Il Castello Interiore. Breve
presentazione
P. Eduardo Sanz de Miguel,
o.c.d.
Santa Teresa
d’Avila è dottore della Chiesa, il che significa che ha una dottrina «eminente»
da insegnare. Lei ne era cosciente e, nei suoi scritti, molte volte annota che
un capitolo è di molto profitto o contiene buoni insegnamenti, acquisiti con
l'esperienza e la riflessione (lei lo chiama «consideración»), la lettura di
numerosi libri, il confronto coi migliori intellettuali del suo tempo (i
«letrados»), o perché glielo ha comunicato direttamente il Signore. È dottore
per le cose che insegna ed anche per come le insegna: ha conquistato alcune
verità con molto sforzo ed è fermamente convinta che possano essere utili per
gli altri, per cui le espone con entusiasmo.
Soffrì i
pregiudizi della società del suo tempo contro la possibilità che una donna
insegnasse. Perciò dovette sviluppare numerose risorse, per avere
l'approvazione dei suoi censori e consiglieri. Ricordiamo le sue difficoltà
all'inizio della sua vita spirituale, quando cercava luce per comprendere
quello che stava vivendo: «Se mi chiedevano qualcosa, io rispondevo con
franchezza, senza darmi eccessivo pensiero di quel che dicevo, e subito
sembrava loro che volessi istruirli, ritenendomi sapiente» (V 28,17). Per questo
motivo, aggiunge: «Non osavo contraddire coloro che mi avversavano, vedendo che
era peggio perché lo ritenevano un segno di poca umiltà» (V 29,4). Col tempo,
riuscirà ad acquisire i mezzi necessari per potere trasmettere il suo
insegnamento senza provocare rifiuti. Per esempio, quando affronta quei
«letrados» che affermavano che la vera contemplazione consisteva nel
dimenticare tutte le cose create, compresa l'umanità di Gesù Cristo, per salire
alla nuda essenza divina. Lei scrive: «Io non voglio contraddirli, perché sono
persone dotte e spirituali che sanno quello che dicono […]. Qui soltanto voglio
dire come Dio ha condotto la mia anima – delle altre cose non voglio occuparmi
–» (V 22,2). Tuttavia, dedica tutto il capitolo ad esprimere le sue idee ed a
confutare quelle dei suoi avversari. Sul tema tornerà diverse volte, come
quando afferma: «Su questo ho già scritto a lungo in un'altra parte, e benché
mi hanno contraddetto e dicono che non lo capisco […], non mi faranno
confessare che è buona strada […]. E guardate che oso dire di non credere a chi
vi dice un'altra cosa» (6M 7,5). Gli studi contemporanei hanno dimostrato che
Santa Teresa scrive con una chiara intenzione didattica, perché è cosciente di
possedere la dottrina che trasmette.
Come non si può
capire la Bibbia se si ignorano i generi letterari, così non si può capire il Castello Interiore se non si tiene conto
di quello che dice Teresa, di come e perché lo dice e di quello che ella non
dice (e che possiamo rintracciare nelle sue lettere e altrove).
Oggi non si
possono continuare a scrivere cose come questa se non si vuole sfiorare il
ridicolo: Commentando il comando di scrivere dato da P. Graziano a Teresa: «A
questa uscita, che certamente non si aspettava, la Santa si sentì costernata e
supplicò con ardore il P. Gracián di non ingiungerle quel comando, di lasciarla
filare la sua conocchia e seguire gli atti di comunità con tutte le altre. Ma
il superiore non si smosse. [...] Mentre la Santa andava pensando al modo di
cominciare il lavoro, Dio venne in suo aiuto con una splendida visione. Già da
tempo la Santa desiderava vedere un’anima in grazia, e il Signore, che dispone
le cose con soavità e sapienza, esaudì i desideri della sua serva» (Egidio di
Gesù, prefazione alle Mansioni,
edizioni ocd). Poi racconta come lo scrisse in estasi e addirittura che il
foglio da solo si riempie di parole, mentre lei è in un rapimento. (Certo, la
traduzione e le introduzioni di P. Egidio sono state fatte verso il 1950, però
sono quelle che abbiamo fino al presente).
Da una parte, l’immagine
del castello interiore l’aveva già sviluppata prima, anche se non parlando di «castello»
bensì di «palazzo»: «Immaginiamo che dentro di noi vi sia un palazzo dalla
gradissima ricchezza, interamente costruito in oro e pietre preziose, così come
si confà ad un tal Signore. [...] Non esiste edificio di tal bellezza come
un’anima limpida [...]. E pensate che in questo palazzo vi abita il gran Re» (C
28,9-12).
D’altra parte, Teresa
ha manifestato diverse volte il suo desiderio di scrivere questo trattato. Lei ha
datato l’inizio della redazione di Mansioni:
«Incomincio questa obbedienza oggi, festa della Santissima Trinità [2 giugno] dell’anno
1577 a Toledo». (Prol 3). Cinque mesi prima, lei stessa confessa apertamente:
«Ho mandato a chiedere il libro (si riferisce alla sua Autobiografia) al Vescovo, perché forse avrò voglia di finirlo
aggiungendovi quello che poi mi ha detto il Signore. Si potrebbe farne un altro
ed anche grosso, se il Signore vuole che riesca ad esprimermi, se no, non si
perde molto» (Lettera a suo fratello
Lorenzo, 17 gennaio 1577). Dunque, lei voleva scrivere da tempo e, siccome
sapeva che quella attività era vietata alle donne, che il Libro della Vita è all’Inquisizione, che l’hanno costretta a
bruciare il suo Commento al Cantico dei
Cantici... allora se lo fa comandare da altri (il provinciale e il confessore).
Non è stato facile, però ci è riuscita senza che loro se ne accorgessero.
P. Graziano racconta
di una conversazione che ebbe con Teresa nel parlatorio del convento di Toledo.
Ad un certo momento lei esclama (non è la prima volta): «Oh, com’è spiegata
bene questa cosa nel libro della mia Vita
che si trova all’Inquisizione! Io allora le dissi: Giacché non possiamo avere
più quel libro, faccia memoria di ciò che in esso ha scritto, aggiunga altre
cose e ne componga un altro, trattando la materia in generale, senza nominare
la persona interessata. E così le comandai di scrivere questo libro delle Mansioni». In un’altra occasione, lo
stesso Graziano dice: «Trovandomi a Toledo, la convinsi con molta insistenza
che scrivesse il libro che si chiama Le
Mansioni. Lei mi rispose: Perché vogliono che scriva? Scrivano i letterati
che hanno studiato, perché io sono una sciocca e non saprò quello che dico;
metterò un vocabolo al posto di un altro e che danno farei! Sono stati scritti
profondi libri di cose di orazione: per amor di Dio mi lascino filare la conocchia
ed occuparmi del mio coro e degli atti di comunità come le altre sorelle,
perché io non son fatta per scrivere né ho salute né la testa per farlo». La
conversazione ebbe luogo a fine maggio e il due giugno Teresa iniziava l’Opera,
il che vuol dire che prima dell’ordine di Graziano aveva già le idee chiare e
che aveva acquistato in precedenza la carta, le penne e l’inchiostro
necessario.
Sia Graziano
(provinciale) che Velázquez (confessore, poi vescovo di Soria) testimoniano che
loro comandarono alla Santa di scrivere e non si accorsero che lei più volte
aveva parlato loro del Libro della Vita,
dicendo che era nelle mani dell’Inquisizione, che le monache volevano avere un
suo scritto sulla preghiera, che quello che lei aveva già scritto era molto
interessante ma che, purtroppo, non ce l’avevano più... Finalmente, l’uno e
l’altro le comandano di scrivere. Infatti, lei non voleva iniziare l’opera
senza che glielo comandasse qualcuno con autorità. Così nessuno avrebbe potuto dire
che lo faceva di propria iniziativa e che voleva insegnare e che le donne
devono tacere e le solite storie che tante volte aveva sentito dire rivolte a
lei.
Si può vedere la
sua soddisfazione per il risultato, dal fatto che, appena conclusa la redazione,
scrive a Padre Salazar, dando il suo parere sull’opera: «Le si fa sapere che la
faccenda per la quale si è scritto da Toledo a quel personaggio [si tratta del
Grande Inquisitore)] non ha avuto alcun risultato. Si sa con certezza che quel
gioiello [allude al Libro della Vita]
è nelle sue mani, e anche che ne fa grandi elogi; pertanto, finché non se ne
stancherà, non lo darà: ha detto, anzi, che voleva esaminarlo a fondo. Si dice
che se il Signor Carrillo [allude allo stesso Padre Salazar] venisse qui
vedrebbe un altro gioiello [il Castello
Interiore] – che da quanto si può capire – lo supera in valore…, dal
momento che alla sua prima opera l’orefice [lei stessa] non era così abile. E’
stato fatto per ordine del Vetraio [allude a Cristo]» (Lettera del 7 dicembre 1577). Scrive a Padre Gracián: «A mio
giudizio, il libro da me scritto dopo (allude al Castello Interiore), lo supera, anche se fra Domenico Báñez dice
che non è buono; per lo meno avevo più esperienza di quando ho composto il
primo (quello della Vita)» (Lettera 10-11 gennaio 1580).
È vero che ripete
che scrive solo per le sue monache e che sarebbe pazzia pensare che possa
dirigersi ad altri. Se leggiamo con attenzione, però, vedremmo che
continuamente dice cose come queste: «Se io fossi persona che dovesse
consigliare a chi ha famiglia, direi loro... Se io dovessi dare il mio parere
sull’argomento...» Perché è cosciente dei rischi che dovrà affrontare, afferma
che lo scrivere è cosa di letterati e che lei non lo è e che scrive solo perché
glielo hanno comandato molto (il che è vero, anche se è stata lei stessa a
farselo comandare).
È anche vero che
Teresa non trova il linguaggio adatto per l’ineffabilità del mistero,
specialmente quando deve parlare delle ultime Mansioni, quelle mistiche: «In
che modo, sorelle, vi potrei parlare delle ricchezze, dei tesori e delle
delizie che si trovano nelle Quinte Mansioni? Di queste, come di quelle che ancora
restano, sarebbe meglio non parlare, perché non vi sono termini sufficienti,
come non vi è intelletto per comprenderle, né paragoni per spiegarle» (5M 1,1).
Il simbolo del matrimonio, per esempio, «è un paragone grossolano eppure non
trovo nulla che faccia meglio intendere queste cose come il sacramento del
matrimonio» (5M 4,3); e le immagini di cui si serve per evidenziare la
differenza fra fidanzamento e matrimonio la fanno ridere: «Rido di questi
paragoni, non mi soddisfano: ma non ne so altri» (7M 4,11). Eppure è cosciente
che ha una parola da dire e che c’è necessità che qualcuno scriva su queste
cose per illuminare coloro che vogliono intraprendere una vita seria di
orazione: «Benché ci parlino spesso della eccellenza dell’orazione che le
nostre Costituzioni ci impongono per
varie ore, però non ci spiegano quello che vi possiamo fare, e poco ci dicono
dei fatti soprannaturali che Dio opera nell’anima» (1M 2,7).
Alla fine della
stesura ricorda ancora una volta che lei lo ha fatto per obbedire ai suoi
superiori, ma si confessa soddisfatta del risultato: «Come ho detto in
principio, quando cominciai a scrivere queste pagine, lo feci con grande
ripugnanza, ma ora che ho finito, sono molto contenta e ne ritengo per bene
impiegata la fatica, del resto non molto grande» (Epilogo, 1). Non commette più
l’imprudenza di riconoscere che ha scritto per insegnare, come aveva fatto nel Libro della Vita, allora nelle mani
dell’Inquisizione: «Di qui si può cavare molta buona dottrina, giacché scopo
principale di questo scritto, come già si disse (oltre a quello di obbedire a
chi l’ha comandato), è di narrare quelle grazie che possono giovare alle anime»
(V 40, titolo). Eppure dice ripetutamente: «Queste sono parole utili e ci sono
spunti importanti» (1M 2, titolo). «Offre spunti interessanti» (3M 1, titolo),
ecc.
È ancora recente
il processo inquisitorio a Siviglia (1575-1576). Il Libro della Vita è all’Inquisizione di Valladolid. A Toledo si
trova incarcerata: «Mi fanno pervenire un ordine, dato nel Definitorio
(Capitolo Generale di Piacenza) non solo perché non fondassi più, ma perché per
nessun motivo uscissi dalla casa dove scelsi di stare, perché è come fosse una
forma di carcere» (F 27,20). «Sono venuta a conoscenza dell’Atto del capitolo
generale, che m’impone di non uscire dalla mia casa. [...] Il padre fra Angelo dice
che sono apostata e scomunicata» (Lettera
a Rossi di fine gennaio 1576).
Da Toledo scrive:
«Mi sono state causa di gran dolore [...] le accuse rivolte contro di noi,
specialmente le più infami, che sono aberrazioni» (Lettera a Maria di San Giuseppe, 28 febbraio 1577). Gli
«spropositi» che imputavano loro erano «che legavamo le monache dai piedi e
mani e le frustavamo; e Dio avesse voluto che tutte le accuse fossero state
come questa. Oltre una calunnia così grave, diceva mille altre cose…» (Lettera a Maria Battista, 29 aprile
1576).
«Cominciarono
grandi persecuzioni contro gli scalzi […]. Un poco ancora e la Riforma sarebbe
stata distrutta» (F 28,1). L’originale non parla di Riforma, ma dice: «Estuvo a
punto de acabarse todo». Che cosa accadde? Morì il Nunzio Ormaneto (amico degli
scalzi) e venne uno nuovo, Filippo Sega (opposto alla sua opera, perchè donna):
«Morì un Nunzio santo, che favoriva molto la virtù, e così stimava gli scalzi.
Gliene successe un altro, che sembrava lo avesse inviato Dio per esercitarci
nella pazienza. [...] Veniva ben determinato a far sparire tutte le nostre
case, veniva contro gli scalzi e contro di me» (F 28,3). Il visitatore calzato
approfitta dell’occasione e ordina la prigionia di Giovanni della Croce.
Teresa aveva 62
anni e nelle lettere dell’epoca si lamenta ripetutamente dei suoi dolori di
testa: «La mia paura è stata quella di restare invalida per sempre.» (Lettera a Lorenzo de Cepeda, 27-28
febbraio 1577). «Quanto al male della mia testa, il miglioramento che ho è di
non avvertire tanta debolezza, perché posso scrivere e lavorare più del solito,
ma il ronzio è sempre lo stesso e molto penoso» (Lettera a Maria di San Giuseppe, del 28 giugno 1577).
Sono passati
quattordici anni da quando ha scritto la sua Autobiografia. Sono anni di intenso lavoro fondazionale e di grande
sforzo intellettuale per la redazione dei suoi libri: Vita, Cammino di Perfezione, Commento al Cantico dei Cantici, Fondazioni...
Si trova nello stato del “matrimonio spirituale”, culmine del processo che
racconterà nelle Settime Mansioni. Quando
scrive il nuovo libro, dice: «Mi sembra di avere un poco di più di luce su
questi favori che Dio accorda alle anime» (4M 2,7). E anche nel prologo aveva
detto: «Credo bene che devo saper dire un poco di più».
Con le difficoltà
storiche a cui abbiamo accennato e con le capacità umane che aveva acquisito
con l’esperienza, possiamo capire perché prenda misure per assicurarsi che la
sua opera non venga condannata. Solo con questa chiave di lettura possiamo
capire i suoi continui riferimenti al fatto che scrive per obbedienza e i
riferimenti che fa all’incapacità delle donne di scrivere o capire queste cose.
Intanto, lei scrisse e riuscì a salvare il suo scritto e a consegnarlo ai
posteri.
Teresa ci
presenta nelle prime linee l’immagine principale che userà per «iniziare con
qualche fondamento»: «Possiamo considerare la nostra anima come un castello
fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo, nel quale vi sono molte
mansioni, come molte ve ne sono in cielo» (1M 1,1). Teresa non ci offre mai una
spiegazione dettagliata del simbolo. E’ presente in tutte le sue pagine, come
se stesse all’ombra, emergendo ogni tanto. Però, quando l’occasione lo richiede,
fa ricorso ad altri paragoni per spiegare un punto concreto dello sviluppo
spirituale, come le due fonti (per spiegare l’effetto che fanno nell’anima la
grazia –fonte d’acqua chiara– e il peccato –fonte d’acqua sporca e avvelenata–,
4M 2,2-6), il simbolo del baco da seta che rinasce in farfalla (per esprimere
il passaggio dal naturale al soprannaturale, 5M 2,2) e quello dei due Sposi (che
vivono un rapporto d’amore che sfocia nell’unione trasformante: conoscersi e stabilire
una relazione personale, 5M; il fidanzamento
e la promessa ferma di matrimonio, 6M; e il matrimonio come esperienza di
comunione profonda, 7M).
Il «Castello» è
l’uomo. Lei parla dell’anima per indicare l’essere umano, perché così può
parlare al femminile e identificarla con la sposa di Cristo. Il «recinto (o le
mura) del castello» è il corpo. La «porta» per entrarvi è l’orazione. Il «padrone»
del castello è l’uomo stesso (l’anima) e Dio è «l’ospite» che dimora nella
stanza principale. Le «Mansioni» (o «Dimore») sono i diversi modi con cui
l’uomo vive la sua relazione con Dio. Le «guardie», «operai», «maggiordomi», «maestranze»...
sono le potenze dell’anima, le sue capacità, che dovrebbero essere al suo
servizio, che però alle volte lottano contro di lui perché sono abituate male.
Gli «insetti», le «bestie», le «cose velenose» che si trovano fuori e impediscono
l’ingresso dell’anima in sé, sono i «peccati», le «tentazioni», i «nemici
dell’anima» (mondo, demonio e carne).
A partire della
propria esperienza e di quella che lei ha visto nelle sue consorelle, Teresa
vuole scrivere un vero «trattato» di vita spirituale, un libro che parli
ordinatamente della orazione, partendo dalle forme più semplici, proprie degli
inizi, per arrivare alle vette della vita mistica, con speciale riferimento
alle ultime tappe, a «i fatti soprannaturali che Dio opera nell’anima» (1M
2,7). Così esplicitamente lo qualifica Teresa: «Questo trattato, chiamato Castello
Interiore…» E così lo riconosce anche l’attuale Pontefice: «L'opera più
famosa di santa Teresa è il Castello Interiore,
scritto nel 1577, in piena maturità. Si tratta di una rilettura del proprio
cammino di vita spirituale e, allo stesso tempo, di una codificazione del
possibile svolgimento della vita cristiana verso la sua pienezza, la santità,
sotto l'azione dello Spirito Santo. [...Per Teresa], la preghiera è vita e si
sviluppa gradualmente di pari passo con la crescita della vita cristiana:
comincia con la preghiera vocale, passa per l'interiorizzazione attraverso la
meditazione e il raccoglimento, fino a giungere all'unione d'amore con Cristo e
con la Santissima Trinità» (Benedetto XVI, 02-02-2011).
Teresa parte dalla
dignità e dalla grandezza dell’anima, dalle sue immense potenzialità (purtroppo
abitualmente non sviluppate) e ci invita a pensare che abbiamo un affascinante
«mondo interiore» da esplorare (4M 1,9): «Non vi è nulla che possa paragonarsi
alla grande bellezza di un’anima e alla sua immensa capacità! Il nostro
intelletto, per acuto che sia, non arriverà mai a comprenderla, come non potrà
mai comprendere Iddio, alla cui immagine e somiglianza noi siamo stati creati»
(1M 1,1). La più grande capacità dell’uomo è la sua apertura radicale
all’infinito, a Dio. Si ammira dal fatto che possiamo avere conversazione
«niente di meno che con Dio» (1M 1,6).
Sottolinea le
nostre «immense capacità» (fisiche, intellettuali e spirituali), con
l’intenzione di provocare in noi il desiderio di conoscerle e di svilupparle. Si
lamenta del nostro disinteresse per queste cose: «Che confusione e pietà non
potere, per nostra colpa, intendere noi stessi e conoscere chi siamo! Non
sarebbe grande ignoranza, figliuole mie, se uno, interrogato chi fosse, non
sapesse rispondere, né dare indicazioni di suo padre, di sua madre, né del suo
paese di origine? Se ciò è indizio di grande ottusità, assai più grande è senza
dubbio la nostra se non procuriamo di sapere chi siamo, per fermarci solo ai
nostri corpi… Le nostre preoccupazioni si fermano tutte alla rozzezza del muro
di cinta, alla cerchia delle mura del castello, ossia a questi nostri corpi»
(1M 1,2). Ci invita a prendere coscienza della grandezza e dignità dell’uomo, delle
sue inmense capacità. Teresa spiega il suo mistero all’uomo che di solito si
ferma solo al suo corpo e alle sue pulsioni primarie. Tattica per provocargli
il desiderio di conoscersi e per fargli capire le proprie responsabilità nella
costruzione di sè stesso. Con le sue scelte può restare sottosvilupato o
crescere fino alla pienezza per cui è stato creato.
I libri sulla
preghiera tante volte non dedicano nessuna attenzione alla conoscenza del
proprio io. Oggi sembra che di esso si debba occupare solo la psicologia.
Tuttavia, per Santa Teresa, la conoscenza di sé (di cui ne parla in 20
occasioni) ha un'importanza fondamentale nella vita spirituale, fino al punto
che non c’è vera preghiera senza di essa. La conoscenza di sé è il primo grado
della preghiera, la prima Mansione, e non ci sono vere grazie mistiche senza una
previa conoscenza di sé. Per giustificare che non devono cercarsi le esperienze
straordinarie, se Dio non le dà, offre sei ragioni, tra le quali: «la prima,
perché è mancanza di umiltà volere che vi sia dato quello che non avete
meritato […]. Come un povero contadino sta lontano dal desiderare di essere re,
perché la cosa gli sembra impossibile, sapendo che non lo merita, così l'umile
di fronte a queste grazie. Le quali, a mio parere, non sono concesse che agli
umili, perché Dio dà prima la conoscenza propria che fa quelle grazie» (6M 9,15).
Lo aveva già detto in altre opere sue: la conoscenza di sé non si limita ad una
pratica degli inizi, ma deve accompagnare tutto il processo della preghiera e
crescere con essa: «La meditazione sulla conoscenza di sé non si deve mai
tralasciare, perché non c’è anima che nel cammino dello spirito sia così
gigante da non aver bisogno di ritornare spesso a essere bambina e a succhiare
il latte materno (questo non lo si dimentichi mai, e forse lo dirò più volte,
perché ha molta importanza), non essendoci uno stato di orazione così elevato
che spesso non sia necessario rifarsi dal principio. La conoscenza di sé e dei
propri peccati è il pane che in questo cammino dell’orazione si deve mangiare
con tutti i cibi, anche con i più delicati, e senza di esso non ci si può
sostenere» (V 13,15).
In questo senso,
benché il tema sia oggi abbastanza trascurato, Santa Teresa si mette in
relazione con un argomento fondamentale in tutta la storia del pensiero
occidentale, incominciando dall'iscrizione nel tempio di Delfos, raccolta da
Socrate che fece del Conosci te stesso
la regola fondamentale della sua etica. Seneca, Epicteto e Marco Aurelio lo
ripresero e, in ambito cristiano, Origene, San Basilio, San Gregorio di Nisa,
Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Bernardo, San Buonaventura, San Tommaso
d’Aquino e Santa Caterina di Siena, tra altri.
Santa Teresa,
parlando della prima maniera di irrigare l'orto (primo grado della preghiera)
afferma che «questo edificio deve fondarsi in umiltà» (V 12,4). Altrove dice
che l'umiltà coincide con la propria conoscenza, della quale parla molte volte:
«Mi chiedevo una volta perché Dio ami tanto l'umiltà, e mi venne in mente […]
che ciò dev’essere perché Egli è somma Verità, e che l'umiltà è la verità. È
verità indiscutibile che da parte nostra non abbiamo nulla di buono, ma solo
miseria e niente. Chi non capisce questo, cammina nella bugia. Chi lo capisce
meglio, piace più alla somma Verità, perché in essa cammina. Ci conceda Iddio,
sorelle, di non uscire mai da questa propria conoscenza. Amen!» (6M 10,8).
Benché possa
sorprenderci, per Santa Teresa, la prima dimensione dell'umiltà è il rispetto per la verità (l'onestà) ed il
desiderio di raggiungerla. Cioè, l'umiltà è la disponibilità a cercare la
verità, ad accettarla ed a sottomettersi ad essa, benché si faccia fatica. Il
ché significa accettare aiuto dagli altri, lasciarsi consigliare e correggere.
Per questo si deve vincere l'orgoglio, l'incapacità di accettare correzioni, il
pensare che non abbiamo bisogno di nessuno. Santa Teresa è convinta che una
persona intelligente si lascia istruire e correggere, mentre quelli che non lo
sono, quelli che non hanno buon «intendimento», si sentono offesi quando
qualcuno l'istruisce o li corregge. Per questo motivo, non voleva nei suoi
conventi suore che non fossero persone intelligenti.
In secondo luogo,
l'umiltà è l’accettazione gioiosa delle
nostre immense capacità, di qui abbiamo parlato prima, sapendo che le
abbiamo ricevute, per cui non possiamo vantarci di esse. Ricordiamo ancora una
volta la sua descrizione dell'anima come un castello pieno di tesori, ed i suoi
inviti a prendere coscienza di ciò: «Non vi è nulla che possa paragonarsi alla
grande bellezza di un'anima e alla sua grande capacità!» (1M 1,1). Ignorare i
propri doni o disprezzarli gli sembra una falsa umiltà: «Non si preoccupi di
certi sentimenti di umiltà, in base ai quali sembra umiltà non riconoscere che
il Signore ci fa tanti doni. Cerchiamo, invece, di capire bene come stanno le
cose, cioè che Dio ce li dà senza alcun nostro merito, e siamone grati a Sua
Maestà; perché, se non riconosciamo di ricevere doni, non siamo spinti ad amare
[…]. Come spenderà con larghezza chi non sa d’essere ricco?» (V 10,4-6).
Infine, l'umiltà
si plasma nel riconoscere i nostri limiti,
nell'accettare che le nostre capacità non sono sufficienti per capire Dio né
per unirci con Lui, per cui sia la conoscenza di Dio che l’unione con Lui,
devono essere accolte come doni suoi. Questa accettazione dei nostri limiti non
può mai confondersi col rifiuto di sé o coi sentimenti morbosi di colpevolezza.
Quello non lo considera Santa Teresa umiltà, bensì tentazioni: «Dovete
guardarvi da quell’umiltà che getta l’anima nelle più vive inquietudini con la
rappresentazione dei nostri peccati passati e della nostra indegnità. Il
demonio la suggerisce in vari modi e suole angustiare le anime […]. La vera
umiltà che viene con la conoscenza propria non inquieta mai, non agita, non
disturba, ma inonda l’anima di pace […]. Se viene con inquietudine credete che
sia tentazione e non vi riteniate umili che non è quello» (C 39,1-3).
Abbiamo già visto
l'importanza che santa Teresa dà alla conoscenza di sé, fino al punto di
affermare che «la conoscenza di sé è il pane che si deve mangiare con tutti i
cibi» (V 13,15). Di seguito, aggiunge: «Ma si deve mangiare con discrezione,
perché quando un’anima si vede ormai piena di devozione e capisce chiaramente
di non aver nulla di buono, per sé stessa, e si sente confusa di vergogna
davanti a sì gran Re, vedendo quanto poco lo paghi per il molto che gli deve,
che bisogno c’è di sprecare il tempo in questo?» (V 13,15).
È il momento di
passare alla conoscenza di Dio che si acquista, in primo luogo, fissando gli
occhi su Cristo. È un tema che ripete molte volte. Nel famoso capitolo 22 del Libro della Vita fa una appassionata
difesa della contemplazione dell’Umanità di Cristo, che è «la porta che
dobbiamo attraversare se vogliamo che Dio ci mostri grandi segreti» (V 22,6). Questo
argomento lo riprende nelle Mansioni:
«Io chiamo meditazione un discorso fatto in questa maniera: cominciamo col
pensare alla grazia che Dio ci ha fatto nel darci il suo unico Figlio; poi
percorriamo i misteri di tutta la sua gloriosa vita; oppure cominciamo con
l’orazione nell'orto, seguendo con l’intelletto nostro Signore fino alla croce
[…]. Quei misteri si capiscono in un modo più elevato. L’intelletto li
rappresenta al vivo e la memoria ne rimane impressionata […]. Con un semplice
sguardo si capisce chi Egli sia […]. Accorre subito la volontà col desiderio di
servire in qualcosa» (6M 7,10-11).
Ricordando ancora
una volta l'importanza della conoscenza di sé, dice che è come l'ape che
coltiva il miele nell'alveare, ma aggiunge: «Come l'ape non smette di uscire a
volare per succhiare i fiori, così deve fare l'anima. Pur addestrandosi nella
propria conoscenza, deve di tanto in tanto volare a considerare la grandezza e
maestà del suo Dio. Qui capirà la sua bassezza meglio che in sé stessa […]. E
mi creda che lavoreremo meglio volando a Dio che non col rimanere legate alla
nostra terra» (1M 2,8-9). La conoscenza di Dio ci aiuta ad avere una conoscenza
più profonda di sé stessi: «Non arriveremo mai a conoscerci, se insieme non
cerchiamo di conoscere Dio. Contemplando la sua grandezza, scopriamo la nostra
miseria; e guardando la sua purezza, vedremo la nostra sporcizia; considerando
la sua umiltà, vedremo quanto ne siamo lontani» (1M 2,9). Se la conoscenza di
sé stessi si acquista con la meditazione, da qui inizia la conoscenza di Dio,
ma per arrivare a livelli profondi si deve passare dall'operazione intellettiva
a quella dell'amore. Inoltre, non tutte le persone sono capaci di lavorare con
l'inteletto, ma tutti sono capaci di amare: «Ho incontrato alcune persone che
credevano che l’orazione perfetta consistesse tutta nell’esercizio
dell’intelletto […]. Non voglio dire che non sia una grande grazia di Dio poter
meditare sulle sue opere; ma si deve capire che non tutte le immaginazioni sono
abili di loro natura per questo, mentre tutte le anime sono capaci di amare […].
Il profitto dell'anima non consiste nel molto pensare, bensì nel molto amare»
(F 5,2).
L’orazione
mentale (la meditazione) prepara all’orazione di raccoglimento, che è il mezzo
per disporsi alla contemplazione, che non possiamo conquistare col nostro
sforzo; solo disporci (cf. 5M 2,1). Infatti, nella preghiera vocale e nella
preghiera mentale, «noi possiamo fare qualcosa, con l’aiuto di Dio. Nella
contemplazione, nessuna cosa. Dio fa tutto; qui è opera sua, superiore a ogni
nostra facoltà» (C 25,3). Per questo motivo, arrivati a questo punto, «in
queste cose fa più chi meno pensa e meno vuole fare […]. Sarà bene che ci
mettiamo in silenzio, procurando di non porre in moto l’intelletto […]. Non
posso persuadermi che industrie umane possano avere qualche valore in cose che
superano le nostre capacità […]. Se è Dio che sospende l'intelletto, gli dà da
occuparsi in altro modo, e cioè mediante una illustrazione […], senza che ne
sappia il modo, si trova meglio ammaestrato che non con l’impiego di tutte le
sue diligenze» (4M 3,5-6).
Per Teresa, una
conoscenza profonda del mistero di Dio non può procedere solo della riflessione
umana. Ci può essere una conoscenza della sua esistenza o di alcuni dei suoi
attributi, ma il suo mistero rimane inaccessibile. Per questo, Dio disse a Mosè
che non poteva vedere il suo viso e gli fecce vedere solo «le sue spalle», (cf.
Es 33,23) e San Giovanni ricorda che «Dio nessuno l'ha mai visto» (Gv 1,18).
Gesù stesso afferma che «nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al
quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,25-27, cf. Lc 10,21). Santa Teresa
lo sperimentò e l'afferma con insistenza: le nostre capacità intellettuali non
sono sufficienti per conoscere a Dio ma, se ci uniamo a Cristo nell'amore, Egli
ci rivela i suoi segreti.
Dio sta nel
centro dell’anima. Dio Trino, comunicando la sua vita all’uomo. La «notizia» di
questo dato della fede arrivò a Teresa per via mistica. Sullo stesso fatto ci
ha lasciato due relazioni diverse l’una dall’altra: V 18,15 e 5M 1,10. In
ambedue ha lo stesso schema di pensiero: – precedente ignoranza – la «certezza»
presente – la verifica teologica – la gioia che le produce. L’esperienza della
presenza divina nel centro più profondo dell’uomo si trasforma in pietra
angolare della spiritualità teresiana e, pertanto, del suo messaggio. La
presenza divina che Teresa sperimenta «nella profondità della sua anima» è
dinamica ed attiva. Ogni mansione comporta una comunicazione di Dio (elemento
mistico), che si communica all’uomo. Le sue comunicazioni tendono alla
comunione ed in essa sfociano. Ad un Dio che si dona deve rispondere un uomo
che accoglie.
Lei ha scoperto
che Dio non è una verità da credere, ma una Persona viva, che si manifesta
dandosi. E non dà perché l’uomo sia buono, ma perché Lui è buono: «Se Egli dà a
qualcuno le sue grazie, non è perché questi sia più santo degli altri a cui non
ne dà, ma perché si manifesti in lui la sua grandezza» (1M 1,3). E’ importante
sapere che Dio si comunica. In questo modo «si ecciterà a più amare Colui che
nella sua infinita potenza e maestà gli usa così grandi misericordie» (1M 1,4).
Questa è la prima parola che Teresa indirizza ai lettori delle Mansioni. E’ come dirci: andate a
trattare con questo Dio. Apritevi a questo Dio fin da ora anche se non lo
percepiate in nessun luogo. E’ la chiave del «successo» spirituale.
Per Santa Teresa,
la fede – se è vera – esige l’incontro nella preghiera. L’orazione autentica non
è un movimento verso un «io» intimo. É un cammino verso la Persona che ci abita.
Non fuga da qualcosa, ma ricerca della presenza di Qualcuno. Non solitudine, ma
incontro, relazione viva tra Dio e l’uomo. Una fede meramente intellettuale potrebbe limitarsi a credere che Dio esiste e che ciò
che ci ha rivelato è vero. Ma questo non è sufficiente. C’è bisogno di una fede
cordiale, che provenga dal cuore e
che consiste nel fidarsi del Dio che si è rivelato in Gesù Cristo, che ci ha
amati «sino alla fine» (cf. Gv 13,1), fino a dare la sua vita «per me» (cf. Gal
2,20).
Sicuramente, in
misura minore o maggiore, ciascuno di noi può identificarsi con quello che Santa
Teresa dice delle anime che entrano nelle terze mansioni: abbiamo preso
coscienza dell’amore di Dio, ci siamo decisi ad uscire da noi stessi e da tutte
le cose, meditiamo la vita e gli insegnamenti di Gesù Cristo, ci sforziamo di
mettere in pratica i suoi comandamenti, vogliamo lasciarci guidare dalle virtù
teologali e non dai nostri istinti. Per poterci riuscire, leggiamo libri
spirituali, partecipiamo a ritiri e settimane di vita comune, celebriamo con
fede i sacramenti, dedichiamo del tempo alla preghiera personale e
all’apostolato, realizziamo opere di misericordia… Alle persone che vivono in
questo modo, lei dà il nome di «anime accordate» (o regolate, ossia ordinate,
organizzate). Afferma che sono molte, le loda e descrive la loro vita con una
certa ironia, riflettendo sul motivo per cui sono poche quelle che di qui vanno
oltre: «Credo che ve ne siano molte nel mondo di queste anime, per misericordia
del Signore: desiderano ardentemente di non offendere sua Maestà, si guardano
anche dai peccati veniali, amano la penitenza, hanno le loro ore di raccoglimento,
impiegano bene il tempo, si esercitano in opere di carità verso il prossimo,
sono molto regolate nel parlare e nel vestire, e quelle che hanno famiglia la
tengono assai bene. Certo, il loro stato è degno d’invidia, e non vi è nulla, a
quanto sembra, che possa loro impedire anche l’ultima mansione, e sicuramente
il Signore non gliela negherà, purché esse lo vogliano, essendo troppo bella
questa disposizione perché Egli non conceda loro la sua grazia» (3M 1,5).
E allora, perché
non vanno avanti nel loro sviluppo? – si chiede la Santa –. Perché esse sono
capaci di dare a Dio molte cose, ma non riescono a dargli quella più
importante, che è la propria volontà. Sono generose nell’offerta del loro
tempo, dei loro beni, dei loro sacrifici... purché siano sempre esse a
prenderne l’iniziativa. Tuttavia, non sanno accettare in pace le contrarietà
che la vita offre loro, e neppure adattarsi alla perenne novità di Dio, che
rompe sempre i nostri schemi: «Io ho conosciuto alcune anime – anzi credo di
poter dire molte – che, avendo raggiunto questo stato, vivevano da molti anni,
per quanto se ne poteva giudicare, in grande rettitudine e armonia di vita, sia
nell’anima che nel corpo. Ciononostante, quando pareva che già dominassero
tutto il mondo, o perlomeno che ne fossero ampiamente disingannate, bastava che
sua Maestà le mettesse alla prova, e in cose non gravi, che subito cadevano
preda di tanta inquietudine e turbamento di spirito che io ne rimanevo attonita
e persino molto turbata» (3M 2,1).
Santa Teresa
prosegue fornendo l’esempio di coloro che hanno subito una perdita a livello
economico, oppure patiscono una calunnia, oppure provano grande aridità nella
preghiera. Noi possiamo aggiungere quelli che soffrono di una grave malattia o
di una crisi matrimoniale, oppure vivono difficoltà nelle loro relazioni con i
figli o la morte di un congiunto amato. Molte volte, queste persone non solo
non affrontano la situazione con coraggio, ma psicologicamente vanno a fondo.
Ella comprende la loro sofferenza e aggiunge che è naturale che si lamentino, a
patto che il loro dolore non si tramuti in un’ossessione e i loro lamenti in un
rifugio che impedisca qualsiasi reazione. Con la sua profonda capacità di
osservazione, ella denuncia che quando si canonizza la propria sofferenza, si
cade nel vittimismo: «Non ho trovato e non trovo altro rimedio per consolare
tali anime che mostrarsene grandemente afflitti (e in verità non si può non
provare dolore nel vederli in preda a tanta miseria), senza contraddirle nel
loro modo di vedere: sanno, infatti, illudersi così bene con i loro
ragionamenti da credere di patire per amore di Dio, non giungendo a
comprendere, invece, che si tratta d’imperfezione – altro inganno, per anime
tanto avanzate! – Nessuna meraviglia che le prove si sentano, ma mi pare non ci
sia da spaventarsi. […] Esse nella loro mente canonizzano le prove che soffrono
e allo stesso modo vorrebbero che le canonizzassero anche gli altri» (3M
2,1-2).
La Santa si sente
vicina a coloro che non trovano la forza di superare queste difficoltà, ma allo
stesso tempo hanno il coraggio di riconoscerlo e non cercano di ingannare se
stessi. Queste persone cresceranno nella conoscenza di sé e nella vera umiltà,
che consiste nel «camminare nella verità» (6M 10,7): «Essi non tardano molto a riconoscere
chiaramente la propria imperfezione, e alle volte la pena che provano non è
tanto dovuta alla causa che dovrebbe produrla, quanto all’umiliazione di
vedersi tanto sensibili, benché non lo vogliano, per le cose terrene e di così
scarsa importanza. Tuttavia, credo che anche questo sia un segno di grande
misericordia da parte di Dio, perché, sebbene sia imperfezione, è molto utile
per l’umiltà» (3M 2,1). Di colui che non riesce a superare la pena che proviene
da una contrarietà, ma lo ammette con semplicità, ella dice: «se quella persona
non arriva a tanto perché Dio non l’ha portata a grande perfezione, poco
importa; si persuada però di non avere ancora la libertà di spirito, e in tal
modo si disporrà a riceverla in dono dal Signore» (3M 2,4).
La vera
difficoltà nasce quando non vogliamo riconoscere che abbiamo un problema, al
punto che non accettiamo nemmeno l’aiuto di qualcuno e ci chiudiamo in noi
stessi. Ciò che procura il maggior danno a noi stessi è sprecare tutte le
nostre energie nel lamentarci continuamente di ciò che ci è accaduto, cercando
colpevoli sui quali scaricare la nostra frustrazione, contribuendo solo a far
sì che la nostra amarezza aumenti.
Assumere con la
corretta disposizione interiore queste difficoltà non cercate, significa non
assolutizzarle (non permettere che occupino tutto il nostro tempo e le nostre
energie). Solo allora potremo imparare dagli errori nostri e degli altri,
affrontandoli con realismo. Se avremo l’atteggiamento giusto, ci viene aperta
l’entrata al fidanzamento spirituale, che è l’inizio della vita mistica. In
caso contrario, le difficoltà bloccano il processo di crescita e arrivano
persino ad impedire di condurre una vita normale.
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