Leggimi la mano Chirologia

giovedì 15 aprile 2021

Psicochirologo Pallocca Enrico


 

                   INVITO ALLA MEDITAZIONE. Di Padre Roberto Moretti L’esercizio della “meditazione”, secondo l’unanime affermazione della tradizione spirituale cristiana, è un fattore di primaria importanza per la crescita e la fecondità della vita di ogni fedele, e più ancora per ogni forma di consacrazione a Dio. Una prova evidente sta nel fatto che non v’è vita religiosa, sia pure la più dedita all’attività apostolica, che non abbia tra le sue norme il dovere di attendere in tempi specifici alla meditazione. Questo dovere è molto più accentuato nella vita religiosa intensamente dedita alla preghiera e alla contemplazione. Nella vita del Carmelo Teresiano ben due ore al giorno sono consacrate all’orazione mentale come impegno prioritario della propria spiritualità e del carisma vocazionale ereditato dai due insigni maestri spirituali, S. Teresa di Gesù e S. Giovanni della Croce. L’ansia della preghiera meditativa e contemplativa deve caratterizzare tutte le famiglie ricollegate al Carmelo, e gli stessi laici che nel mondo partecipano alla spiritualità del Carmelo. Conseguenza di un tale carisma è l’impegno di comunicare nella misura più larga possibile questo bene prezioso nella nostra azione apostolica, come una forma prioritaria dell’apostolato carmelitano teresiano. E’ il motivo che mi ha mosso a proporre alcune riflessioni sulla meditazione ai lettori della nostra Rivista e agli amici del Carmelo. Tali riflessioni vogliono costituire un fraterno, caldo “invito” alla meditazione come ad una componente importante della nostra vita di preghiera 1.-CHE COSA È LA MEDITAZIONE “CRISTIANA”? Tutti abbiamo una certa esperienza della “meditazione”. Quante volte ci siamo ritrovati ad una lunga ed intensa ammirazione degli splendidi spettacoli della natura o degli insigni capolavori dell’arte? Io posso constatare spesso, in questa casa Carmelitana in cui scrivo queste riflessioni (la Chiesa di Santa Maria della Vittoria), la profonda attenzione e la prolungata ammirazione di visitatori di ogni parte del mondo dinanzi alla Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini: il famoso capolavoro nel quale il grande artista ha scolpito mirabilmente la “transverberazione” della Santa, traducendo nel marmo la descrizione che Teresa ci ha lasciato di questa singolare grazia mistica nel capitolo 29 della sua Autobiografia. Ognuno suo modo “medita” su fatti, persone, comportamenti che lo riguardano. Tanto per fare un esempio: quante dolorose interminabili meditazioni fanno oggi le mamme sulle inesplicabili deviazioni affettive o morali dei figli, vittime della droga, della malattia, della violenza e perfino della criminalità. “Meditare” è riflettere attentamente, a lungo, a fondo, per capire, per scoprire, per possedere la verità, il bene che ci attira, la persona che si ama. E che cos’è la meditazione “cristiana”, la meditazione – come ho detto – che è un fattore importante della grande realtà della preghiera cristiana? Il mondo della fede ci offre un campo inesauribile per la meditazione. Ci offre il profondo mondo dei suoi misteri, delle sue verità, dei suoi insegnamenti. Ci offre un’infinità di avvenimenti che costituiscono la storia della salvezza. Ci offre progetti e ideali di vita sublimi, di suprema bellezza. Su tutte queste cose siamo invitati a meditare. Riflettere a lungo, approfondire la conoscenza della verità, scoprire la ricchezza dei valori, capire a fondo noi stessi, i nostri comportamenti, i nostri sentimenti, aspirazioni, le mete che vogliamo raggiungere. Ma è molto importante precisare un aspetto nella meditazione “cristiana”. Mentre nella meditazione di un filosofo, di uno scienziato, di un ricercatore prevale soprattutto lo scopo di conoscere o di scoprire la verità o la struttura delle cose, delle leggi della natura, degli eventi della storia ecc., nella meditazione cristiana prevale lo di amare. Poiché la meditazione cristiana si porta soprattutto su Dio, le sue perfezioni, le sue opere, i suoi rapporti con noi. Ebbene, Dio è soprattutto amore. Amore infinito in se stesso, amore in tutto ciò che opera, amore in rapporto all’uomo: perché per amore gli svela se stesso, come amico parla all’uomo, vuole essere riamato dall’uomo: vuole vivere con lui in profonda ed intima amicizia. Perciò per il cristiano meditare su Dio, le sue perfezioni, le sue opere, i suoi disegni e progetti, vuol dire in sostanza scoprire il mistero dell’amore, imparare ad amare, progredire fino ai vertici dell’amore. Qui sta l’essenza della meditazione cristiana. E qui sta anche la grandezza e la nobiltà della meditazione cristiana: aiutarci a scoprire il mistero dell’amore di Dio, aiutarci a viverlo in pienezza. 2. LA MEDITAZIONE, VIA ALLA COMUNIONE CON DIO La parola “meditazione” significa riflessione, conoscenza approfondita, ricerca. Nella meditazione “cristiana” tutto questo lavoro, complesso e impegnativo, è “dominato” dall’amore: essa nasce dall’amore, si concentra sull’amore, alimenta e fa crescere l’amore. Vorrei esporre, in maniera concreta, dettagliata e semplice, in che modo la meditazione venga ad acquistare una tale efficacia e ci faccia, così, realizzare un profondo rapporto di amore, di amicizia e di comunione con Dio. Bisogna tener presente l’insegnamento dell’Evangelista Giovanni nella sua prima Lettera: “Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (I Gv. 4, 16). L’amore è la forza che unisce. Dall’amore sorge la tendenza all’unione, nasce la ricchezza dell’oggetto e della persona, fioriscono l’incontro e l’unione, scaturiscono la gioia e la felicità di possedere: specialmente quando l’oggetto o la persona amata si possiedono con sicurezza e stabilmente. Questo avviene nelle relazioni umane a vario livello: quando insieme si intraprende un’impresa; quando si tesse un rapporto di amicizia; quando ci si consacra ad un comune ideale; soprattutto in quel rapporto profondo di donazione delle persone che costituisce l’amore nuziale nella famiglia. Questa legge vale anche nel campo spirituale, e particolarmente nelle relazioni tra Dio e l’anima, tra Cristo e la Chiesa. Questo è il motivo per cui Gesù, nelle affettuose conversazioni con gli Apostoli nell’ultima cena, insiste affinché “rimangano” in Lui, “rimangano” nel suo cuore; rimangano uniti vitalmente, come i tralci nella vite; offrendo loro a modello il suo “rimanere’ nell’amore del Padre. Li stimola a tale “rimanere” additando in esso la sorgente della fecondità e della gioia. Tutto questo leggiamo nel capitolo 15 del Vangelo di Giovanni. Gesù, inoltre, apre agli occhi dei discepoli i meravigliosi orizzonti di questa mutua immanenza per amore, immergendoli nel mistero della sua stessa unione con il Padre: «affinché siano perfetti nell’unità» (Gv. 17,23); immergendoli nel mistero della sua gloria, della sua vita nel Padre, della sua gioia: «perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato» (Gv. 17,24). Torniamo ora alla meditazione. Essa fa parte di quell’orazione mentale che S. Teresa di Gesù definisce un intimo rapporto di amicizia, un frequente intrattenimento da solo a solo con Colui da cui sappiamo di essere amati” (Vita, 8,6). Come si vede, l’insigne maestra di vita spirituale, Dottore della Chiesa, ci presenta l’orazione tutta centrata sull’amore, la carità, l’amicizia tra Dio e l’anima. Sappiamo dai mistici, quale S. Giovanni della Croce, che l’orazione, nella misura in cui va sviluppandosi in essa la fiamma dell’amore sempre più fortemente e intimamente unisce l’anima con Dio, sino a che, negli ultimi gradi della contemplazione e dell’esperienza divina, l’anima viene talmente unita e trasformata, che, secondo l’ardita affermazione di Giovanni, “sembra più Dio che anima” (Sa, 2,5,7). Orbene, la meditazione è l’inizio di questa strada. Se viene fatta bene, fedelmente, con perseveranza e impegno generoso, ci farà fare un lungo cammino, e potrà anche condurci verso le altezze della contemplazione. Per far questo essa -lo ripeto ancora una volta- deve impregnarsi d’amore: nascere dall’amore, svilupparsi come rapporto di amore e di amicizia con Dio. Per riprendere le parole di S. Teresa, intrattenendosi frequentemente, da solo a solo, con Colui da cui l’anima sa di essere amata. Vi è un luogo, un ambiente, un clima dove esistano condizioni particolarmente favorevoli al nascere e allo sviluppo di un tale rapporto di intimità e di amicizia tra l’anima e Dio? Io l’additerei soprattutto nel contatto amoroso con la parola di Dio. Leggere, interrogare, ricercare, lasciarsi interpellare, lasciarsi avvolgere, penetrare, modellare, trasformare dalla parola di Dio. Grande realtà è la parola di Dio. Ma soprattutto è inesauribile ricchezza di amore. Chi l’accoglie, l’ama e le si abbandona pienamente, viene trasformato in spirito di vita, perché la parola di Dio è spirito e vita. La parola di Dio nasce dall’amore, perché per benevolenza, amore e amicizia Dio ci parla. La parola di Dio contiene amore, perché essa rivela e ci comunica Dio stesso, che è amore infinito: l’Amore, come abbiamo udito da Giovanni. Gesù stesso spiega ai discepoli perché li chiama amici: proprio perché rivela loro tutti i segreti d Padre (Gv. 15, 15). La parola di Dio opera in noi -nella sua inesauribile fecondità- come Amore, perché il Padre e Figlio ci danno lo Spirito Santo per portarci alla piena conoscenza della Verità (cfr Gv. 16, 13-15). La meditazione cristiana fa parte dell’orazione mentale, deve essere colloquio d’amore, rapporto di amicizia, intimo, personale, tra Dio e l’anima. Ebbene, tutta la Sacra Scrittura è un mirabile colloquio di amore da parte di Dio rivolto a ciascun di noi personalmente. Come ce lo ricorda Vaticano II nella costituzione Dei Verbum (n. 2), tutta la Divina Rivelazione -fatti e parole- è un mirabile colloquio d’amore: «Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé». Se mediteremo la parola di Dio come Maria nell’intimità del nostro cuore, se custodiremo le parole di Gesù, come egli “osserva” le parole del Padre suo, “rimarremo nel suo amore” (cfr Gv. 15,10). Affidiamoci all’azione dello Spirito Santo. Egli condurrà alle sorgenti dell’acqua viva. Vi gusteremo la dolcezza dell’amicizia divina: «Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca» (Sal 118,103). 3.- GESÙ L’INTERLOCUTORE DIVINO Perché la nostra meditazione sia un colloquio di amore, un rapporto di intima e profonda amicizia con Dio Trinità, è necessario che Gesù Cristo, il Verbo fatto carne, sia l’interlocutore divino: anzi un interlocutore che inizi, conduca e coroni il colloquio e il rapporto d’amore. Oggi, anche nel nostro paese, si diffondono forme di meditazione di tipo piuttosto orientale. Troppo superficialmente tali forme vengono scambiate per meditazione “cristiana”. In realtà la differenza è grande. Infatti abitualmente in quelle forme di meditazione attraverso la concentrazione si cerca di scoprire il fondo di se stessi, cioè del proprio essere, della propria personalità; nella meditazione “cristiana” si cerca l’unione con Dio-Trinità che abita nel nostro intimo. Ebbene, tale unione, per conoscenza e amore, non la possiamo raggiungere che mediante Gesù Cristo; anzi, più esattamente, la possiamo raggiungere solo unendoci a Lui. E una tale unione non siamo noi principalmente a realizzarla, ma è Gesù Verbo Incarnato, anche se lo fa chiedendo la nostra collaborazione. Gesù stesso ci ha insegnato questa verità. Afferma nel Vangelo di Matteo: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo” (Mt. 11,27). Nel Vangelo di Giovanni lungamente Gesù parla dell’intimo rapporto tra lui e il Padre. Tra l’altro dice: “Io sono la via e la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non per mio mezzo... Chi ha veduto me ha veduto il Padre” (Gv. 14,6.9). E sin dall’inizio del suo Vangelo Giovanni afferma perentoriamente: “Nessuno ha mai visto Dio, proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato” (Gv. 1,18). Il Padre ci si rivela nel Figlio, ci si dona nel Figlio, ci ha riconciliati a sé nel Figlio. Secondo la bella e sublime dottrina di S. Paolo nella lettera agli Efesini, ci ha benedetti in Gesù di tutte le benedizioni spirituali; ci ha eletti ad essere santi e immacolati, ci ha fatti figli adottivi, ci ha redenti nel suo sangue, ci ha fatti eredi del suo regno glorioso, ci ha riempiti del suo spirito: in una parola, ci ha fatti testimonianza della sua grazia e della sua gloria. Tutto quello che Dio ha fatto e rivelato lungo tutti i secoli della sua meravigliosa storia della salvezza trova in Gesù Cristo il suo centro e la sua pienezza. Pertanto, chi conosce profondamente il mistero di Gesù, conosce e contempla tutti i misteri di Dio. Dobbiamo perciò concludere che la nostra meditazione deve essere soprattutto riflessione e conoscenza amorosa tutto ciò che riguarda la persona e l’opera di Gesù. Ma, come è stato sottolineato, la nostra meditazione non deve essere un soliloquio, cioè un discorrere nostro su noi stessi. La meditazione cristiana è un colloquio tra noi e Gesù, un nostro rapporto di amore con Lui, una profonda amicizia intessuta tra noi e Lui. In questo mutuo discorso d’amore Gesù è ovviamente il primo. Egli è l’interlocutore divino. Come potremmo, infatti, conoscere o ricevere e ricambiare il suo amore, e l’amore del Padre, se Egli non ce lo comunicasse, non ce ne rivelasse la bellezza, la profondità, il valore sommo? Non siamo stati noi a salire in cielo per contemplare l’amore e la bellezza di Dio, ma è stato il Padre a mandare sulla terra il Figlio suo, a volerlo rivestito della nostra umanità, affinché gli uomini potessero sentire la sua voce, i palpiti del suo Cuore, guardarlo proprio negli occhi, sentire le carezze del Verbo della Vita. Bisogna sempre pensare che per l’Incarnazione il Verbo del Padre si è fatto in tutto simile a noi, tranne il peccato. Il cristiano che medita deve prima di tutto credere che Gesù desidera ardentemente, ama e si compiace di conversare con noi come il più dolce e caro amico. Che cosa Egli ci dice? Di che ama parlarci? Quale rapporto vuole creare con noi? Anche ora voglio rispondere di rivolgerti alla parola di Dio. Leggi soprattutto il Vangelo. Leggi anche tutte le altre pagine del Nuovo Testamento perché esse, tutte quante, profumano di Gesù. Infatti tutti i sacri scrittori hanno sperimentato l’intima amicizia di Gesù e ci hanno parlato dell’abbondanza dell’amore che hanno sentito per Lui. Quando leggi il Vangelo non pensare a un Gesù lontano, che parla alle folle sulle rive del lago di Tiberiade o sulle colline della Palestina. Pensa a Gesù che ti è vicino, al tuo fianco, che cammina con te, lavora con te, ama con te, soffre con te, che legge tutto quello che passa nel tuo cuore. Le sue parabole le dice a te personalmente. I sublimi insegnamenti della montagna li indirizza a te, vuole scolpirli nel tuo cuore. Le divine confidenze dell’ultima cena sui segreti del Padre, sui suoi intimi rapporti con Lui, sull’azione misteriosa e dolcissima del suo Spirito sulle vicende del suo Regno, le pressanti raccomandazioni sull’umiltà, sull’amore, sulla speranza, sulla fiducia incondizionata: tutte queste mirabili rivelazioni sono fatte anche a te. Cosi Egli è il tuo Interlocutore Vorrei confermare queste riflessioni con l’esempio di S. Teresa di G. Bambino modello e anche amabile maestra di vita spirituale. Lei stessa afferma nella sua autobiografia che a un certo punto del suo cammino spirituale attingeva dal Vangelo quanto le occorreva per nutrire la sua anima, e che vi scopriva sempre nuove luci, orizzonti sempre più vasti. Amò tanto il Vangelo, che lo portava sempre sul petto in segno di profondo amore. Un esempio eloquente di quanta ricchezza si possa attingere dalla profonda meditazione sul Vangelo ce lo offre nella sua poesia “Gesù, ricordati”, del 21 ottobre 1895. E’ la poesia più lunga: 33 strofe di 8 versi. La poesia è un lungo, intimo e tenero colloquio con Gesù. Attraverso le pagine del Vangelo, Teresa “va ricordando” a Gesù tutte le dimostrazioni del suo amore per lei: una fittissima e intensa storia che è stata vissuta dai due. Pagine intime, ardenti; effusioni di cuori. Un esempio straordinario di come la meditazione profonda e amorosa del Vangelo innalzi alle più alte vette della vita spirituale. Analogamente Teresa, rileggendo punto per punto le pagine del Vangelo, ha cantato tutta la sua devozione, tutto il suo affetto, tutta la sua “dottrina” sulla Vergine, nell’ultima sua poesia scritta pochi mesi prima della morte: “Perché t’amo, Maria”. Testimonianza di una pietà semplice, solida ed elevata. Imitiamo Teresa nell’amare la meditazione della parola di Dio, e soprattutto del Vangelo, per lasciarci attirare, secondo la sua espressione, dai “profumi di Cristo”. 4.-LE DIFFICOLTÀDELLA MEDITAZIONE L’esercizio della meditazione ha le sue difficoltà. Questo non deve sorprendere. Ogni attività che richiede impegno, applicazione della memoria, riflessione e controllo di se stessi incontra le sue difficoltà. Tralasciando quelle difficoltà che dipendono da fattori estranei e occasionali, come la stanchezza, la malattia, il superlavoro, un’emergenza grave ecc., io voglio accennare a due classi di difficoltà che si potrebbero dire connaturali al nostro essere e alla nostra attività: voglio riferirmi alle distrazioni e all’aridità. Difficoltà che tutte le anime sperimentano, in misura molto differente, nel cammino della meditazione, e che spesso costituiscono un peso notevole e una fonte di scoraggiamento e a volte di vere angosce per le persone più impegnate. Le distrazioni Le distrazioni o divagazioni si riferiscono alla incostanza e irrequietezza della nostra immaginazione e della nostra mente, che ci impedisce e rende difficile il permanere della stessa immaginazione e del pensiero nella riflessione prolungata su di una verità, un fatto, un mistero, una persona presa come oggetto della nostra riflessione e della nostra attività affettiva: colloquio, contemplazione, rapporto di amore e di amicizia, ecc. Sappiamo per esperienza quotidiana che le distrazioni sorgono a getto continuo, come da una vena che non si secca mai. Esse possono sorgere in qualsiasi momento e circostanza; e possono essere le più stravaganti che si possa immaginare. L’esperienza ci dice che anche quando siamo occupati in cose di grande importanza, che ci assorbono in misura piuttosto profonda, al di sotto del discorso impegnativo che stiamo sviluppando, possiamo avvertire un libero giuoco della nostra fantasia che se ne va per suo conto. Se questa è la nostra condizione naturale e psicologica, non dobbiamo meravigliarci che anche il mondo della nostra preghiera ne risenta. Del resto sappiamo dalla lettura delle vite dei santi che non fu diversa la loro esperienza, e che solo per una grazia particolare essi raggiunsero tempi di dominio stabile e quieto della loro immaginazione. Come dobbiamo comportarci, allora, con le nostre distrazioni nella meditazione? È bene non tenerne molto conto, e ritornare con pazienza e con amore alle nostre riflessioni e alla nostra vita affettiva, rinnovando il nostro desiderio di conoscere, di amare, di nutrire il rapporto di amore e di filiale amicizia. Nei casi di maggiore divagazione aiutarci discretamente con la lettura lenta e posata di qualche libro che aiuta a raccoglierci, specialmente della parola di Dio. È opportuno che noi ci possiamo rendere conto dell’origine delle nostre distrazioni. Abitualmente la nostra fantasia viene attratta da ciò che più la colpisce e che maggiormente le piace. Se notiamo che fatti o persone o rapporti attirano il nostro affetto, dobbiamo esaminarci se il nostro cuore non sia troppo legato. Un buon esame di coscienza e l’esercizio frequente di controllare le tendenze nostre affettive ci possono essere di valido aiuto per conoscere l’origine delle nostre divagazioni, per potere, in conseguenza, coltivare il necessario distacco affettivo dai beni creati per sentirci attirati dal Sommo Bene. In una parola, distaccare il cuore, purificarlo da quanto può dispiacere a Dio è il migliore lavoro che possiamo fare per diminuire le nostre distrazioni nella preghiera, ma soprattutto diminuirne la volontarietà: ciò che più importa, dato che la distrazione involontaria non diminuisce il merito della nostra preghiera. Un buon consiglio potrebbe essere questo: poiché molte delle nostre distrazioni nascono dalle varie occupazioni della nostra giornata, cerchiamo di «coinvolgere» Dio in tali occupazioni, pensarle e compierle unendovi il pensiero di Dio: come lavorare, come amare, come affrontare il domani pensando con Lui. È un esercizio che può raccoglierci molto e favorire la meditazione. L’aridità L’aridità nella meditazione significa la difficoltà di intrecciare il nostro colloquio o rapporto affettivo con Dio. Come è stato detto all’inizio di queste riflessioni, la meditazione cristiana è soprattutto rapporto di amore e di amicizia con Dio: colloquio e rapporto che nasce e si nutre dal saperci amati da Lui. La meditazione, pertanto, si alimenta della nostra espansione affettiva, costituendo come un continuo scambio di sentimenti, di affetti e di amore con Dio. L’aridità blocca questo rapporto, questa espansione. Essa ci fa rimanere freddi, senza parola, senza slancio amoroso: come se l’indifferenza, la freddezza, un mutismo avessero gelato il fiorire del dialogo tra l’anima e Dio. Si tratta di uno stato penoso, specialmente per la persona che si era donata a Dio e aveva sperimentato la sua paterna dolcezza e la tenerezza del suo cuore. Come regolarsi? Come deve comportarsi l’anima in questa difficoltà? È necessario che l’anima, attraverso un buon esame delle sue intenzioni ed opere, si renda conto se il suo cuore sia eccessivamente attaccato a persone e cose, ideali e progetti che la allontanino da Dio. Effettivamente “dov’è il tuo tesoro, la c’è anche il tuo cuore”(Mt. 6,21). Ma se attraverso questo esame sereno e verace l’anima non avverte in sé questo attaccamento, l’aridità potrebbe derivare da uno stato psicologico passeggero, come suole avvenire anche nella nostra vita affettiva verso persone, ideali, iniziative ecc.: ce lo dice l’esperienza che tutti più o meno facciamo. Anche nei rapporti d’amore tra persone c’è la primavera e c’è l’inverno. Ma relativamente alla preghiera, e particolarmente alla meditazione, l’aridità può essere una prova di fedeltà disposta da Dio. L’aridità, allora, deve ricordare all’anima che l’amore vero e ardente, l’esperienza della divina amicizia, la dolcezza dell’unione spirituale, tutto questo è dono di Dio, e obbedisce ad una legge e ad un disegno che solo Dio conosce e si riserva di attuare. Da questo punto di vista l’anima deve esercitarsi nella pazienza. Saper rinunciare alla devozione sensibile, ai fervori entusiasmanti, alle consolazioni e tenerezze che rendono felici. Accettare il progetto di Dio anche in mezzo alla oscurità, camminando nella fede ed esercitandosi nella speranza: le due virtù che ci conducono a Dio guidandoci nella notte, secondo l’insegnamento di S. Giovanni della Croce. L’AIUTO DI UN’ESPERTA GUIDA SPIRITUALE Chiudo questa breve serie di riflessioni, piuttosto di carattere generale, sulla meditazione richiamando l’attenzione sull’importanza di un saggio direttore spirituale. La grande utilità di una guida nel cammino dell’orazione va riconosciuto sia per progredire, sia per superare più agevolmente le difficoltà che sono state segnalate precedentemente. Voglio indicare in maniera più concreta queste situazioni. 1. Stimolare a progredire Non è raro, anzi direi che è troppo frequente, che nel cammino della meditazione e dell’orazione ci si accontenti di andare avanti alla meglio, senza impegnarsi in un vero progresso spirituale. Bisogna ricordare che il progresso della preghiera esige un impegno, uno sforzo quotidiano, per rinnovare le motivazioni della preghiera, per creare in noi, o anche nell’ambiente, le condizioni di raccoglimento, di silenzio, di distacco del cuore. Il compito della guida spirituale è di richiamarci le motivazioni e i valori della preghiera meditativa, e parimenti di aiutarci nel delicato esercizio del silenzio e del raccoglimento interiore. Ogni sforzo costa; specialmente lo sforzo che esige frequenza e continuità, come lo esige, ad esempio, la vita religiosa, la quale è fortemente caratterizzata dall’esercizio della preghiera. 2. Aiutare a scoprire le ricchezze della meditazione Vi sono delle persone che praticano, come per abitudine, le stesse forme di preghiera: formule, devozioni, preghiere vocali, ecc. Noi sappiamo che il Signore mette a disposizione della preghiera, soprattutto dell’orazione e della contemplazione, beni grandi e preziosi, che ci riempiono della conoscenza, dell’amore e dell’unione con Dio. Basta pensare ai tesori racchiusi nella parola di Dio e nella sacra liturgia. Compito di un buon maestro spirituale è quello di aprire gradualmente la persona a scoprire questi tesori, indicando libri, argomenti, ecc. e farli gustare, farli diventare vita. 3. Aiutare a superare l’eccessiva dipendenza dal sensibile Un compito particolarmente delicato e prezioso della guida spirituale è di aiutare l’anima dedicata alla meditazione a superare l’eccessiva dipendenza dal molteplice mondo della sensibilità, per scoprire, gustare e assimilare i beni veramente spirituali che ci uniscono a Dio. Senza dubbio l’uomo è fatto anche di sensi e di sensibilità. Con i nostri vari sensi e con la nostra immaginazione noi ci portiamo alla preghiera, come alle altre nostre attività: il lavoro, lo studio, ecc. È altresì vero che noi anche nella preghiera e nella meditazione troviamo un godimento mediante i sensi: gustiamo la musica, un’immagine, una celebrazione liturgica. A volte l’impatto con queste cose sensibili è così intenso, che noi ci commoviamo profondamente e sentiamo di dover manifestare anche esternamente le nostre emozioni. È quella che si chiama usualmente la “devozione sensibile”. Ma Dio non è un essere che si possa conoscere e gustare con i sensi o con la nostra immaginazione. Lui è l’essere purissimo e infinito. Ci possiamo unire veramente a Lui solo con le operazioni della intelligenza e della volontà-che sono le nostre facoltà superiori per mezzo delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità. Questo è il motivo per cui S. Giovanni della Croce insiste sulle operazioni di queste tre virtù nel tracciare il cammino spirituale che conduce alla vetta del Monte Carmelo, cioè alla somma unione con Dio. Così, dunque, il maestro spirituale deve guidare l’anima che si dedica alla meditazione ad una più alta forma di preghiera, cooperando con l’azione della grazia che Dio infonde per attrarre l’anima alla sua unione. 4. Illuminare sui pericoli dell’eccessivo attivismo. Nella vita spirituale può capitare abbastanza frequentemente che le persone si sottraggano allo sforzo e all’impegno della meditazione con il motivo di doversi dedicare intensamente all’apostolato. Esse inoltre cercheranno di giustificarsi e di tranquillizzarsi affermando che l’attività è preghiera, oppure che il bene da fare è tanto e così urgente, che non rimane tanto tempo per l’orazione. Nella vita spirituale questo è un grave errore. Quello che Dio cerca prima di tutto e soprattutto dall’anima è che tenda all’unione con Lui, in modo da vivere nella sua intimità e amicizia. Anche se l’anima facesse miracoli ed esplicasse ogni forma di attività di apostolato, ma non tendesse all’unione con Dio mediante la perfezione dell’amore, non sarebbe gradita a Lui. Poiché ci sono coloro che si sentono portati a consacrarsi all’attività in misura esagerata, la guida spirituale dovrà gradualmente e con pazienza condurre un tale attivista a scoprire i valori primari della vita di grazia e di unione, la quale trova la più alta espressione nell’orazione più elevata, che è tutta amore e comunione con Dio. Da questa sorgente deve scaturire l’attività santificante, e alla stessa sorgente deve condurre. 5. Confortare e rassicurare nel tempo della purificazione Parlando delle difficoltà lungo il cammino dell’orazione, ho fatto menzione dei periodi di aridità che rendono penoso l’esercizio della meditazione. Si è detto che l’aridità può essere anche un particolare dono di Dio, che vuole provare l’amore dell’anima, o che la sta disponendo ad una preghiera di carattere superiore, più semplice, più fatta di amore e di contemplazione. Abitualmente l’anima non riesce a vederci chiaro durante le sue purificazioni, portata quasi continuamente all’amara esperienza della sua miseria, della sua povertà, della sua difformità dalle perfezioni di Dio. In queste situazioni è più che mai necessaria una guida spirituale illuminata che sappia discernere l’azione divina nell’anima, sappia rassicurare l’anima che ha l’impressione di andare perduta e di non essere gradita a Dio. Essa ha il compito di accompagnare l’anima in questo periodo, così complesso e ricco di promesse di un felice traguardo verso l’intima unione con Dio. Questi sono alcuni dei motivi per affermare la grande utilità e i grandi vantaggi per l’anima, che vuole percorrere il cammino dell’orazione verso l’unione con Dio, di avere una guida saggia ed esperta, alla quale affidarsi con fiducia e docilità.

mercoledì 14 aprile 2021

Psicochirologo Pallocca Enrico


 

                    Pregare come respirareIl respiro di GesùIl respiro del nostro respiro Signore, ogni mio respiro è già tuo di P. Antonio Maria SICARI Anni fa un celebre medico ateo, Alexis Carrel, si convertì a Lourdes assistendo personalmente ad un miracolo: vide guarire sotto i suoi occhi un malato terminale al quale aveva egli stesso diagnosticato il male inguaribile. Si convertì. Più tardi scrisse anche un libro sulla preghiera, esprimendosi così: “Quando la preghiera è veramente presente, la sua influenza è paragonabile a quella di una ghiandola a secrezione interna, come la tiroide o le surrenali, per esempio. Il senso del sacro è analogo al nostro bisogno di ossigeno e la preghiera è analoga alla respirazione". L’osservazione è più antica di quanto si creda. Se uno studia la storia della Chiesa e della preghiera - come veniva vissuta già dai primi monaci in Oriente e come viene vissuta ancora oggi in molte comunità religiose - si accorge che il problema della respirazione è considerato fondamentale. S. Antonio abate usava salutare i suoi compagni nel deserto, dicendo loro: "Respirate Cristo!". I primi monaci avevano inventato una formula di preghiera brevissima: "Signore Gesù, abbi pietà di me peccatore", e la formula - mille volte ripetuta - doveva accompagnare il ritmo della respirazione. S. Giovanni Climaco insegnava: "Bisogna che il ricordo di Gesù si unisca intimamente al tuo respiro, e conoscerai il segreto della pace interiore". S. Ignazio insegnava nei suoi Esercizi: "Bisogna chiudere gli occhi per guardare Gesù nel proprio cuore, e mormorare le parole del Pater, sulla misura del proprio respiro". E nei salmi si trova sempre, a metà del versetto, un asterisco che avverte: "Qui devi respirare", e quel respiro fa parte della preghiera. Ma non si tratta solo di indicazioni "tecniche". Nella Bibbia il discorso sul respiro dell'uomo è spesso strettamente legato al discorso sullo Spirito Santo. Questo nome che diamo alla terza Persona della SS. Trinità (la Persona-Dono, la Persona-Amore) avremmo anche potuto tradurlo (dall'ebraico o dal greco) con l'espressione "Santo Respiro", "Santo Soffio", e sarebbe stata la stessa cosa. Ricordate come la Scrittura narra la creazione? Fin dall'inizio c'è lo Spirito di Dio (il suo fecondo Respiro d'amore) che riscalda la massa informe, e così nasce la vita. Poi, al momento della creazione dell'uomo, l'immagine si precisa ancora di più: Dio prende tra le sue mani divine del fango (e S. Ireneo commenta: "Il fango tremava di felicità nelle mani di Dio") e lo plasma accuratamente, con sapienza e amore; poi avvicina il suo volto alla figura appena plasmata e respira su di essa. L’uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio, ed è divenuto tale fin dal primo momento "biologico" in cui ha cominciato a respirare: un respiro anch'esso fatto a immagine del Respiro di Dio. Un antico esegeta commentava: "Come il fuoco del fiammifero fa presa sulla fascina di legna, così l'alito di Dio ha fatto presa nei polmoni dell'uomo, ingenerandovi quel 'va e vieni' del fiato che è la respirazione. L’uomo rimarrà vivo finché la radice del soffio di Dio non sarà strappata dai suoi polmoni". Così ha cominciato a vivere il primo uomo e così ognuno di noi comincia a vivere appena esce dal mistero del grembo materno. Per ogni uomo vivere significa accogliere e conservare in sé questo divino respiro, morire significa che Dio se lo è ripreso. La Scrittura avverte: "Se Dio richiamasse a sé il suo alito, e in sé concentrasse il suo soffio, ogni carne morrebbe all'istante e l'uomo ritornerebbe polvere" (Gb 34,14-15). Anche nel libro dei Salmi è scritto: "Se alle creature Tu togli il respiro, o Dio, muoiono e ritornano nella polvere. Se invece mandi il tuo spirito, le cose sono create, e rinnovi la faccia della terra" (Sal 104, 29-30). Respirare è il nostro vivere, e nel fenomeno della respirazione sono già incluse le leggi dell' esistenza sia materiale che spirituale. In un testo un po' strano, ma ricco di osservazioni interessanti di un autore anonimo, ho letto: "I polmoni sanno che bisogna respirare e obbediscono. Si sentono poveri ed inspirano. Amano la purezza ed espirano. Il processo stesso della respirazione insegna le leggi dell' obbedienza, della povertà e della castità. Cioè, per analogia: le leggi della grazia". Che bellezza! Il momento più intimo e prezioso del dialogo tra l'uomo e Dio (quello in cui la creatura riceve i tre "consigli evangelici") è già anticipato nella legge della respirazione umana! E quale pienezza raggiunge questa verità, quando il Figlio di Dio viene tra noi e nel suo umano respirare c'è già una effusione dello "Spirito di Dio" sull'umanità e sulla terra intera! IL RESPIRO DI GESÙIl Vangelo è attento a insegnare questa verità decisiva, proprio nel momento in cui descrive la morte di Cristo in Croce: Gesù prima china la testa e poi spira (letteralmente: "consegna il suo spi-rito") . E' esattamente il contrario di quanto avviene abitualmente: un morente prima spira e poi la testa si abbatte sul suo petto! Ma Gesù no! Da tutto il contesto, è chiaro l'insegnamento che l'evangelista Giovanni vuol dare: ai piedi della Croce c'è la Chiesa che ama Gesù (ci sono Maria, il discepolo prediletto e le donne che non lo hanno mai abbandonato) ed è su di essa che Gesù fa scendere il suo ultimo respiro: Egli non muore soltanto, ma muore perché dona il suo respiro! Il significato della scena sta appunto in questo: per amore nostro Gesù ha vissuto, per amore nostro ha respirato ogni attimo della sua vita, per amore nostro ha emesso il suo ultimo respiro. L’ultimo respiro di Gesù è il momento in cui lo Spirito Santo ci viene donato. La scena riceve una conferma alla sera di Pasqua, quando Gesù incontra i suoi discepoli nel Cenacolo e li trova irrigiditi, impauriti, timidi come se non avessero nemmeno fiato per vivere. Cristo si avvicina e li saluta: "Pace a voi!". Poi alita su di loro e dice: "Ricevete lo Spirito Santo, a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi". Il Risorto respira sui suoi discepoli, ripetendo quasi il gesto del Creatore, e dona loro la possibilità di vivere una vita nuova. Quando gli apostoli parleranno dell'identità cristiana diranno: "Dio ha mandato nei nostri cuori il respiro del Figlio che in noi grida: "Abbà! Padre!" (GaI 4,6); e affermeranno che in ciò consiste tutta la loro preghiera, una preghiera ininterrotta e sostanziale come l'atto del respirare. Per capire cosa sia la preghiera cristiana nel suo momento più originario e radicale, ci basterebbe osservare un bambino piccolo come lo osservano a volte i suoi genitori: per giorni e giorni essi lo vedono respirare, emettere suoni disarticolati, e poi finalmente giunge il momento - quel momento! - in cui lo vedono emettere un respiro che si fa suono e si articola distintamente: "Mamma!", "Papà!". Quando il bambino viene al mondo, il suo respiro è un pianto nello sforzo di assorbire ed emettere il soffio vitale, ma tutto è già attesa di quel respiro assieme al quale comincerà ad esprimere la sua. appartenenza, il suo amore. E ciò vale a riguardo dei genitori, ma anche a riguardo di Dio. S. Paolo dice che noi siamo fatti così: dentro di noi lo Spirito anela a pronunciare la parola "Padre", a chiamare Dio: Padre! IL RESPIRO DEL NOSTRO RESPIRO Pregare come respirare può sembrare un modo di dire, ma se uno volesse andare alla radice del suo essere e si chiedesse: "Qual è il momento in cui il mio essere comincia ad articolare la preghiera?", la risposta biblicamente esatta sarebbe questa: "Lo stesso istante in cui respiro". Respirare è invocare la vita; respirare è il dono che Dio ci fa minuto per minuto da quella prima volta che ci ha creati. Questa è la nostra preghiera essenziale: si prega come si respira. Possiamo non rendercene conto, ma i santi hanno esperimentato proprio questa verità che li ha affascinati. All'inizio hanno cominciato come noi, faticosamente, moltiplicando atti e atteggiamenti (una preghiera, più preghiere, la giaculatoria, il pensiero rivolto a Dio), poi un po' alla volta si sono resi conto che pregavano come respiravano. Almeno nel desiderio del loro cuore si rafforzava l'intenzione di non togliere a Dio nemmeno un respiro; e cresceva la coscienza che il contenuto dell'ultimo respiro (quando Dio se lo riprende) non dovesse essere che uno solo: l'invocazione del nome Gesù, un sospiro di desiderio verso il Padre celeste. I santi volevano arrivare alla fine della vita in modo che fosse assolutamente ovvio il senso e il contenuto del loro ultimo respiro. Io non ho profondissime esperienze di preghiera. Ma una volta ho dato ascolto a una persona saggia che mi disse: "Se vuoi imparare a pregare, cerca di usare tutti i tempi intermedi (quello che normalmente chiamiamo 'tempo perso': il tempo in cui devi aspettare una persona che ritarda, il tempo in cui devi spostarti in macchina, il tempo in cui ti rechi da un luogo all'altro.. .); riempi di preghiera quei tempi che si chiamano di solito 'tempi morti' e fà che diventino 'tempi vivi' " Non ci voleva molta bravura a farlo. Solo un po' di costanza. Adesso mi accade che se la notte mi sveglio, la prima cosa che mi viene in mente è dire: "Ave Maria..., Padre Nostro..” E' una cosa meccanica, quindi poco meritoria, ma si può offrire a Dio anche una piccola cosa meccanica, quando non si è capaci di fare di più. Perché la nostra mente deve quasi istintivamente portarsi sulle cose più stupide? Perché le nostre fantasie devono vagare senza nessuna regola? Istinto per istinto, non è meglio un "istinto" che mi fa respirare oggettivamente il nome di Dio? Per i santi era tutta pienezza di coscienza. Pensavano: Dio si merita ogni nostro respiro perché ci dona ogni nostro respiro. Ogni nostro respiro è suo. Possiamo diventare sempre più coscienti che ogni nostro respiro deve essere un sospiro rivolto a Lui. E quando questa coscienza diventa chiara, abituale, ecco che siamo diventati "uomini di preghiera”. Allora basta anche soltanto dire "Gesù!", per esprimere quanto il nostro respiro sia diventato chiaro: è un respiro che raggiunge il suo ultimo scopo, che raggiunge l'eternità. Perché non cominciare a dire al Signore la mattina appena ci si sveglia: "Signore, che ogni mio respiro sia tuo! Che ogni mio respiro ti appartenga! Che ogni mio respiro, se deve farsi voce, pronunci il tuo nome!". Lo Spirito Santo, che ci è stato dato invoca continuamente, pronuncia continuamente il nome di Gesù e invoca il Padre. Lo Spirito Santo, dentro di noi è il respiro del nostro respiro, è la vita della nostra vita, è il soffio vitale dentro il nostro soffio vitale. Ecco fino a che punto noi siamo persone che pregano! Se io sono davanti ad una persona che non ha mai pregato, che non sa come si fa, che ha paura di tutte le difficoltà che dovrebbe incontrare per imparare a pregare, la prima cosa che devo dirle è: "Tu già preghi, tu sei già un essere che prega. Perfino il tuo respiro è già preghiera: Dio ti ha fatto in modo che perfino il tuo respiro sia rivolto a Lui e tenda a Lui. E se ciò è vero per ogni essere umano, è ancora più vero per un cristiano: quando hai ricevuto il Battesimo, Dio ti ha dato il suo stesso Respiro!". Noi uomini siamo tutti "esseri che pregano", consapevolmente o inconsapevolmente. Tuttavia la "coscienza di pregare" e il "volerlo fare" restano fattori determinanti, perché è anche necessario "pregare come si ama: con tutto il proprio essere", come ripeteva spesso Alexis Carrel. Ogni uomo prega come respira, ma ogni uomo ha diritto di conoscere l'Amore per il quale sospira. Quando, però, si parla di "amore nella preghiera, non bisogna farne una questione di sentimenti o di emozioni. Non bisogna tramutare la nuda oggettività del "pregare come respirare" in un' attività complessa e sentimentale. Deve continuare ad essere una questione totale, una questione di esistenza. Madeleine Delbrél spiegava: "Quando si prega, bisogna domandare con tutto il nostro essere ciò di cui abbiamo bisogno, per noi stessi, per tutta la Chiesa, per il mondo intero. Questo significa fare della preghiera una respirazione a pieni polmoni!". Ed insisteva, anzi, sul fatto che pregare significa instaurare relazioni vitali, tutte tese ad una oggettiva e sana collocazione di se stessi in relazione con Dio: "Tu non puoi compiere ciò che Dio ha riservato a te di fare nel mondo, se non intrecci con Lui concrete relazioni, se cioè non preghi. Ma la tua preghiera, a tale scopo, deve diventare per te indispensabile come mangiare, bere, respirare". Ad osservare bene, tutta la fede cristiana si radica su esperienze elementari. Si dice di solito: "Fede è instaurare un rapporto con Dio!". Ma, se fai amicizia con Gesù, senti che Lui ti dice: "Io sono Figlio di Dio. Sai cos'è un rapporto con me? E' respirare (pregare); è lavarsi (ricevere il Battesimo); è mangiare e bere (ricevere l'Eucaristia); è ascoltare e leggere (meditare la Parola che io ti annuncio); è camminare (seguire le mie orme); è amare il mio corpo e tutto ciò che è mio (la Chiesa)". Così tutto il rapporto dell'uomo con Dio si va a radicare sulle funzioni primarie dell'essere umano: respirare, mangiare, bere, perfino "far l'amore" (attraverso il sacramento del matrimonio). Tutto ciò è fondato sulla serietà assoluta della sua Incarnazione. Gesù è venuto sulla terra e ci ha imitato in tutto. Diceva Péguy che la vera, grande "imitazione di Cristo" non è quella che noi facciamo di Gesù, ma quella che Lui ha fatto di noi quando ha imitato il nostro nascere, il nostro vivere, il nostro respirare, il nostro mangiare e bere, il nostro soffrire, il nostro morire. Da quando Lui ci ha imitato noi possiamo fare le cose più elementari della nostra vita cristianamente, divinamente. Nel cristianesimo è più importante capire la grandezza e la profondità dei gesti elementari del vivere che capire il significato dei grandi gesti. Anzi, nel cristianesimo è impossibile compiere grandi imprese, se prima non si sono compiuti, con amore quotidiano e con fede quotidiana, i mille piccoli gesti dell'esistenza. Pensiamo ai sacramenti: sono gesti grandi, gesti miracolosi inventati da Gesù. Ma essi sono stati possibili perché c'erano stati prima i normalissimi gesti della Sua vita terrena. Pensiamo a quel primo momento in cui Gesù ha preso un pezzo di pane e ha detto: "Prendete e mangiate questo è il mio corpo!". Era il più grande dei miracoli! E tuttavia era "fondato" su ciò che era accaduto tutti i giorni, durante tutti i suoi trentatre anni: in ogni giorno della sua vita terrena il pane che Gesù mangiava era diventato suo corpo (corpo di Dio!)! E' un miracolo che un po' d'acqua, versata sul capo di un bambino o su un adulto convertito, lo lavi al punto da renderlo "figlio di Dio". Ma ciò non sarebbe stato possibile se l'acqua non avesse davvero lavato il corpo del Figlio di Dio incarnato! E' un miracolo che Dio ci abbia rivelato il nome proprio di Dio ("Abbà!': "papà!"), ma ciò non sarebbe stato possibile se Gesù non avesse prima imparato a balbettare questa parola, rivolgendola a Giuseppe. "SIGNORE, OGNI MIO RESPIRO È GIÀ TUO!" Torniamo, dunque, alla preghiera. Qualsiasi preghiera impareremo a fare (dalla più semplice alla più intima e perfetta) dobbiamo radicarla sulla richiesta di questa prima grazia: "Signore, ogni mio respiro è già tuo. Ogni mio respiro vorrebbe già pronunciare il tuo nome. Ogni mio respiro è già un respiro d'amore per te". Potremmo considerare questa formula come la preghiera che contiene già ogni altra preghiera, come la preghiera che introduce e rende possibile ogni altra preghiera. S. Tommaso d'Aquino arriva a dire che ogni uomo vivente su questa terra ama Dio più di quanto ami se stesso, e questo per natura! Se un uomo ama qualcosa d'altro più di Dio è perché è diventato innaturale. Ciò significa che tutto ciò che in un essere umano può chiamarsi amore, tutto è già, per sua natura, indirizzato a Dio. "Signore, di me tutto ti appartiene; ogni mio respiro tende a Te": è così che si comincia a pregare nel mondo! Quando questa sera andrete a letto, dite: "Signore Gesù, in pace mi addormento, ma fa che ogni mio respiro, anche nell'incoscienza del sonno, sia tuo", e già offrendo questo, avrete cominciato a pregare nel mondo, a pregare per il fatto stesso di esistere. E lo stesso dovrebbe avvenire domattina, quando aprirete gli occhi, spalancherete la finestra e farete il vostro primo profondo e cosciente respiro, come se diceste a voi stessi: "Sono lieto di essere al mondo, prego per il fatto stesso di respirare, e il mio cuore si riempie di gratitudine!".

martedì 13 aprile 2021

Psicochirologo Pallocca Enrico


 

Forza epigenetica, Dio, anima e amore. Nei primi trenta giorni il bambino concepito non mantiene alcun tipo di rapporto con la madre, essendo la forza epigenetica che lo accontenta interamente di una forza potente, sapientissima, amorevole, che tutto lo crea, lo rispetta e continuamente attende la risposta viva della creatura. La forza epigenetica dà origine già dal momento della concezione alle prime cellule somatiche e germinali. Nelle cellule somatiche si trova il DNA del padre e della madre, da cui derivano i simili; invece nelle cellule germinali la forza epigenetica fa sì che dopo pochi giorni non rimanga più nulla né del padre né della madre, ma solo tre forze: a) Totipotenti (Dio) b) Immortali (anima) c) Sessuali (amore). Dio, anima e sesso in amore sono le forze primarie e costitutive della persona, che non dipendono da nessun DNA di qualcun altro. Queste forze passano attraverso le cellule nervose incoscienti. Quando sono integrali forma nervi, corpo e mente sani, mentre la loro forma nervosa, corpo e mente malati. Tutte le energie personali emanano e vengono continuamente sostenute da questa forza epigenetica, che si impossessa dell'uomo, ma viene oltre l'uomo. Questa energia, che crea ex novo ogni essere umano, è completamente superiore a tutte le energie dell'universo: è l'energia saggia e onnipotente di Dio, che Dio concede personalmente a ogni persona. Durante i primi 30 giorni di vita intrauterina, il bambino vive, si sviluppa, abbozza tutti i suoi organi e inizia a crescere in modo sorprendentemente “indipendente ′′ dalla madre. Anche nei primi 6 giorni inizia a svilupparsi anche se libero, completamente separato dalla madre. Il sesto giorno avviene l'impianto sulla parete dell'utero, ma per un mese, quando ancora non ha instaurato un legame di sangue con la madre, si nutrirà principalmente di ciò che lui stesso produce (nel sacco vitellino) e lo sostiene solo la forza epigenetica. Questa forza crea letteralmente, in alcuni momenti, le prime cellule sessuali, le prime cellule del sangue, le prime cellule nervose, ecc. La prima circolazione sanguigna del bambino si crea attorno al sacco vitellino, poi diventa intraembrionale, ma continua a non avere alcun rapporto con la madre. Il rapporto con la madre inizia ad instaurarsi a partire dal trentesimo giorno, quando possiamo dire che il bambino è già formato. In questo momento è quando si rinforza il cordone ombelicale e si iniziano ad aprire i canali di scambio con le pelose della placenta. Questo tipo di circolazione, chiamata “circolazione placentare ", è il primo stretto rapporto tra il bambino e la madre, che si fa preponderante a partire dal secondo mese. Nel terzo mese questa relazione è già completamente instaurata. Padre Angelo Benolli O.M.V La vita non si inganna ed Italia Solidale

lunedì 12 aprile 2021

Leggimi la mano Psicochirologia


 

http://enricopalloccameditazione.blogspot.it/ https://www.facebook.com/groups/enricopallocca/                     Durante los primeros treinta días el niño concebido no mantiene ningún tipo de relación con la madre, siendo la fuerza epigenética la que lo conforma enteramente con una fuerza potente, sapientísima, amorosa, que todo lo crea, lo respeta y continuamente espera la respuesta viva de la criatura. La fuerza epigenética da origen ya desde el momento de la concepción a las primeras células somáticas y germinales. En las células somáticas se encuentra el ADN del padre y de la madre, de donde derivan los parecidos; en cambio, en las células germinales la fuerza epigenética hace que al cabo de pocos días ya no quede nada ni del padre ni de la madre, sino solo tres fuerzas: a) Totipotentes (Dios) b) Inmortales (alma) c) Sexuales (amor). Dios, alma y sexo en el amor son las fuerzas primarias y constitutivas de la persona, que no dependen de ningún ADN de otra persona. Estas fuerzas pasan por las células nerviosas inconscientes. Cuando están íntegras forma nervios, cuerpo y mente sanos, mientras que su merma forma nervios, cuerpo y mente enfermos. Todas las energías personales emanan y son sustentadas continuamente por esta fuerza epigenética, que se apodera del hombre, pero viene más allá del hombre. Esta energía, que crea ex novo a todo ser humano, es completamente superior a todas las energías del universo: es la energía sabia y omnipotente de Dios, que Dios otorga personalmente a toda persona. Durante los primeros 30 días de vida intrauterina, el niño vive, se desarrolla, esboza todos sus órganos y comienza a crecer de manera sorprendentemente "independiente" de la madre. Incluso en los primeros 6 días comienza a desarrollarse pese a estar libre, completamente separado de la madre. El sexto día tiene lugar la implantación en la pared del útero, pero durante un mes, cuando todavía no ha establecido un vínculo "de sangre" con la madre, se nutrirá principalmente de lo que él mismo produce (en el saco vitelino) y lo sostiene solo la "fuerza epigenética". Esta fuerza "crea" literalmente, en determinados momentos, las primeras células sexuales, las primeras células sanguíneas, las primeras células nerviosas, etc. La primera circulación sanguínea del niño se crea alrededor del saco vitelino, luego se vuelve intraembrionaria, pero sigue sin tener relación con la madre. La relación con la madre comienza a instaurarse a partir del trigésimo día, cuando podemos decir que ya el niño está formado. En este momento es cuando se fortalece el cordón umbilical y se comienzan a abrir los canales de intercambio por las vellosidades de la placenta. Este tipo de circulación, llamada "circulación placentaria", es la primera relación estrecha que se establece entre el niño y la madre, que se hace preponderante a partir del segundo mes. En el tercer mes esta relación está ya completamente instaurada. Padre Angelo Benolli O.M.V La vita non si inganna ed Italia Solidale

mercoledì 7 aprile 2021

Psicochirologo Leggimi la mano


                                                       E ADESSO A CHI LO DICO 

                 QUANDO NON C'E' PIU' NESSUNO A CUI DIRE LA NOSTRA PENA

La #psicochirologia è capace di aiutare la persona ad interpretare gli aspetti della sua vita e ogni avvenimento può essere compreso secondo lo studio della #Chirologia  #Amicizia  #amore #lavoro e #salute cambiano significato se sono interpretati attraverso la lettura della mano

Leggimi la mano Psicochirologia

 


 

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domenica 28 marzo 2021

Suicidio nel mondo del lavoro

 


                                                                 A mia moglie Maria, compagna di vita da sempre e per sempre; 

 

Ai miei figli, Elisa e Marco per avermi reso il papà e il nonno più ricco del mondo; 

 

A Ilaria Bifulco per avermi supportato in questo cammino universitario  regalandomi la grinta di un ventenne; 

 

A me per averci sempre creduto. 

Prevenire il suicidio Calliope Onlus

 


 

 
La mia vita, il suicidio e la suicidologia Maurizio Pompili Insignito con lo Shneidman Award 2008 dall’American Association of Suicidology Department of Psychiatry, Sant’Andrea Hospital, Sapienza University of Rome, Italy McLean Hospital – Harvard Medical School, USA Corresponding author: Maurizio Pompili, M.D., Department of Psychiatry – Sant’Andrea Hospital, Sapienza University of Rome, 1035 Via di Grottarossa, 00189 Roma Italy Tel.: +39 06 33775675. Fax:+390633775342; E-mail Address: maurizio.pompili@uniroma1.it or mpompili@mclean.harvard.edu. Un milione di suicidi ogni anno nel mondo e’ una perdita di vite umane inaccettabile e per la quale poco ancora si fa rispetto ad altre problemi di sanita’ pubblica. Poco serve a rammentare che nel mondo ogni 40 secondi si verifica un suicidio e ogni tre secondi si registra un tentativo di suicidio. Inoltre si è assistito ad un’allarmante crescita dei tassi di suicidio tra i giovani, segnando una controtendenza rispetto agli anni cinquanta in cui il fenomeno suicidario era più serio nell’età anziana. Attualmente molte risorse sono dedicate a programmi di prevenzione nelle scuole, a sforzi nella ricerca empirica e all’organizzazione di centri per lo studio e la prevenzione del suicidio, a pubblicazioni e ad accordi multidisciplinari. La prevenzione del suicidio e’ a volte complessa e diverisificata. Nello specifico, la prevenzione universale adotta strategie o iniziative rivolte a tutta la popolazione per aumentare la consapevolezza del fenomeno e fornire indicazioni sulle modalitá di aiuto. In questo ambito troviamo campagne dei mass media, la necessita’ di ridutte l’accesso ai mezzi letali, la creazione di centri di crisi e i programmi di informazione nelle scuole. La prevenzione selettiva si serve di strategie preventive dirette ai gruppi a rischio e che hanno più probabilitá di diventare suicidi mentre la prevenzione indicata utilizza strategie dirette agli individui che hanno segni precoci di alto rischio di suicidio. A questo si aggiungono modelli clinici che cercano di far luce sul fenomeno per meglio prevenirlo . Fin dal 1999 il Surgeon General degli Stati Uniti ha divulgato il Call to Action to Prevent Suicide, un vasto documento che rappresenta la pietra miliare dell’allarme che il fenomeno suicidario desta nel mondo. Purtroppo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanita’ non solo sottolineano l’incremento dei tassi di suicidio negli ultimi cinquanta anni ma pongono l’accento sul fatto che nel 2020 si arrivera’ ad oltre un milione e mezzo di morti per suicidio. Gli individui che tentano il suicidio hanno un alto rischio di effettuare ulteriori tentativi di suicidio, spesso con esito letale; alcune strategie di sostegno per coloro che hanno tentato il suicidio sono di grande valore, primo fra tutte incontri programmati con follow-up regolari; deve inoltre esserci una valida rete di collegamento tra i servizi psichiatrici in modo tale da riconoscere e gestire questi individui globalmente. Il suicidio e’ stato da sempre stigmatizzato e il ruolo dello stigma rimane uno dei principali problemi nell’esecuzione degli interventi preventivi. Pregnanti sono i riferimenti riportati da Alvarez nel suo celebre libro. Di seguito ne riportiamo alcuni per indicare quanto radicata sia la discriminazione e la paura dell’argomento suicidio. Nel 1601 Fulbecke (un avvocato) afferma che il suicida è trascinato da un cavallo in un posto di punizione e vergogna, nel quale viene appeso ad una struttura ad hoc e nessuno può far scendere il corpo tranne l’autorità di un magistrato. Successivamente un’altra autorità, Blackstone, scrisse che la sepoltura dei suicidi era eseguita lungo le strade con una struttura che legava il corpo e che era simile a quella usata per i vampiri. In alcuni casi si poneva una pietra sul volto del suicida prima della sepoltura per evitare che il fantasma si ripresentasse. I corpi dei suicidi erano poi destinati alle scuole di anatomia (Inghilterra); i corpi venivano anche sepolti tra la spazzatura (Francia); a Danzica (Polonia) il corpo del suicida non poteva essere fatto passare dalla porta dell’abitazione bensì veniva fatto uscire dalla finestra che veniva successivamente bruciata. Ad Atene (Grecia) il corpo del suicida veniva sepolto fuori le mura della città e lontano dalle altre tombe; la mano del suicida veniva tagliata e sepolta a parte. Ogni tipo di provvedimento veniva poi preso per deprivare di ogni possedimento la vittima del suicidio a favore dei governanti che divenivano proprietari di tutti i suoi averi. Comune era anche la falsificazione dei documenti di morte; se nel certificato si attestava la morte per suicidio non era previsto alcun rito funebre con tutte le conseguenze previste dalla società e dalla legge; se invece si attestava una morte naturale si poteva procedere con un funerale in grande stile. Il tutto dipendeva se si era ricchi e potenti o poveri ed emarginati. Storicamente l’attitudine della società nei confronti del suicidio e i comportamenti suicidari rivela una grande spaccatura tra l’accettazione razionale e quella irrazionale, che invece si nutre di superstizioni e sentimenti di ostilità e punizione. Nel corso della storia, la religione ha svolto un ruolo importante nell’influenzare lo stigma nei confronti del suicidio. La chiesa sia nel Nuovo che nel Vecchio Testamento non proibisce direttamente il suicidio. Nel Vecchio Testamento ci sono vari suicidi e per nessuno di essi si hanno commenti negativi. I governi europei iniziarono a cambiare le loro leggi nel 1824; il parlamento inglese approva una legge che permette di seppellire le vittime del suicidio nei posti adiacenti le chiese, sebbene solo dalle 21 a mezzanotte (Pompili e Tatarelli, 2007). Lo stigma spesso impedisce l’accesso alle cure psichiatriche e dunque può influenzare negativamente il rischio di suicidio. E' stato stimato che i suicidi tra i giovani dai 15 ai 19 anni sono aumentati del 245 per cento tra il 1956 e il 1994 (Peters et al. 1998). Il suicidio giovanile è attualmente la seconda causa di morte nella fascia di età dai 15 ai 24 anni e costituisce un allarmante problema di sanità pubblica. E' difficile avere una stima esatta del numero di suicidi e tentativi di suicidio in questa fascia di età. Sia per la scarsa accuratezza dei certificati di morte e sia per l'impossibilità, in molti casi, di valutare l'effettiva letalità di un tentativo di suicidio. Da alcune indagini nella popolazione giovanile è emersa infatti la difficoltà da parte degli intervistati di distinguere tra un tentativo di suicidio (suicidio non riuscito per cause indipendenti dalla volontà del soggetto) e un gesto di autolesionismo (nel quale non vi è l’intenzione di morire). I metodi impiegati per togliersi la vita variano nelle diverse parti del mondo a seconda della disponibilità dei mezzi letali. In alcune aree geografiche è molto frequente il suicidio con ingestione di pesticidi mentre in altre aree prevale l’intossicazione da farmaci e con gas di scarico di automobili. I maschi solitamente utilizzano metodi più letali anche se negli ultimi anni si registra una analogo orientamento tra le femmine. Il miglior approccio per la prevenzione è senz’altro quello che parte dalle scuole, con il coinvolgimento oltre che dei ragazzi anche degli insegnanti, dei medici, del personale infermieristico e di tutte le figure presenti nell’ambiente. L’ideazione suicidaria non è rara: può presentarsi in qualsiasi individuo sano e può rientrare nel normale processo di crescita, una fase in cui si cerca di capire la vita, la morte e il significato dell’esistenza. In effetti, i giovani hanno bisogno di confrontarsi su questi temi con gli adulti. I pensieri di suicidio divengono preoccupanti quando si presentano come possibile e unica soluzione dei loro problemi. E’ frequente che un discreto numero di persone che per vari motivi interagiscono con me, si stupiscano del mio interesse e studio per il tema del suicidio manifestato persino in splendide giornate di sole e di festa; queste persone sostengono che il suicidio è un argomento mortifero, tetro e macabro che non si addice a tanta manifestazione di vita. Io sono solito rispondere sempre con un’affermazione che testimonia fortemente la vita, e vale a dire che il suicidio non dovrebbe essere considerato un movimento di avvicinamento alla morte bensì il tentativo estremo di allontanarsi da un dolore psicologico divenuto insopportabile. Se tale dolore potesse essere alleviato quei soggetti testimonierebbero la loro voglia di vivere. La suicidologia può essere definita come la disciplina dedicata allo studio scientifico del suicidio e alla sua prevenzione. Il termine (e il concetto) fu usato per primo usato da Edwin Sheneidman (1964) e da allora e’ stato impiegato in diversi ambienti per descrivere aspetti di un training specifico (Fellowship in Suicidology, 1967); come parte di una nuova rivista scientifica (Bulletin of Suicidology, 1968) o come etichetta di un’organizzazione (American Association of Suicidology, 1968). La suicidologia diversamente da altre scienze comportamentiste non include meramente lo studio del suicidio, ma enfatizza la prevenzione dell’atto letale; in altre parole incorpora interventi clinici appropriati per prevenire il suicidio, una caratteristica non sempre esplicitata nella miriade di contributi sul tema. Il focus della suicidologia non e’ necessariamente il suicidio ma anche tutti i comportamenti suicidari. L’American Association of Suicidology, fondata da Shneidman e’ un’istituzione nel panorama internazionale dello studio e prevenzione del suicidio. Hanno diretto tale associazione i più grandi nomi della suicidologia; e il più importante periodico sul suicidio (Suicide and Life-Threatening Behavior). Non capita di frequente di essere insignito con un riconoscimento inerente il suicidio come lo Shneidman Award dall’American Association of Suicidology (AAS) con la motivazione “Outstanding early career contributions to Suicidology”. E’ dunque comprensibile la mia emozione nel recarmi a Boston per la cerimonia ufficiale il 18 aprile 2008 presso la Conferenza Annuale dell’Association e di essere presentato con tutti gli onori da Lanny Berman, Executive Director dell’AAS. Ancor di più, questo riconoscimento giunge in un preciso momento temporale di grande significato per il suicidio, ossia i 40 anni dell’American Association of Suicidology e i 90 anni di Edwin Shneidman, considerato il padre della suicidologia. Mi sono dunque recato a Los Angeles per conoscere il vecchio Shneidman, personaggio rappresentativo della nostra disciplina. Ho potuto sentire dalle sue parole ciò che avvenne in quel fatidico giorno così importante per lo studio del suicidio. La fondazione simbolica (o in ogni modo il primum movens) della suicidologia può essere infatti ricondotta una giornata del 1949 quando Shneidman lavorava come psicologo clinico presso il Brentwood Veteran Administration Hospital di Los Angeles. In quel particolare giorno fu chiamato dal direttore dell’ospedale affinché scrivesse due lettere di condoglianze per le giovani mogli di due uomini che si erano tolti la vita durante il corso del ricovero. Shneidman si recò presso nell’ufficio del magistrato nel vecchio Los Angeles Hall of Records dove erano stati aperti i fascicoli inerenti alle morte dei due uomini. Nell’aprire la documentazione egli notò che uno dei due fascicoli conteneva una nota di suicidio, un biglietto lasciato dal defunto prima di morire, mentre l’altro non lo conteneva. In quell’ambiente, fra migliaia di fascicoli, iniziò ad aprirne alcuni e notò che con una frequenza di circa 1 a 15 questi fascicoli riportavano una nota di suicidio. Gli tornò in mente il Metodo della Differenza di Stuart Mill e dunque la possibilità di studiare quel materiale con un metodo scientifico. In quei minuti accadde qualcosa di unico. Resosi conto di essere circondato da fascicoli di suicidi avvenuti nei cinquant’anni precedenti e dunque secondo la sua stima circa 2000 note, decise di resistere alla tentazione di leggere quelle note, altrimenti, ammetterà in seguito, “avrei finito per trovarci ciò che io (soggettivamente) mi aspettavo. Avrei appreso molto sulla miseria umana di ciascun soggetto, ma non avrei fatto nulla per porre le basi per lo studio del suicidio, un’area quasi inesistente”. Egli dunque fece le fotocopie di oltre 700 note di suicidio, le mise da parte e non le lesse. In seguito, Shneidman pensò di confrontare in cieco le note che aveva trovato in quell’archivio con note simulate scritte da persone non suicide (Shneidman 1998). Il lavoro che elaborò con l’aiuto di Norman Farberow fu il primo tentativo di studiare il suicidio con un metodo scientifico (Shneidman e Farberow 1956; 1957). I loro sforzi furono premiati con contributi economici sempre crescenti e da quei primi passi nacque il primo centro per la prevenzione del suicidio, il Los Angeles Suicide Prevention Center che oltre al contributo di Shneidman e Farberow ebbe il contributo di Robert Litman. Nel corso di una vita trascorsa a studiare il suicidio, Shneidman ha concluso che l‘ingrediente base del suicidio è il dolore mentale insopportabile (Shneidman 1993a), che chiama psychache, che significa “tormento nella psiche”. Shneidman suggerisce le domande chiave che possono essere rivolte ad una persona che vuol commettere il suicidio sono “Dove senti dolore?” e “Come posso aiutarti?”. Se il ruolo del suicidio è quello di porre fine ad un insopportabile dolore mentale, allora il compito principale di chi deve occuparsi di un individuo suicida che soffre a tal punto è quello di alleviare questo dolore (Shneidman 2004; 2005). Infatti, si ha successo in questo compito, quell’individuo che voleva morire sceglierá di vivere. Shneidman (1993a,b) inoltre considera che le fonti principali di dolore psicologico ovvero vergogna, colpa, rabbia, solitudine, disperazione, hanno origine nei bisogni psicologici frustrati e negati. Nell’individuo suicida è la frustrazione di questi bisogni e il dolore che da essa deriva, ad essere considerata una condizione insopportabile per la quale il suicidio è visto come il rimedio più adeguato. Ci sono bisogni psicologici con i quali l’individuo vive e che definiscono la sua personalitá e bisogni psicologici che quando sono frustrati inducono l’individuo a scegliere di morire. Potremmo dire che si tratta della frustrazione di bisogni vitali; questi bisogni psicologici includono il bisogno di raggiungere qualche obiettivo come affiliarsi ad un amico o ad un gruppo di persone, ottenere autonomia, opporsi a qualcosa, imporsi su qualcuno e il bisogno di essere accettati e compresi e ricevere conforto. Shneidman (1985) ha proposto la seguente definizione del suicidio: “Attualmente nel mondo occidentale, il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione. La suicidologia classica considera dunque il suicidio come un tentativo, sebbene estremo e non adeguato, di porre fine al dolore insopportabile dell’individuo. Tale dolore converge in uno stato chiamato comunemente stato perturbato nel quale si ritrova l’angoscia estrema, la perdita delle aspettative future, la visione del dolore come irrisolvibile ed unico. Il termine psychache tenta infatti di esprimere il dramma della mente del soggetto che si suicida nel quale la colpa, la vergogna, la solitudine, la paura, l’ansia sono caratteristiche facilmente identificabili. L’individuo ha dunque necessità di porre fine a tale stato; il rischio di suicidio diviene grave, quando quel soggetto lo considera come la migliore ed unica soluzione per porre fine a quell’immenso dolore psicologico. Nella concettualizzazione di Shneidman (1996) il suicidio è il risultato di un dialogo interiore; la mente passa in rassegna tutte le opzioni. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni. Trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo; alla fine la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile. L’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle opzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi (veramente poche per un range): avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile. Quindi, in questi termini, il suicidio si configura come la soluzione perfetta per le angosce insopportabili della vita. Presso l’UOC di Psichiatria dell’Ospedale Sant’Andrea in Roma diretta dal Prof. Tatarelli si sta costituendo un ambulatorio dedicato ai soggetti a rischio di suicidio. Intorno a questa iniziativa ruota un gruppo foltito di collaboratori che insieme con me si occupa di diffondere i fondamenti della prevenzione del suicidio nell’ambito della comunità. Recentemente, un collega e collaboratore mi ha riferito quanto segue nel presentare ad un presidio medico una breve brochure nella quale abbiamo riassunti alcuni dati salienti sul suicidio, compresi i miti e i fatti del fenomeno “...dopo poco la reazione di medici, infermieri e soprattutto della psicologa è stata veramente incredibile. La psicologa ha chiesto di buttare tutto pensando che fosse "terribile" per chi passa di lì e già sta male, vedere certi argomenti. L'infermiera l'ha considerata come una cosa che può indurre al suicidio chi già è "debole" e il medico l'ha definita addirittura una possibile forma di deviazione-induzione mentale nei giovani che stanno ancora ultimando i processi cognitivi. Inutile dirti la validità di ogni mia spiegazione di fronte ai loro convincimenti, più di tutto mi ha sconvolto la psicologa. Il mio personale parere è che per il lavoro sul territorio per quanto riguarda medici e personale para-medico sarà per noi più giovani molto difficile...”. Non ci stancheremo mai di ripetere che parlare di suicidio e chiedere sul suicidio sia senza dubbio l’azione migliore per prevenirlo. Ripenso dunque alle mie giornate passate a studiare questo enigmatico argomento e prendo coscienza del duro lavoro che ci attende per correggere i miti e le false credenze sul fenomeno. Come referente italiano dell’International Association for Suicide Prevention (IASP) ho il compito di organizzare eventi che sensibilizzino l’opinione pubblica. Il 10 settembre di ogni anno si celebra la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio. Il motto per il 2008 e’ “Pensa globalmente, pianifica a livello nazionale ed agisci localmente”. Il suicidio si può prevenire e la miseria umana puo’ essere compresa. A noi spetta il compito di cimentarci con le emozioni negative degli individui suicidi e di come trovare quel ponte immaginario che può condurci alla vera comprensione del loro dramma interiore. Contatti e informazioni visitando il sito: w3.uniroma1.it/suicideprevention prevenzionesuicidio@uniroma1.it maurizio.pompili@uniroma1.it Bibliografia Peters K.D, Kochanek KD, Murphy SL. (1998). Deaths: final data for 1996. 47, 9. Pompili M, Tatarelli R. (2007). Suicidio e suicidologia: uno sguardo al futuro. Minerva Psichiatrica, 48, 99-118. Shneidman, E. S. (1964). Grand old man in suicidology. A review of Louis Dublin’s Suicide: a sociological study. Contemporary Psychology, 9, 370-371. Shneidman, E. S. (1985). Definition of suicide. Aronson, Northvale. Shneidman, E. S. (1993a). Suicide as psychache: A clinical approach to self-destructive behavior. Jason Aronson, Northvale. Shneidman, E. S. (1993b). Suicide as psychache. The Journal of Nervous and Mental Disease 181, 145-147 Shneidman, E. S. (1996). The suicidal mind. Oxford University Press, New York. Shneidman, E. S. (1998). Suicide on my mind, Britannica on my table. American Scholar 67, 93-104. Shneidman, E. S. (2004). Autopsy of a suicidal mind. (Tr. It: Autopsia di una mente suicida, Fioriti Editore, 2006. Oxford University Press, New York. Shneidman, E. S. (2005). Anodyne Psychotherapy: A Psychological View of Suicide. Clinical Neuropsychiatry 2, 7-12. Shneidman, E. S., & Farberow, N. L. (1956). Clues to suicide. Public Health Reports 71, 109-114. Shneidman, E. S., & Farberow, N. L. (1957). Some comparisons between genuine and simulated suicide notes in terms of Mowrer's concepts of discomfort and relief. Journal of General Psychology, 56, 251-256.

lunedì 11 gennaio 2021

Terapia del Campo Mentale Pallocca Enrico

 

 

Terapia del campo mentale. Luis Jorge Gonzàles carmelitano scalzo professore al Teresianum a Roma

Un percorso naturale per vincere lo stress e ritrovare l'equilibrio. Un metodo semplice e fisiologico per recuperare l'armonia nelle relazioni familiari e sociali e per guardare avanti con rinnovata speranza. La terapia del campo mentale si propone di correggere gli squilibri biochimici per arrivare al benessere psicologico con se stessi e con gli altri in modo del tutto naturale. In Italia il metodo era noto da qualche anno, ma adesso sta conoscendo una nuova popolarità grazie all'appassionata opera divulgativa di un sacerdote padre Luis Jorge Gonzales, psicologo e teologo, docente al teresianum di Roma. Padre Gonzàles ha fatto proprio il metodo della terapia del campo mentale messo a punto qualche decennio fa da un medico americano, Roger Callahan. L'ha rivisto alla luce della dottrina cristiana e l'ha riproposto come una prassi semplice e di facile utilizzo, spiega padre Gonzàles. Le situazioni ansiogene possono essere generate sia da eventi negativi come problemi familiari, difficoltà di lavoro, sia da eventi positivi come l'attesa di qualcosa di molto desiderato.  Le premesse di questo approccio terapeutico si fondano sulla convinzione scientifica delle enormi possibilità presenti nella natura umana. La terapia del campo mentale prevede la stimolazione di alcuni punti del corpo con leggeri  colpetti in sequenza preordinata. Si agisce sui punti terminali dei meridiani di energia conosciuti nell'agopuntura, la quale però non agisce direttamente sulla sfera psicologica. Il vantaggio della tecnica, è che ciascuno, una volta appreso il metodo, può fare esercizio da solo nel corso della giornata senza la presenza dello specialista. Ci possono riuscire bene anche i bambini.  Detto così potrebbe sembrare semplicistico. In realtà la prassi dev'essere accompagnata dalla consapevolezza interiore del problema specifico che si intende affrontare. E' questa consapevolezza che, attivando gli effetti emozionali connessi al problema, permette di affrontarli attraverso la stimolazione dei punti di energia. La terapia com'è ovvio non cambia  gli eventi che hanno scatenato lo stato di malessere, né modifica i valori personali o il livello di conoscenza che ciascuno ha di sé e degli altri, ma elimina appunto le cosiddette "pertubazioni del campo mentale". La stimolazione dei punti adeguati diffonde energia nell'organismo, innescando una modificazione biochimica che fa sentire meglio le persone e ne allegerisce la sofferenza psicologica Dio ci ha creati a sua immagine e vuole condividere con noi la sua beatitudine. La nostra situazione di finitezza non ci permette però di approdare a un livello di assoluta felicità, ma a un minimo di benessere che, se mantenuto, ci fa vivere più sereni. L'obiettivo della terapia è contribuire a conservare questo stato di benessere pur nelle difficoltà che la vita ci riserva. di  Paola Tettamazzi da Avvenire