi diversi. Si sa anche come oggi siano di moda i cosiddetti «metodi orientali» a cui molti ricorrono per motivi «terapeutici», cioè per riacquistare la calma interiore e 1'equilibrio psichico e, così, guarire dallo squilibrio e dal disorientamento in cui li getta la nostra caotica civiltà. A noi qui non interessa tale aspetto psicologico, giacché guardiamo alla meditazione nel contesto della preghiera cristiana. Rimandiamo per il resto alla «Lettera ai vescovi della chiesa cattolica» della Congregazione per la dottrina della fede su «Alcuni aspetti della meditazione cristiana» (15 ottobre 1989). Riteniamo, però, utile riportare alcune considerazioni che troviamo nella parte introduttiva dove si ricorda opportunamente il legame intrinseco che, in contesto cristiano, esiste e deve essere mantenuto tra meditazione, preghiera e fede. Una meditazione che, per com'è concepita o praticata, contraddicesse o negasse i valori della fede è evidente che non potrebbe essere assunta come parte o espressione della preghiera cristiana:

     «La preghiera cristiana è sempre determinata dalla struttura della fede cristiana, nella quale risplende la verità stessa di Dio e della creatura. Per questo essa si configura propriamente parlando, come un dialogo personale, intimo e profondo tra l'uomo e Dio. Essa esprime quindi la comunione delle creature redente con la vita intima delle Persone trinitarie. In questa comunione, che si fonda sul battesimo e sull' eucaristia, fonte e culmine della vita della chiesa, è implicato un atteggiamento di conversione, un esodo dall'io verso il tu di Dio. La preghiera cristiana, quindi, è sempre allo stesso tempo autenticamente personale e comunitaria. Rifugge da tecniche impersonali o incentrate sull'io, capaci di produrre automatismi nei quali l'orante resta prigioniero di uno spiritualismo intimista, incapace di un'apertura libera al Dio trascendente. Nella chiesa la legittima ricerca di nuovi metodi di meditazione dovrà sempre tener conto che a una preghiera autenticamente cristiana è essenziale l'incontro di due libertà, quella infinita di Dio con quella finita dell' uomo» (Ivi  3).


Meditazione e riflessione

     Il processo normale del pensiero è di tendere al suo oggetto (io, mondo, gli altri, Dio) e di manipolarlo a modo proprio, di considerarlo in modo impersonale e distaccato, appunto come un oggetto, e la concettualizzazione che ne deriva è, a sua volta, astratta ed universale. Così la ragione che riflette vede l'oggetto di fronte a sé, distinto e diverso, non lo vede dentro di sé o parte di sé o unito a sé. Questo modo filosofico di ragionare deve essere corretto quando parliamo della meditazione come momento della preghiera, anche perché nel contesto religioso la meditazione spesso ha per oggetto qualcosa di «misterioso» che non offre molti spazi alla ricerca della ragione e finirebbe, dunque, con il lasciare nel vuoto e nella dispersione; mentre il «mistero» oggetto della fede ha un contenuto positivo e genera sentimenti di rispetto, adorazione, abbandono, intimità che costituiscono momenti fondamentali e privilegiati della preghiera stessa.

     La stessa meditazione naturale, in senso stretto, non è una semplice, anche se approfondita, riflessione per arrivare alla conoscenza della verità e scoprire la struttura intima delle cose, la dinamica e il concatenarsi degli eventi; il tutto considerato e sentito come oggetto di studio.

Nella meditazione ciò che viene considerato dice riferimento e, in un certo senso, tocca la persona e la influenza; la realtà meditata è viva e diventa parte della vita. Essa non viene «vivisezionata» e mantenuta puro oggetto, viene «accolta» e, in un certo qual modo, «assimilata». Più che di una realtà astratta e anonima, inerte e muta, si tratta di una realtà viva che si interpella, interagisce, trasmette un messaggio, sollecita e stabilisce un rapporto. In una parola: non si tratta di un soliloquio, ma di un colloquio. Questo va sottolineato soprattutto per la meditazione cristiana che non è arida riflessione, ma rapporto vitale. Individuare ed esaminare il comportamento degli atomi che compongono una determinata molecola non significa fare meditazione, anche se questo lavoro dovesse impegnare a tal punto l'attenzione e l'intelligenza della persona da assorbirla totalmente.

     Attuata nel contesto della preghiera la meditazione non è un puro esercizio speculativo, ma un gesto religioso fatto alla presenza di Dio e con riferimento a Lui che ci si rivela e ci rivela a noi stessi, facendoci prendere coscienza della nostra grandezza, della nostra responsabilità e anche della serietà degli impegni che prendiamo con Lui e davanti a Lui. Nella meditazione cristiana l'opera della intelligenza che cerca di capire è sempre animata e sollecitata dalla presenza dell' amore. È vero che non si ama il bene se non lo si conosce, ma è altrettanto vero che quanto più si ama si conosce e si è spinti a conoscere. Una conoscenza, dunque, che è originata dall' amore, all' amore è ordinata e dall' amore animata. Una conoscenza intrisa d'amore, che insegna e porta ad amare.

     Nonostante tutto ciò, rimane evidente che la meditazione è, sostanzialmente, un' operazione della intelligenza che scopre, approfondisce, assimila la verità nelle sue forme di bontà, bellezza, magnificenza, ordine e armonia. Un atto dell'intelligenza che scoprendo l'unità tra Verità e Bene manifesta la Bellezza e rivela il mistero dell'Amore che di verità, di bene, di bellezza si nutre e si compone.

     La meditazione è parte integrante della vita cristiana. Tutti coloro che hanno iniziato e percorso il cammino spirituale l'hanno praticata, benché con modalità e accentuazioni diverse, che hanno poi trovato la loro strutturazione nei vari metodi di preghiera. In queste riflessioni che vogliono solo ricordare l'importanza centrale di tale pratica, facciamo riferimento a s. Teresa che, per universale riconoscimento e solenne dichiarazione del Magistero (è stata proclamata dottore il 27 settembre 1970), è ritenuta somma maestra e guida sicura in questo campo. Il fatto che ella si dedichi di più a trattare i gradi superiori d'orazione, dove l'attività meditativa viene in certo senso trascesa, rendono ancora più significative le sue affermazioni sulla necessità della meditazione per iniziare il cammino e disporsi a ricevere il dono di continuarlo.


Contenuto della meditazione cristiana

     Oggetto e scopo della meditazione cristiana è innanzitutto la conoscenza di Dio, in Sé e nelle sue opere, e, poi, la conoscenza di sé  e del proprio mondo, visti alla sua luce. Nel campo della fede abbiamo un materiale inesauribile offerto alla nostra meditazione, che parte dal mistero di Dio fino ai suoi quotidiani interventi nella storia. In tutto, infatti, è presente la suprema carità e l'amore infinito e tutto può servire come mezzo all' anima per mettersi in contatto con Dio. S. Teresa ricorda come lei si è servita tante volte della contemplazione delle bellezze della natura (cfr. Vita 9, 5; 14, 9). Ritiene, comunque, che in questo campo ognuno può avere le sue preferenze: «Alcuni approfittano molto nel considerarsi all'inferno. Ad altri questo pensiero è di spavento, e si trovano meglio immaginandosi in Paradiso. A certi è utile la considerazione della morte. E a certi altri che sono teneri di cuore, trovando troppo penoso pensare sempre alla passione, è più giovevole considerare la potenza e la grandezza di Dio nelle sue creature, l'amore che ebbe per noi e che palesa dovunque» (Vita 13, 13).

     Due, però, sono i temi fondamentali che, sempre secondo s. Teresa, non bisogna mai trascurare e su cui si deve tornare spesso: il conoscimento di se stessi e il mistero di Cristo, nella sua persona e nella sua opera redentrice.
     Il proprio conoscimento è necessario perché è il fondamento dell'umiltà, pietra angolare di ogni edificio spirituale. «È tanto importante conoscerci, che in ciò non vorrei vi rilassaste, neppure se foste già arrivate nei più alti cieli, perché mentre siamo sulla terra, non c'è cosa più necessaria dell'umiltà» (Mansioni I, 2, 9). «La meditazione sul proprio conoscimento non si deve mai tralasciare, perché l'anima non sarà mai così gigante nelle vie dello spirito da dispensarsi dal tornare spesso a farsi bambina per succhiare il latte della prima età: cosa tanto importante da non doversi mai dimenticare, e che io forse ricorderò altre volte, non essendovi stato di orazione così sublime in cui non si debba sentire il bisogno di tornare spesso agli inizi. Il pensiero dei nostri peccati e della miseria della nostra natura è il pane che lungo il cammino dell' orazione si deve mangiare con tutti i cibi, anche con i più delicati, perché senza di esso non ci si può sostentare. Però, lo si deve mangiare con discrezione, non essendo che una perdita di tempo durare in simili considerazioni anche allora che l'anima si veda tutta in Dio, convinta di non aver nulla di buono e piena di confusione per essere innanzi a un Re così grande da cui molto ha ricevuto ed a cui rende così poco. Val meglio che si lasci guidare da Dio, nutrendosi di quello che Egli gli mette davanti, e che non è ragionevole disprezzare, perché Egli conosce meglio di noi il cibo che più ci conviene» (Vita 13, 15).

     Ma non dobbiamo chiuderci in noi stessi, perché finiremmo col diventare prigionieri della nostra miseria: è necessario guardarsi alla luce di Dio, sentendosi come avvolti nel suo sguardo misericordioso: «Come l'ape non lascia di uscire e di succhiare i fiori, così l'anima, la quale, pur addestrandosi nel proprio conoscimento, deve di tanto in tanto innalzarsi a considerare la grandezza e la maestà di Dio. In ciò scoprirà la propria miseria meglio che rimanendo in se stessa (...) Credo che non arriveremo mai a conoscerci, se insieme non procureremo di conoscere Dio. Contemplando la sua grandezza scopriremo la nostra miseria; considerando la sua purezza riconosceremo la nostra sozzura, e innanzi alla sua umiltà vedremo quanto ne siamo lontani. Vi sono in ciò due vantaggi: primo, perché una cosa bianca messa vicino ad una nera appare più bianca; e in secondo luogo perché la nostra intelligenza e volontà, portate ora su Dio e ora su di noi, si rendono più nobili e più disposte al bene; se non ci sollevassimo mai dal fango della nostra miseria, ne risulterebbero molti inconvenienti (...) mantenendoci sempre nella ignominia della nostra terra, le nostre correnti si possono intorbidare a contatto con il fango del timore, della pusillanimità, della codardia... Questo finisce col deviare. E io non mi stupisco se non usciamo mai da noi stesse: ne può venire questo e peggio ancora. Perciò, figliole, fissiamo gli occhi in Cristo nostro bene e nei suoi santi, e vi impareremo la vera umiltà. Allora la nostra intelligenza si renderà più esperta e la conoscenza di noi stessi cesserà di renderci vili e striscianti» (Mansioni I,2,8).

     Ed ecco, allora, l'altro tema centrale e, indubbiamente, il più importante della meditazione: il mistero di Dio che si esprime soprattutto nel mistero di Cristo.

     La conoscenza di Dio attraverso la penetrazione del mistero di Cristo alla luce della fede si rivela sempre più come scoperta ed esperienza di amore. Dio, infatti, è amore e tutto ciò che ha detto e fatto per comunicarsi a noi non è altro che gesto di amore. La meditazione su Dio e sulla opera di Dio, dunque, non è altro che scoprire il mistero dell'amore, sentirsi da esso avvolti, lasciarsene permeare, ed imparare a rispondere. Poiché si tratta di Dio che rivela e comunica se stesso, appare evidente come il primo protagonista di questo colloquio sia Dio stesso. Il primo a «parlare» è proprio Lui. Ecco perché il contenuto essenziale della meditazione cristiana è l'ascolto e l'assimilazione della parola di Dio. Una Parola che nasce dall'amore, che rivela l'amore, che comunica l'amore, che invita all' amore, che insegna ad amare. Una Parola, soprattutto, che è Amore. La Parola di Dio, infatti, è il suo stesso Figlio, il Verbo, che, facendosi uomo in Cristo Gesù, diviene l'amore di Dio per noi e realizza la nostra comunione di amore con Lui. Così Gesù diventa il nostro interlocutore divino. Ma Gesù è anche l'oggetto privilegiato o contenuto della nostra meditazione. Immagine perfetta di Dio, origine e pienezza della storia, destino ultimo ed esemplare sublime a cui l'uomo è chiamato a conformarsi, Gesù costituisce necessariamente il punto di attrazione del credente. Chiamato alla comunione e trasformazione in Lui fino alla identificazione («figlio nel Figlio») egli si sente spinto a penetrare sempre più profondamente nella conoscenza amorosa di tutto ciò che lo riguarda. Anche quando fossimo giunti alle vette della esperienza mistica, Gesù rimane sempre per noi Via, Verità e Vita. A questo riguardo la grande Maestra s. Teresa offre un insegnamento quanto mai chiaro e preciso. 


     La mente dell' orante deve rivolgersi soprattutto sulla vita di Gesù  (Vita 11, 9), anche perché «non possiamo piacere a Dio, né Dio accorda le sue grazie se non per il tramite della Umanità sacratissima di Cristo, nel quale ha detto di compiacersi» (Vita 22, 6). Il segreto della preghiera e il superamento delle difficoltà derivanti dalle distrazioni e dalla incapacità di meditare a lungo sta tutto nello stabilire un rapporto famigliare con Lui. «Il mio metodo di orazione era nel far di tutto per tenere presente dentro di me Gesù Cristo, nostro Bene e Signore» (Vita 4, 7). Chi vuole incontrare il Signore non ha bisogno di andarlo a cercare: Egli è già presente in ciascuno di noi e intorno a noi. Man mano che si approfondisce questa consapevolezza «Egli si farà sentire presente» e si finirà col vivere abitualmente in sua compagnia. «Immaginate, dunque, che vi stia vicino, e considerate l'amore e l'umiltà con cui vi istruisce. Ascoltatemi, figliole; fate il possibile per stargli sempre dappresso. Se vi abituerete a tenervelo vicino, ed Egli vedrà che lo fate con amore e che cercate ogni mezzo per contentarlo, non solo non vi mancherà mai, ma, come suol dirsi, non potrete più togliervelo d'attorno. L'avrete con voi dappertutto, e vi aiuterà in ogni vostro travaglio. Credete che sia poca cosa aver sempre vicino un così buon amico? Sorelle mie, voi che non potete discorrer molto con l'intelletto, né arrestare il pensiero sopra un punto determinato senza cadere nelle distrazioni, abituatevi, vi prego, abituatevi alla pratica che vi suggerisco! So che lo potete. Non chiedo già di concentrarvi tutte su di Lui, formare alti e magnifici concetti ed applicare la mente a profonde e sublimi considerazioni. Vi chiedo solo che lo guardiate. E chi vi può impedire di volgere su di Lui gli occhi della vostra anima, sia pure per un istante, e non potete di più? Possibile che potendo fermarvi fin sugli oggetti più ributtanti, non siate poi capaci di contemplare la bellezza più perfetta che si possa immaginare?» (Cammino 26, 1-3). «Mi domanderete, sorelle, come ciò possa essere, e mi direte che abbraccereste volentieri il mio consiglio se vedeste il Signore come quando era sulla terra, nel qual caso non cessereste mai di guardarlo. Ma non credetelo. Chi rifiuta oggi di farsi un po' di violenza per raccogliersi e contemplare il Signore nel proprio interno, quando lo può fare senza alcun pericolo ma soltanto con un po' di diligenza, pensate se poteva durarla ai piedi della croce con la Maddalena, minacciata di morte da ogni parte?» (Cammino 26, 8).

     Stando in compagnia del Signore ci viene spontaneo andare ai misteri della sua vita e ripercorrerli insieme a Lui. «Pensando e meditando quello che il Signore ha sofferto per noi, ci sentiamo muovere a compassione, ne abbiamo pena e ci viene da piangere: tutte cose che ci sono di diletto. Se poi il pensiero si ferma sulla gloria che speriamo, sull' amore che il Signore ci porta e sulla sua risurrezione, ne abbiamo una gioia non del tutto spirituale e neppur del tutto sensibile, tuttavia santa e meritoria come la pena di cui sopra. E così di tutte quelle cose che danno una devozione in cui concorra l'intelletto, sempre intesi però che se Dio non la dà, noi non possiamo né meritarla né conseguirla» (Vita 12, 1). «Qui l'anima può fare molti atti per risolversi a servire molto il Signore, a rassodare e far crescere le virtù... S'immagini di trovarsi innanzi a Gesù Cristo, conversi speso con Lui e cerchi di innamorarsi della sua umanità, tenendola sempre presente. Gli chieda aiuto nel bisogno, pianga con Lui nel dolore, si rallegri con Lui nella gioia, si guardi dal dimenticarlo nella prosperità, e questo non con preghiere studiate, ma con parole semplici, intonate ai suoi desideri e alle sue necessità: metodo eccellente per approfittare molto in poco tempo. Chi cerca di vivere in così preziosa compagnia e si studia di cavarne tutti i possibili vantaggi, amando veramente il Signore a cui tanto dobbiamo, costui, a mio parere, si è già avanzato di molto» (Vita 12,2)

     Poiché  Dio si fa conoscere soprattutto attraverso la rivelazione che troviamo riassunta nella Sacra Scrittura, la meditazione avrà come oggetto soprattutto la lettura e l'ascolto della Parola di Dio. Nella tradizione monastica troviamo un metodo di preghiera che noi oggi chiamiamo lectio divina e che è tutto imperniato sulla interiorizzazione della Parola di Dio attraverso quattro momenti o gradi progressivi denominati rispettivamente: lectio, meditatio, oratio, contemplatio (cui oggi si è soliti aggiungere un quinto momento, la actio, inteso come impegno che accompagni la giornata). Si tratta di un metodo classico che, come detto, ha quale punto di partenza e centro ispiratore la Parola di Dio. Il p. Bouyer ne dà questa descrizione: «È una lettura personale della Parola di Dio, mediante la quale ci si sforza di assimilare la sostanza; una lettura che si fa nella fede, in spirito di preghiera, credendo alla presenza attuale di Dio che ci parla nel testo sacro, mentre ci si sforza di essere noi stessi presenti, in spirito di obbedienza e filiale abbandono alle promesse e alle esigenze divine». Una incisione del secolo XVII presenta questa forma di preghiera in forma di scala, simbolo della discesa di Dio e della ascesa dell'uomo; essa poggia sulla terra e raggiunge il cielo dove il Signore sta in atteggiamento di accoglienza e un coro festoso di angeli invita l'orante a salire. L'immagine è tanto semplice quanto efficace e costituisce una guida pedagogica certamente utile per tutti. Al primo gradino un monaco, seduto ai piedi della scala, legge in sacro raccoglimento la Bibbia che tiene aperta sulle ginocchia (è la lectio); nel quadro seguente il monaco siede un

gradino superiore, con la Bibbia chiusa e stretta devotamente sul cuore (meditatio); al terzo gradino il monaco è in piedi, rivolto verso il Signore si intrattiene con Lui che, a braccia spalancate, sembra invitarlo a maggiore intimità (oratio); all'ultimo gradino Gesù e il monaco sono strettamente abbracciati in un gesto di profonda tenerezza (contemplatio). In tutti questi momenti i raggi che provengono dal Cristo illuminano l'orante, quasi per sottolineare che nella preghiera ci si deve sempre sentire avvolti dallo sguardo amoroso e trasformante del Signore (cfr. J. CASTELLANO, Incontro al Signore. Ed OCD, Roma 2002, pp. 151-165).


Meditazione e orazione

     Come si può facilmente constatare anche solo dai pochi accenni fatti, la meditazione, nel contesto della spiritualità cristiana, è  profondamente unita e parte integrante della preghiera, al punto che spesso vengono unificate e il termine «meditazione» finisce con l'acquistare il significato di «preghiera». Tra i religiosi, ad esempio, è abituale parlare di meditazione per indicare il tempo dedicato alla orazione personale, distinta da quella comunitaria e liturgica. Si tratta, ovviamente, di espressioni da prendere con discrezione, perché ad esempio, anche la preghiera comunitaria, liturgica e no, per essere vera deve comportare la partecipazione personale. Ciò è dato normalmente per scontato. Ma forse è venuto il momento di tornare a ricordarlo. Ci sono alcuni, infatti, che nel sottolineare la importanza primaria della preghiera liturgica e, poi, di quella comunitaria o di gruppo, finiscono talvolta col non capire l'importanza e la necessità di quella personale. Non ci si rende conto che se non si è capaci di preghiera personale si finisce col restare incapaci di vera partecipazione nella preghiera comunitaria e nella stessa celebrazione dei sacramenti. Senza capacità di raccogliersi in Dio la stessa partecipazione alla s. Messa diventa una formalità che non produce nulla! Senza raccoglimento non c'è partecipazione, e senza interiorità non c'è vera comunione con il mistero.
     Nessuna effervescenza a livello di gesti e di manifestazioni «carismatiche»  può sostituire l'intimo coinvolgimento della persona, che è, poi, ciò che dà la misura della autenticità della preghiera; perché solo a quel livello si realizza un vero contatto con Dio. Dice giustamente la Istruzione Generale della Liturgia delle Ore: «Perché questa preghiera sia propria di ciascuno di coloro che vi partecipano e sia parimenti fonte di pietà e di molteplice grazia divina, e nutrimento dell' orazione personale e dell' azione apostolica, è necessario che la mente stessa si trovi in accordo con la voce mediante una celebrazione degna, attenta e fervorosa» (IGLO 19).

     Se ne deve concludere che l'esercizio della mente, a meno che Dio stesso non lo sostituisca con una forma diversa di conoscenza, è necessario per ogni forma di preghiera, sia come preparazione o inizio sia come approfondimento.

     L'avere sottolineato il primato e la centralità dell' amore nella preghiera cristiana non deve ingenerare l'errore che la «meditazione» sia, in  fondo, qualcosa di marginale di cui si possa fare a meno. Essa, invece, è il fondamento normale e il sostegno di tutte le altre forme di preghiera. Se la mente è distratta, come si può parlare di preghiera? Se la vita dei consacrati si trova così pericolosamente sbilanciata al di fuori e se è così difficile ristabilire l'equilibrio nonostante che tutti siano d'accordo nel riconoscerne la necessità, dipende probabilmente proprio da questo. Le celebrazioni o cerimonie di preghiera forse sono addirittura aumentate, ma ciò che soprattutto si richiede è la partecipazione e il coinvolgimento intimo delle persone e questo non è possibile senza interiorità, senza raccoglimento e senza riflessione personale. Ora tutto ciò lo si impara, e lo si impara soprattutto con l'esercizio metodico e generoso della meditazione. Non si tratta qui di stabilire gerarchie, ma di prendere atto che non c'è preghiera senza partecipazione personale e che questa partecipazione è tale in misura che prende la persona nella sua interiorità.
     Trovarsi spontaneamente raccolti in Dio e perseverare nella sua intimità è un fatto eccezionale dovuto ad un particolare suo intervento o ad un avvenimento straordinario (gioia, disgrazia, delusione) che non dipende dalla nostra volontà. Ma proprio per questo il presumerlo o il presupporlo costituisce un grave errore che rischia di bloccare o sviare fin dall'inizio il cammino della preghiera. È necessario tenere in evidenza lo stretto rapporto che c'è tra meditazione e preghiera, perché ambedue gli aspetti sono normalmente necessari.

     Talvolta si rischia di eccedere nel ragionamento e di lasciarsi andare alla curiosità intellettuale o al gusto della ricerca teologica. Ne seguirebbe tutto un discorso solitario, fatto solo in compagnia di se stessi. Una tale riflessione ridotta a monologo non fa parte della. preghiera come tale e può, semmai, essere considerata come una preparazione remota. Conoscere, infatti, le cose di Dio è pur sempre un modo per avvicinarsi a Lui.

     Quanto detto spiega perché tutti i maestri di vita spirituale hanno costantemente insegnato che la meditazione sia iniziata e sostenuta da un atto intenso di presenza di Dio. Si tratta, in definitiva, di procedere nel ragionamento sotto il suo sguardo e, spesso, insieme a Lui che, ad esempio, ci insegna il Padre Nostro e ce ne fa penetrare il senso. Una riflessione così fatta (davanti o in compagnia) non genera solo convinzioni e propositi, ma porta anche al dialogo con il Signore che parla e risponde attraverso la storia della salvezza e le illuminazioni interiori dello Spirito, e si conclude in «promesse» o in programmi di comportamento presi insieme a Lui, e non solo in semplici decisioni personali che impegnano esclusivamente di fronte a se stessi.

     S. Teresa ammonisce: «quelli che sanno discorrere con l'intelletto, non devono impiegare in questo tutto il tempo dell'orazione, benché, trattandosi di un lavoro molto meritorio e delizioso, sembri loro di non dover avere nessun giorno di domenica né un istante di riposo. Quando non discorrono, credono di perder tempo, mentre io considero questa perdita come un guadagno assai grande. Come ho detto, invece, s'immaginino di essere alla presenza di Gesù Cristo, gli parlino e godano di star con Lui senza affaticare l'intelletto. Non si preoccupino di far ragionamenti, ma gli espongano semplicemente i loro bisogni, umiliandosi nella considerazione di quanto siano indegni di stare alla sua presenza. E per non annoiare l'anima col darle da mangiare sempre lo stesso cibo, ora facciano una considerazione e ora un' altra. Sono cibi molto saporiti e sostanziosi: se ci abituassimo a gustarli, ne avremmo tal sostentamento da dar vita all' anima, e molti altri vantaggi» (Vita 13, 11). «Tornando alla meditazione su nostro Signore alla colonna, di cui stavo parlando, è bene fermarsi alquanto a lavorare d'intelletto, pensando chi è che soffre, come soffre, perché soffre e l'amore con cui soffre. Tuttavia non bisogna affaticarci troppo. Essendo così vicini al Signore, occorre che l'intelletto sappia anche tacere, immaginandoci, per quanto ci sarà possibile, che il Signore ci stia guardando. Allora facciamogli compagnia, parliamo con Lui, supplichiamolo, umiliamoci, deliziamoci della sua presenza, ricordandoci sempre che siamo indegni di stargli innanzi. Quando un' anima può fare questi atti, ne avrà vantaggio, anche se è al principio dell'orazione, perché, come almeno io ho costatato, questo modo di pregare è assai utile» (Vita 13,22). 

     Ma più spesso succede di cadere nel rischio contrario, cioè  quello di voler procedere oltre nella preghiera e magari pretendere la gioia dell'intimità affettiva con Dio, senza volersi impegnare nella meditazione. Tale rischio nasce dal fatto che per molti non è per niente facile «raccogliersi» e, poi, «meditare». Oggi questa tentazione è favorita anche dalla nostra mentalità edonista che vorrebbe tutto e subito eliminando lo sforzo e la fatica. Lo «spontaneismo» ingenuo e infantile che rimanda la preghiera ai momenti in cui uno «ne ha voglia» dimenticando che essa non è una «voglia», ma una decisione libera e volontaria che uno deve essere capace di prendere «quando vuole», non è ancora scomparso e talvolta si presenta anche in espressione emozionali collettive artificialmente suscitate.

     Si sente ancora ripetere che la preghiera deve essere una esperienza immediata, intuitiva, spontanea, mentre la meditazione orientata al convincimento e all'affetto viene presentata come qualcosa di forzato, complicato e perfino insincero.

     Sta di fatto che, anche in contesto naturale, la percezione immediata della verità senza idee è difficile raggiungerla e ancor più  difficile mantenerla. Nel caso nostro, poi, c'è un dato ancora più importante e fondamentale: esso consiste nel fatto che la preghiera ridotta ad un puro sguardo contemplativo è esclusivo dono di Dio! Pretenderlo fin dal principio suppone una inconcepibile presunzione che costituisce un muro insormontabile perfino per la generosità di Dio. Ne segue che, senza riflessione, la orazione rischia di ridursi a superficialità e formalismo cui non corrisponde la vita; e le dichiarazioni di amore che non sgorgano da una profonda convinzione personale si esauriscono in un' astratta proclamazione che non ha alcuna incidenza nei comportamenti quotidiani. Ciò risulta particolarmente importante oggi, perché nel nostro mondo ciò che guida nelle scelte e nei comportamenti non è la logica della fede, ma quella dei valori umani, dell' efficienza, se non proprio il puro e semplice utilitarismo e consumismo. Le scelte cristiane sono quasi tutte contro corrente; per restare coerenti e fedeli non bastano le effervescenze momentanee del sentimento, sono necessarie motivazioni radicate e profonde.
     La semplificazione della preghiera ad un semplice sguardo di amore suppone un cammino di purificazione e di unificazione che non si presume all'inizio e che si prepara solo con grande sforzo, a causa della dispersione delle nostre facoltà e dei nostri gusti ancora troppo legati al sensibile e al materiale. Se è vero che la preghiera è un rapporto di amicizia (Vita 8, 5) e che il «colloquio affettivo» ne costituisce il «cuore», non è men vero che il colloquio ha dei contenuti e che il cuore ha esigenze ed espressioni umane proprio perché illuminato e guidato dalla intelligenza.

     Anche la «percezione» di Dio è favorita e si esprime man mano che si diviene più coscienti della vita che ci partecipa, si assimilano e si consolidano in noi i suoi pensieri e i suoi criteri, e che si traducono in una vita morale corrispondente. Ciò vuol dire che i motivi di fede devono essere ben chiari e definiti, perché non siano continuamente offuscati dalla logica corrente. Perché il dono di grazia si traduca in consapevolezza vissuta trasformando la vita è necessario, dunque, che la luce stessa della fede si incarni nelle idee umane che producano, a loro volta, nuove convinzioni e stimolino nuovi comportamenti. Senza riflessione personale è la conoscenza, cioè la fonte della vita più specificamente umana, che viene ad inaridirsi.
     A parte brevi elevazioni e particolari esperienze di grazia che si possono avere in vari momenti della giornata, si può parlare di preghiera sistematica e sufficientemente prolungata solo se ci si sforza di meditare. Altro è pronunciare una breve giaculatoria, altro è sostare per un'ora con l'unico scopo di incontrare e di parlare con il Signore. Per questo è necessario anche avere «argomenti» (idee) e «strumenti» (parole) di conversazione Se, ad esempio, ci mettiamo alla presenza di Cristo flagellato alla colonna, «l'intelletto deve indagare i motivi che gli possono far meglio comprendere l'acerbità dei dolori sofferti dal Signore in quell'abbandono, e le molte altre cose che a seconda della sua capacità può trovare, specialmente se è teologo. E questo è il metodo di orazione con cui tutti devono cominciare, proseguire e finire, non essendovi altra via più eccellente e sicura fino a che il Signore non ci elevi a cose soprannaturali» (Vita 13, 12). E’ evidente, del resto, che il pensiero è il primo mezzo di comunicazione e che, pertanto, per pregare bisogna cominciare a pensare.

     La meditazione discorsiva è necessaria perché la volontà  è cieca ed ha bisogno che le si presenti la materia (bene o bellezza da amare e desiderare), per essere attivata. Se gli affetti non sono stimolati e ci si mette a forzarli si dicono formule vuote e si perde soltanto tempo. Scrive ancora s. Teresa: “Se l’intelletto cessa di agire, l’anima si trova vuota e in preda a grande aridità (…) Pretendere di occupare da noi stessi le potenze dell’anima e arrestare la loro naturale attività, è sproposito grande e mancanza di umiltà” (Vita 12, 4-5). Lo stesso s. Giovanni della Croce, che si dimostra sempre contrario ad ogni eccessivo discorrere, avverte che per molti l'orazione è sterile proprio perché sospendono o trascurano l'attività dell'intelletto e della fantasia prima che la maturità interiore e Dio stesso vi suppliscano in modo più efficace (cfr. Salita del Monte Carmelo, lib. 2, c. 14, n. 6).

      Coloro che cominciano a fare orazione, dice s. Teresa, devono cavare acqua dal pozzo, cioè lavorare d'intelletto, avendo come soggetto delle loro meditazioni la vita di Gesù Cristo. Ma la cosa, aggiunge, è assai dura «perché devono faticare per raccogliere i sensi, i quali, abituati a divagarsi stancano assai» e, quindi, anche «l'intelletto si stancherà». Può perfino capitare che dopo tanta fatica non si riesca ad ottenere nemmeno un semplice sentimento di devozione o consolazione spirituale, ma ciò non deve scoraggiare perché Dio stesso opererà nella vita dell' orante e lo arricchirà di virtù (Vita 11, 9-10).

     È fondamentale tenere presente questa indicazione della Santa. La preghiera ha lo scopo di cambiare la vita (trasformare il campo pieno di erbacce in un giardino!), non di produrre consolazioni. Se si rimane fedeli il cambiamento si verificherà lo stesso, perché le strade di Dio sono infinite. «Che m'importa se di questi fiori e germogli (virtuosi) Egli vuole che alcuni crescano con l'acqua cavata dal pozzo (devozione) e altri senza? (aridità) (Ivi 12). «L'amore di Dio non sta nelle lacrime, e neppure in quelle consolazioni e tenerezze che ordinariamente si desiderano... Consiste invece nel servire Dio con giustizia, con fermezza d'animo e umiltà» (Ivi 13). E la preghiera, quando è sincera, otterrà dal Signore tutto questo. La riflessione su Dio e le cose di Dio crea famigliarità con Lui, e, dunque, avvicina e conforma a lui che è il Bene, facendoci diventare più buoni.
     Tuttavia, ciò non toglie che sia dura perseverare di fronte a risultati deludenti. S. Teresa ne è perfettamente cosciente. «Si tratta di travagli gravissimi ma che non sono senza premio. Io li ho sopportati per molti anni, tanto che quando mi riusciva di cavare qualche goccia da questo pozzo benedetto, mi pareva di ricevere una grande grazia» (Vita 11, 11).

     Queste parole della grande mistica possono apparire sorprendenti e non molto incoraggianti per chi si trova agli inizi; la Santa se ne rende conto ma non cerca di addolcire le cose, sollecita invece le sue figlie a non spaventarsi perché si tratta di intraprendere «la strada regale che conduce al cielo, sulla quale si guadagna un'infinità di beni, e non è certo strano che ci debba sembrare gravosa. Ma verrà giorno che innanzi a un bene così prezioso ci parrà tutto da nulla quanto si sarà fatto» (Cammino 21, 1). Questo vale soprattutto se si tiene presente la povertà spirituale e la condizione veramente precaria in cui si trovano le persone che, per ipotesi, stanno agli inizi del cammino. S. Teresa la descrive nelle prime tre Mansioni del suo Castello Interiore. Abbiamo, innanzitutto, un numero stragrande di persone che vivono fuori del castello e che, totalmente assorbite dalle faccende mondane, non pregano mai, esse stanno del tutto fuori strada; altre che sono combattute tra il mondo e desideri vaghi di conversione che, però, spesso rimangono inefficaci, e che solo talvolta producono qualche buon effetto; altre che avvertono chiaramente la necessità di dover cambiar vita, ma che si sentono impotenti di fronte alla lotta, ingolfate come sono nelle faccende del mondo; altre che hanno raggiunto un certo grado di vita spirituale e che combattono faticosamente contro le tendenze e le abitudini disordinate, con risultati altalenanti; altre, infine, che hanno già quasi vinto il mondo e la carne, ma che sono ancora troppo legate al proprio io e alle proprie vedute, al punto da voler imporre a Dio (oltre che agli altri, ovviamente!) i propri criteri e i propri programmi!

     Se si tiene presente tale quadro si capisce perché raccogliersi per mettersi in contatto ed in ascolto di Dio sia davvero difficile. Ci vuole uno sforzo enorme. Innanzitutto perché bisogna decidersi per Dio, cioè convertirsi, e questa, chiaramente, è la impresa più importante e difficile.

Non si tratta, certo, di modificare e rettificare in un attimo tutto il proprio comportamento morale per incominciare a pregare, si tratta, però, di cominciare a prendere sul serio Dio e la propria vocazione alla comunione con Lui; come si può, in effetti, applicarsi seriamente alla sua ricerca e gioire della sua presenza se Egli non occupa un posto importante nella vita? Il problema di fondo non sta nella difficoltà a raccogliersi e pregare ma nella vita disordinata che si conduce e che, per questo motivo, non ha alcuna sensibilità e non sente alcuna attrazione per i beni spirituali e divini. Per pregare, dunque, bisogna convertirsi e ritornare a Dio cominciando con l'eliminare gli idoli che ne hanno preso il posto. «Il Signore ama molto l'ordine e non opera nell' anima se non allora che la vede sgombra e tutta sua. In caso contrario non so in che modo possa agire. Se riempissimo il palazzo di gente bassa e di ogni. specie di bagattelle, in che modo il Signore potrebbe stabilirvisi con la sua corte?» (Cammino 28, 12).

     S. Teresa dice che «bisogna liberarsi da tutte le cure ed affari non indispensabili - ognuno in conformità del suo stato». Ciò, aggiunge, è di tanta importanza che se non si incomincia subito a farlo non solo non si progredirà mai, ma si finirà col tornare indietro (Mansioni I, 2, 14). «L'unica brama di chi vuol darsi all' orazione - non dimenticatelo mai, perché importantissimo - dev'essere di fare il possibile per risolversi e meglio disporsi a conformare la sua volontà a quella di Dio» (Mansioni II, 8). S. Giovanni della croce ribadisce lo stesso insegnamento con altrettanta chiarezza e decisione, quando parla della necessità assoluta di rompere con qualunque attaccamento abituale, fosse anche di poco conto, che non ci si decide mai di superare. Conviene riportare le sue parole:  “Ciascuna di queste imperfezioni, a cui l’anima si è attaccata e di cui si è formato l’abito, costituisce un grave ostacolo per chi vuol crescere e progredire nella virtù e gli è di impedimento maggiore di quanto non gli sia fatto di cadere ogni giorno in molte altre imperfezioni e in numerosi peccati veniali e che non procedono da abito cattivo. E’ superfluo ricordare che l’anima, finché non si sarà liberata da queste imperfezioni, anche se minime, non potrà fare alcun progresso nelle vie della perfezione. Per me non ha importanza che sia sottile o grosso il filo con cui è legato un uccello, perché questo rimarrà prigioniero, sia nell’uno che nell’altro caso, fino a quando non l’avrà spezzato. E’ vero che quello sottile si strappa più facilmente; tuttavia se non lo rompe l’uccello non può levarsi in volo (…) E’ cosa molto deplorevole che queste anime non si preoccupino di raggiungere un bene così importante perché non vogliono liberarsi per amore del Signore, che lo esige, da qualche inezia equivalente a un filo o a un capello, mentre Dio ha fatto loro spezzare dei legami più grossi di affezioni e di vanità peccaminose. A causa di questo attaccamento non solo non progrediscono ma, quel che è peggio, tornano indietro rifacendo a ritroso il cammino già percorso” (Salita, I,11,4.5).

     Questo insegnamento dei Santi Dottori ci dà ragione del fatto che molti, nonostante professino una via di perfezione non vi progrediscono affatto o, pur dichiarando di voler vivere una vita incentrata sulla preghiera, sono incapaci perfino di fare un po’ di meditazione
       E’ indispensabile, dunque, che nella impostazione della vita, Dio sia posto davvero al centro e al vertice delle proprie aspirazioni, e che i valori ordinati  a vivere la comunione con Lui siano i più coltivati. A questo punto segue spontaneo l’impegno a dedicarsi alla preghiera con “determinata determinazione” costi quel che costi (Cammino 23, 1-5). S. Teresa esige una assoluta determinazione perché sa che il cammino della preghiera è faticoso ed esigente. Ella parla di «disagi gravissimi» da lei stessa sperimentati, e ne dà anche qualche motivazione. La prima la trova proprio nella incoerenza della vita, come appena sottolineato: «Passai quasi venti anni in questo mare procelloso. Posso dire che la mia vita era delle più penose che si possano immaginare, perché non godevo di Dio, né mi sentivo contenta del mondo. Quando ero nei passatempi mondani, il pensiero di quello che dovevo a Dio me li faceva trascorrere con pena, e quando ero con Dio mi venivano a disturbare le affezioni del mondo. Era una lotta così penosa che non so come sono riuscita a sopportarla per un mese, nonché per tanti anni» (Vita 8, 2). La ragione di tale sofferenza è presto detta. Iddio, che prende il rapporto personale con noi molto sul serio, vuole essere preso sul serio; se il nostro cuore è pieno di vanità e di affezioni mondane il Signore non trova modo di stabilirvisi (Cammino 28, 12). Poiché, inoltre, tra affezioni terrene e gioie spirituali vi è incompatibilità (Vita 11, 3), è normale che chi vive ingolfato nelle soddisfazioni mondane diventa progressivamente insensibile a quelle spirituali; a questo punto i momenti dedicati all' ascolto e all' assimilazione dei beni superiori non raggiungeranno lo scopo e saranno sentiti solo come «tempo perso». Ed ecco, allora, che si ripresenta la tentazione di tralasciare la preghiera che con tanta fatica si era cominciata a praticare. Si troveranno ragioni di tutti i tipi, si farà ricorso perfino alla umiltà (cfr. Vita 19, 10-11), ma la unica ragione vera starà sempre nel fatto che, per noi, troppe cose contano più di Dio.

     Finché  le cose stanno così, non ci si illuda di progredire, anzi, come ci è stato appena ricordato dai Dottori mistici, si finisce col tornare indietro.

     Per evitare il rischio di cedere alla tentazione di abbandono, la Santa insiste sulla importanza, anzi sulla necessità assoluta della preghiera per realizzare la nostra vocazione, e, quindi, sulla determinazione incondizionata e definitiva a volerla praticare. Noi siamo fatti per la comunione con Dio, destinati a raggiungerlo e goderlo nella beatitudine eterna, «volere o non volere... tutte, benché in diversa maniera, camminiamo alla volta di questa fonte. Ma credetemi e non lasciatevi ingannare da nessuno: la strada che vi conduce è una sola, ed è l'orazione» (Cammino 21,6). Bisogna mettersi bene in mente che solo dalla orazione, cioè la conoscenza amorosa e il dialogo con il Signore, può avere inizio la nostra perfezione: «La porta per cui mi vennero tante grazie fu soltanto l'orazione: essa chiusa non saprei in che altro modo poterle avere. Se Dio vuole entrare in un' anima per prendervi le sue delizie e ricolmarla di beni, non ha altra via che questa perché Egli la vuole sola, pura e desiderosa di riceverLo» (Vita 8, 9). Il risvolto della medaglia è una vita totalmente inaridita dal punto di vista spirituale: «Mi diceva ultimamente un gran teologo che le anime senza orazione sono come un corpo storpiato o paralitico che ha mani e piedi, ma non li può muovere» (Mansioni I, 1,6,8). La conclusione segue logica: «Dico, dunque, che si deve prendere una risoluzione ferma e decisa di non fermarsi fino a che non si sia raggiunta quella fonte.

Avvenga quel che vuole avvenire, succeda quel che vuol succedere, mormori chi vuol mormorare, si fatichi quanto bisogna faticare; ma a costo di morire a mezza strada, scoraggiati per i molti ostacoli che si presentano, si tenda sempre alla meta, ne vada il mondo intero!» (Cammino 21, 2).

     Queste parole non hanno bisogno di commento: la via dell' orazione è  necessaria per raggiungere lo scopo della vita, ma, proprio per questo, costituisce un'avventura molto impegnativa ed esigente: solo chi la prende sul serio ed è disposto a pagarne il prezzo potrà procedere in essa. Tale prezzo, in un modo o in un altro, va pagato sempre, perché parte essenziale della nostra trasformazione in Dio, sia essa iniziale, progressiva o finale. Si tratta di una prova che, oltretutto, serve a purificare sempre più il nostro amore e a dimostrarne l'autenticità. Su questo punto ci si inganna molto più facilmente di quanto si pensi; quando le cose procedono a modo proprio tutti trovano spontaneo proclamare l'amore per Dio, ma è solo la difficoltà che serve «per provare se lo amano davvero, vedere se sapranno bere il suo calice e aiutarlo a portare la croce» (Vita, 11, 11).

Non per nulla sono pochi coloro che perseverano o progrediscono nella via della preghiera. Per s. Teresa è certo che «la causa consiste, in gran parte, nel non avere abbracciata la croce con generosità fin da principio» (Ivi, 15) e nell' aver scambiato la preghiera con la emozione sentimentale. Invece la preghiera è difficile perché esige il cambiamento della vita e delle abitudini. Non si tratta solo di dare un po' di tempo al Signore: è tutta la vita che bisogna mettergli a disposizione. Ma quando essa è tutta dispersa e schiava di tanti attaccamenti terreni e carnali, noi stessi ci sentiamo tirati in tutte le direzioni e ci rimane estremamente difficile raccoglierci in Dio e trovare in Lui la nostra pace. La prima croce consiste spesso proprio nel lavorare con fatica per raccoglierci, senza riuscire ad avere sentimenti di devozione o pregare con soddisfazione. Ma bisogna accettare questa situazione di aridità e, invece che «preoccuparci se non sentiamo devozione, ringraziare Dio che ci permette di desiderare di contentarlo, nonostante la miseria delle nostre opere» (Vita 12,3). «Per non intraprendere la fabbrica di questo grande e prezioso edificio in maniera troppo volgare, colui che comincia non deve neppur pensare alle consolazioni, perché se inizia il lavoro sulla sabbia, esso finirà col cadere, ed egli non potrà sottrarsi ai disgusti e alle tentazioni. Non è in queste mansioni che la manna viene dal cielo, ma più innanzi, là dove l'anima ha tutto quello che vuole, perché non vuole se non quello che vuole Dio» (Mansioni II, 7).

     La tentazione di saltare la «fatica» della meditazione per immergerci subito nella «quiete delle potenze» ha come unico risultato quello di portare al dormiveglia e alla perdita di tempo. Oggi, come dicevamo, questa tentazione è resa più frequente dal cosiddetto «spontaneismo» che vorrebbe ancorare la preghiera alla «voglia» del soggetto, dimenticando che la volontà non è affatto la «voglia». In effetti, se, per pregare, aspetto di averne voglia finirò infallibilmente col non pregare più. In questa nostra cosiddetta epoca postmoderna tale tentazione rischia di raggiungere anche gli «intellettuali», favorita dall' abbandono della metafisica e dal trionfo del «pensiero debole» che considera perfettamente inutile se non addirittura dannosa ed ingannevole la fatica della mente per cercare e trovare Dio. Ad un Dio «conosciuto» con l'aiuto della ragione si preferisce un Dio «sentito» con l'aiuto del sentimento e dell'emozione. La conseguenza è che l'incontro con Dio si riduce alla esperienza emozionale che si ha di Lui; ed il criterio che verifica la verità del proprio sentimento è la risposta soddisfacente che esso dà ai propri bisogni. Alla fine Dio scompare e ciò che rimane è la ricerca di soddisfazione dei propri bisogni. Non Dio, ma le soddisfazioni di Dio. E questo (oltre che una deformazione della preghiera cristiana) costituisce, secondo i maestri spirituali, un ostacolo insormontabile per qualunque progresso nel cammino della preghiera. In perfetta sintonia con la mentalità consumista anche Dio diventa un bene di consumo e, come tutti i beni, destinato ad essere esaurito e cambiato. Espressione tipica di tale forma di religiosità è oggi sicuramente il New Age per il quale Dio è sempre un oggetto fruibile attraverso il sentimento e l'esperienza emozionale; ma non di rado anche certe manifestazioni di gruppo dove l'esperienza religiosa più che l'incontro con Dio, realizzato nell’atto con cui diciamo sì e facciamo nostra la sua volontà, sembra avere come causa l'esaltazione e l'entusiasmo generale, e come contenuto l’emozione sentimentale.

      S. Teresa, che pure ha sempre sottolineato come la preghiera sia soprattutto un rapporto di amore (Vita 8, 5) e che, pertanto, essa consiste più nel molto amare che nel molto pensare (Fondazioni 5, 2; Mansioni IV, 1, 7), ritiene che non ha senso credere di poter pregare senza raccogliersi e senza riflettere su quello che vogliamo fare, a chi stiamo parlando e cosa gli stiamo dicendo. Rivolgendosi a coloro che si ritengono incapaci di raccogliersi e di esercitarsi in considerazioni dell'intelletto e che, pertanto, rinunciano in partenza ad impegnarsi nell' orazione mentale, la Santa offre alcune indicazioni preziose, molto utili anche per noi. Le riassumiamo con le sue stesse parole: «Non voglio parlarvi di certe preghiere assai lunghe, perché le anime incapaci di fissarsi in Dio può darsi che si stanchino anche di quelle; ma soltanto delle preghiere che come cristiani dobbiamo necessariamente recitare: il Pater Noster e l'Ave Maria. Non bisogna che si dica di noi che parliamo senza sapere quello che diciamo, a meno che non vogliamo essere di quelle persone a cui basta agire per abitudine, paghe soltanto di pronunciar parole (…) Quando io recito il Credo, mi pare ragionevole che mi renda conto e sappia ciò che credo; e quando dico il Pater Noster, mi sembra che l'amore esiga che io intenda chi sia questo Padre e chi il Maestro che ci ha insegnata tale preghiera» (Cammino 24, 3). «È chiaro che non si può parlare con Dio nel medesimo tempo che con il mondo, come fanno coloro che mentre recitano preghiere, ascoltano ciò che si dice d'intorno, o si fermano a quanto vien loro nella mente, senza alcuna cura di raccogliersi»(Ivi, 4). «È bene inoltre considerare che il Signore ha insegnato e continua a insegnare questa sua preghiera a ciascuna in particolare. Il Maestro non è così lontano dal discepolo d'aver bisogno di alzare la voce. Anzi, gli è molto vicino, e io vorrei che per ben recitare il Pater Noster, foste intimamente persuase di non dovervi mai allontanare da chi ve l'ha insegnato» (Ivi, 5). «Direte che questo è meditare, mentre voi non potete né volete far altro che pregare vocalmente. Vi sono infatti persone così amanti del proprio comodo da non volersi dare alcuna pena. Non essendo abituate a meditare, e trovando in principio qualche difficoltà a raccogliersi, preferiscono sostenere, per evitarne la molestia, che esse ne sono incapaci e che sanno pregare soltanto vocalmente. Dite bene quando affermate che il metodo suddetto è già meditazione; ma io vi dichiaro che non so comprendere come l'orazione vocale possa essere ben fatta, quando sia separata dal pensiero di Colui a cui ci rivolgiamo. O che forse non è doveroso, quando si prega, pregare con attenzione? Piaccia a Dio che riusciamo a dire bene il Pater Noster anche con questi mezzi, senza cadere in mille pensieri stravaganti! Io ne ho fatto spesso l'esperienza, e so che il miglior rimedio alle distrazioni è di applicarmi a tenermi fissa in Colui a cui mi rivolgo. Abbiate, dunque, pazienza, e procurate di abituarvi a questa pratica che è tanto necessaria» (Ivi, 6).

     Bisogna cominciare con lo sforzo di raccoglimento attraverso la meditazione, riflettendo soprattutto sul mistero di Cristo, aiutandosi magari con un buon libro (Cammino 26, 10; Vita 4, 9), qualche immagine devota (Cammino 26,9; Vita 9, 6) o il contatto con la natura (Vita 9, 5). «Pensando e meditando quello che il Signore ha fatto per noi, ci sentiamo muovere a compassione, ne abbiamo pena e ci viene da piangere: tutte cose che ci sono da diletto». È questo quello che possiamo raggiungere con la nostra iniziativa. Voler procedere oltre, verso la preghiera contemplativa, è sforzo vano perché essa è puro dono di Dio, e noi possiamo disporci ad accoglierlo unicamente restando fedeli alla preghiera meditativa, nonostante le difficoltà. «L'anima che Dio non ha portato più in su di qui, è bene che se ne contenti, né faccia sforzi per salire da sé: cosa da tenere bene in mente, perché in caso contrario non si avrebbe che del danno» (Vita 12, 1). «Questo, dunque, è quello che possiamo fare da noi. Chi non vuole curarsene e cerca di elevare lo spirito ad assaporare dolcezze che in quello stato non trova, perde l'una e l'altra cosa, perché trattandosi di dolcezze soprannaturali, se l'intelletto cessa di agire, l'anima si trova vuota e in preda a grande aridità» (Vita 12, 4). Sarà Dio stesso a sospendere l'intelletto, quando vuole elevare l'anima ad un grado superiore, non possiamo «presumere di sospenderlo noi, perché se lasciamo di lavorare con l'intelletto, rimaniamo freddi e intontiti, incapaci non solo di contemplazione ma anche di meditazione... Pretendere di occupare da noi stessi le potenze dell'anima e arrestare la loro naturale attività, è sproposito grande .e mancanza di umiltà. Anche se lo si fa senza accorgersi, e perciò senza colpa, vi è sempre la pena, perché, pur prescindendo dalla fatica che ci imponiamo inutilmente, l'anima rimane male, come colui che, già pronto per spiccare un salto, si sente trattenere dietro» (Vita 12,5, cfr. 22,11-12).


Conclusione
     Nella Novo Millennio Ineunte il Papa, dopo aver invitato a «porre la programmazione pastorale nel segno della santità» ed aver sottolineato la esigenza di «una vera e propria pedagogia della santità» (n. 30), pone come primo valore, da proporre e sviluppare, la preghiera. La stessa «diffusa esigenza di spiritualità si esprime in un rinnovato bisogno di preghiera» (n. 33), ed è per mezzo di questa che quella può in gran parte trovare realizzazione. È la preghiera «il segreto di un cristianesimo veramente vitale, che non ha motivo di temere il futuro, perché continuamente torna alle sorgenti e in esse si rigenera» (n. 32). È essa che segna le tappe progressive della santità e «approda, in diverse forme possibili, all'indicibile gioia vissuta dai mistici come "unione sponsale"», come attesta «tra tante luminose testimonianze, la dottrina di s. Giovanni della Croce e di s. Teresa di Avila» (n. 33). Ma la preghiera costituisce anche il necessario punto di partenza del cammino, e questo punto di partenza si chiama meditazione.

     Anche per s. Teresa, notoriamente portata a sottolineare l'aspetto affettivo della preghiera, la meditazione è necessaria per poter pregare davvero. Anzi, nella misura in cui il pregare è lasciato alla nostra iniziativa, (e questa è la norma per i principianti che cominciano a «cavare acqua dal pozzo»), la meditazione anche se sofferta e faticata, è semplicemente indispensabile; se si pretende di farne a meno la preghiera «vocale» si traduce in puro automatismo, e quella «contemplativa» in semplice fantasticheria. Da una parte perché, senza attenzione, l'azione non è nemmeno umana; dall' altra perché la «contemplazione» è dono di Dio, ed è vana presunzione credere di poterla raggiungere da sé, per di più senza sforzo! La meditazione costituisce il primo passo, obbligatorio, per inoltrarsi nel cammino della preghiera. Senza di essa nemmeno si parte, e tutto il resto, anche le formule e le espressioni più grandiose, rischiano di essere costruzioni non solo vuote, ma fondate sulla sabbia e destinate a cadere.

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