martedì 29 luglio 2014

Counseling di chirologia

 
Chi è il counselor: iscritto albo professionale Discipline BioNaturali Olistiche per la Salute SINAPE Licenza in Scienze Sociali presso la Pontifica UniversitàSan Tommaso d'Aquino Roma Enrico Pallocca Coaching Cognitivo Terapia delCampo Mentale TFT Tel: 3337422760 Bed&Breakfast Villa Mina Castel Rigone Passignano sul Trasimeno Via dell'Ospedale 1  enricopallocca@gmail.com

lunedì 28 luglio 2014

Counseling espiritual Coaching Cognitivo: Chirologia per capire la personalita'

Counseling espiritual Coaching Cognitivo: Chirologia per capire la personalita': Counseling di chirologia da pagina 2 a 6 da pagina 7 a 30 da pagina 31 a 45 da pagina 46 a 60 da pagina 61 a 76 da pagina ...

Counseling di chirologia Il termine: Counseling è una parola inglese che richiama alla mente qualcosa che ha che fare con la consulenza, il consultare, il consigliare. Definizione: Il counseling è una relazione d'aiuto, è un processo in cui il consulente (counselor) ha lo scopo di massimizzare il benessere dell'individuo attraverso il potenziamento delle sue risorse. Consulente e cliente: Nel counseling i due attori si chiamano consulente e cliente e non terapeuta e paziente o esperto e allievo, proprio per sottolineare la qualità della relazione di counseling nella quale è il cliente che sceglie e decide di farsi aiutare, ma non abdicherà mai né alla sua libertà, né alla sua responsabilità nella soluzione dei suoi problemi. Alla base del counseling: C'è l'idea che se una persona si trova in difficoltà, il modo migliore di venirle in aiuto non è di dirle cosa fare o trovare delle soluzioni, ma aiutarla a comprendere il suo vissuto, la sua situazione, assumendosi pienamente su di sé la responsabilità delle scelte da fare. La relazione d'aiuto ha come finalità principale quella di restituire alla persona in difficoltà autonomia e autostima, che in parole povere non sono altro che l'abilità di cavarsela autonomamente di fronte alle difficoltà e imprevisti della vita, e alle inevitabili crisi connesse al passaggio da una fase all'altra del ciclo vitale. L'intervento d'aiuto cerca di portare il soggetto alle soglie dell'azione, è aiutato ad autocomprendersi, ad esplorare il suo vissuto, le sue emozioni, i suoi comportamenti, a vedere chiaramente il ventaglio delle scelte che gli si prospettano, delle competenze che la situazione richiede e dei cambiamenti possibili, la responsabilità dell'azione è in ogni caso sua. Quali sono le cose che possono sconvolgere l'ordine che abbiamo sempre dato alla nostra vita?: Le più varie, eventi tragici come la perdita di un lavoro, o la necessità di riciclarci, una separazione, un lutto, una malattia, oppure piccoli avvenimenti all'apparenza di poco conto, che in realtà sono la fatidica goccia che fa traboccare il vaso e lo stress accumulato e non più contenuto ci sommerge. Critici e scatenanti possono essere anche gli inevitabili passaggi legati all'età, come la scelta degli studi, la genitorialità, il pensionamento, la maternità e così via, eventi molto intensi e coinvolgenti che possono essere fonte di gran gioia o al contrario di gran turbamento e disorientamento a secondo del momento e delle condizioni in cui siamo quando ci capitano. In conclusione il cliente del counseling siamo tutti noi, quando non ce la facciamo da soli ed abbiamo bisogno d'aiuto. Chirologia: Il termine nasce dall'unione di due parole d'origine greca "kheir" (mano) e "logos" (qui nel senso di discorso, meglio trattazione). Il "Grande dizionario della Lingua Italiana" del Battaglia (Utet-Torino) ne dà questa definizione: "Scienza che tenta di dedurre i dati fisico-psicologici di una persona dallo studio della mano". Non predico il futuro "Ma" oriento la persona, seguendo la via che mi fornisce l'interpretazione di tutte le forze create da ciascuno dei segni e degli elementi che si possono leggere dall'analisi di una mano. Le forze che parlano al chirologo attraverso la mano non sono altro che l'essenza della nostra personalità, delle nostre azioni. Non predico il futuro: "Perché" fare previsioni è rischioso e crea delle trappole esistenziali e psicologiche in individui già intrappolati nella loro storia personale, da cui non sanno uscire. Se una predizione "positiva" può essere gratificante, non è detto che non sia illusoria, così come una predizione "negativa" può diventare un'immagine in cui l'individuo tende ad identificarsi, facendola avverare. Il counseling di chirologia: "Non si" occupa di previsioni d'eventi che sono solo tendenze ad accadere, ma di analizzare la struttura del carattere delle persone, il loro temperamento, le loro potenzialità, i loro talenti e il loro Talento individuale, in pratica la loro vera natura seppellita sotto infinite zavorre. Analizza anche i punti deboli sia a livello psicologico che fisico, l'orientamento vocazionale, la direzione e le modalità espressive dei sentimenti, delle emozioni e della sessualità. Chi è il counselor: iscritto albo professionale Discipline BioNaturali Olistiche per la Salute SINAPE Licenza in Scienze Sociali presso la Pontifica Università San Tommaso d'Aquino Roma Enrico Pallocca Coaching Cognitivo Terapia delCampo Mentale TFT Tel: 3337422760 Bed&Breakfast Mina Castel Rigone Passignano sul Trasimeno Via dell'Ospedale 1 enricopallocca@gmail.com


Chirologia per capire la personalita'

domenica 27 luglio 2014

Ariccia Santa Apollonia


sabato 19 luglio 2014

Castel Rigone FESTA DEI BARBARI XXX° ANNO dal 31 luglio al 3 Agosto 2014.




FESTA DEI BARBARI XXX° ANNO dal 31 luglio al 3 Agosto 2014.




Counseling espiritual Coaching Cognitivo: FESTA DEI BARBARI XXX° ANNO dal 31 luglio al 3 Ago...

Counseling espiritual Coaching Cognitivo: FESTA DEI BARBARI XXX° ANNO dal 31 luglio al 3 Ago...

FESTA DEI BARBARI XXX° ANNO dal 31 luglio al 3 Agosto 2014.




http://www.villamina.it/applicazione/index.php




Villa Mina Via dell'ospedale 1/3




06063 Passignano sul Trasimeno (Perugia)




Località Lago Trasimeno Castel Rigone




tel. 0757824761 fax 0757824761 cell. 3395018638




http://www.villamina.it/applicazione/index.phporganizzare su richiesta delle




Enrico Pallocca Coaching Cognitivo Terapia del Campo Mentale TFT enricopallocca@gmail.com Tel: 3337422760 Bed&Breakfast Mina Castel Rigone Passignano sul Trasimeno Via dell'Ospedale 1




http://enricopalloccameditazione.blogspot.com/

FESTA DEI BARBARI XXX° ANNO dal 31 luglio al 3 Agosto 2014.



giovedì 17 luglio 2014

Counseling espiritual Coaching Cognitivo: Maria e lo scapolare

Counseling espiritual Coaching Cognitivo: Maria e lo scapolare: Maria e lo scapolare               Il culto mariano, inscindibile da quello cristiano, si articola praticamente, sia in modo...





Maria e
lo scapolare


 


            Il
culto mariano, inscindibile da quello cristiano, si articola praticamente, sia
in modo ufficiale mediante le celebrazioni lungo l'anno liturgico, sia in modo
privato, con svariate forme di pietà popolare. Tra queste figurano i così detti
"scapolari mariani"; spontanee espressioni d'amore e di fiducia, che
a modo loro recano un valido contributo al culto d'iperdulia, riservato alla
beata Vergine a motivo della sua singolare dignità quale "Madre di
Dio".


            Il
più antico, venerato e diffuso è lo Scapolare della Madonna del Carmelo o
Scapolare carmelitano. Adottato dai primi eremiti, stanziati sul Monte Carmelo
verso la fine del secolo XII, lo Scapolare figurò, prima, come una delle cinque
parti ( tonaca, scapolare, mantello, cinghia di cuoio, bastone), poi come segno
dell'abito carmelitano come tale. Esso, detto anche superumerale, consisteva in
una lunga striscia rettangolare con un'apertura al centro per introdurvi la
testa; una parte cadeva a coprire il dorso, l'altra il petto fino ai reni.
Nella seconda metà del secolo XIII vi si attribuì un triplice significato
simbolico.


            Innanzitutto
un simbolismo religioso, per il fatto
che presentava la foggia di vestire propria di una persona consacrata al
servizio di Dio. Esso ricordava gli obblighi della consacrazione ed era segno
della fedeltà ad essa. Sbarazzarsi dello scapolare equivaleva giuridicamente al
rifiuto della disciplina monastica e alla diserzione dall'Ordine.


            Abbiamo,
poi, un simbolismo cristologico con
cui si vede nello scapolare un segno chiaro del "giogo di Cristo"
portato giorno e notte, e, dunque, una eloquente espressione della obbedienza
religiosa.


            Il
terzo simbolismo è mariano e fa
riferimento concreto alla Madonna. All'interno di questo simbolismo lo
scapolare fu chiamato "abito di Maria" e "sacramento" del
suo amore per noi.


           


            Nel
parlare di abito di Maria non si
intende, evidentemente, l'abito materiale, si vuole piuttosto indicare il suo
modo di essere interiore e il complesso delle virtù esimie di cui è
"rivestita", in modo particolare la sua umiltà e semplicità, di cui
l'Abitino sarebbe una "abbreviata" e simbolica espressione. Ma con
"abito di Maria" si vuole anche affermare che esso viene da Lei, ed è
stato da Lei donato come segno e pegno
della sua materna protezione
.


            Ideato
e confezionato generalmente dalle premure di una madre, l'abito implica sempre
una forte carica di affettuosità. Basterebbe fermarsi un tantino a osservare
una donna, futura madre, nell'atto di confezionare il vestitino al prossimo
frutto del suo grembo. Non è difficile scorgervi un'invenzione del suo genio,
una confezione intrisa di amore. Gli scrittori dell'Ordine non omisero di
mettere in luce un aspetto così suggestivo dello Scapolare e lo presentano
esplicitamente come "pegno d'amore", "espressione di materna
predilezione", segno inequivocabile di una "affettuosa adozione"
da parte della beata Vergine.


            Ma
proprio perché delicata espressione di un amore materno, esso esige in chi lo
indossa la risposta di un amore decisamente "filiale", fatto non solo
di confidenza e di devoto attaccamento, ma anche di piena dedizione e di totale
servizio.


            A
livello di vita, dunque, lo Scapolare - come abito di Maria - deve costituire,
come ricorda Giovanni Paolo II, "un indirizzo permanente della propria
condotta cristiana". Un monito incessante di "rivestirsi" di
Maria in modo analogo al "rivestirsi" di Cristo, raccomandato da S.
Paolo.


            In
effetti chi porta l'Abitino fa professione di appartenere alla Madonna. Si
tratta di un'appartenenza che comporta, evidentemente, la dedizione totale di
sé, cioè la "consacrazione a Lei .Donazione irrevocabile di sé, la
consacrazione potrebbe ritenersi storicamente simile all'affidamento
("commendatio") che, secondo il sistema feudale, un figlio della
gleba ("vassallus") emetteva nelle mani di un prescelto signore
("dominus") nell'intento di dedicarsi a rendergli omaggio
("obsequium") e di assicurarsene la protezione. E' evidente che, nel
nostro caso, le finalità e gli scopi sono di ordine spirituale.


 


            Tale
devozione, oltre che indossare giorno e notte lo Scapolare, non impone pratiche
speciali; essa, perciò, è compatibile e adattabile a tutte le età e condizioni
di vita. Come detto, essa punta di preferenza sulla maternità spirituale di Maria, nutrendosi di tutte le sue
sfumature, secondo quanto Giovanni Paolo II mette bene in luce nell'enciclica Redemptoris Mater: materna presenza;
materna funzione; materna mediazione; materno affetto; materno soccorso. Tutti
aspetti, questi, che, a loro volta, suscitano nel cuore del credente sentimenti
di tenerezza, confidenza e sereno abbandono. Desiderio di intimità, di
condivisione della vita e di imitazione. Imitazione che, ovviamente, non
significa riprodurre il tipo di vita di Maria, né, tanto meno adeguarsi
all'ambiente sociale e culturale in cui si trovò, così diverso dal nostro.
Significa, invece, parteciparne e riviverne, in quanto possibile, "lo
spirito", cioè le disposizioni della mente e del cuore, con le quali
accolse ed espletò la volontà del Signore.


            A livello pratico, come segno di
dedizione e di appartenenza, l'Abitino costituisce un ricordo e un monito per
evitare qualsiasi cosa non gradita a Maria: pensieri, fatti, risoluzioni
contrarie al suo onore. In pari tempo dovrebbe positivamente condurre a Maria
per dipendere da Lei e impegnarsi a essere suddito fedele.


 


            La
dedizione-appartenenza alla Vergine, si esprime anche visibilmente attraverso
l'aggregazione all'Ordine del Carmelo riconosciuto universalmente come
"Famiglia di Maria". Chi porta l'Abitino, infatti, "viene
aggregato come membro della Famiglia del Carmelo con l'impegno di viverne la
spiritualità e di coltivare una sincera devozione alla beata Vergine secondo le
caratteristiche del proprio stato di vita" (Giovanni Paolo II). La
devozione alla Madonna del Carmine fa parte e sviluppa il carisma carmelitano che consiste in una tensione verticale, che, a
partire dal distacco radicale ("nada") delle creature, si protende
direttamente al Tutto ("todo"), il Creatore. Ne rispecchia ed
alimenta le esigenze vitali che sono: l’ansia di Dio e l’appassionata ricerca
della sua intimità nell'orazione. Ciò spiega perché il carmelitano, e chi
indossando l'Abitino ne condivide la spiritualità, punta di preferenza su Maria
quale Vergine purissima, preservata
da ogni macchia di peccato, sicché fin dall'inizio mai ebbe impressa nell'anima
immagine di creatura alcuna; su Maria Vergine
umilissima
, estranea ad ogni ripiegamento egoistico; su Maria Vergine fedelissima, custode nel cuore
della divina parola, sempre e totalmente aderente alle disposizioni della
Provvidenza.


           


            Il
nucleo costitutivo della pietà mariana del Carmelo comporta un profondo senso
di appartenenza a Maria, di radicale orientamento verso di Lei e di una  abituale dipendenza da Lei; il tutto espresso
con la parola “consacrazione”, intesa come totale, fiduciosa, amorevole
dedizione di sé a Lei - .


            Tale
devozione non comporta, di per sé, pratiche particolari. Da questo punto di
vista la devozione allo scapolare "è la più spoglia, la più sobria tra le
devozioni mariane. Essa postula unicamente l'accettazione filiale di un segno
da portare continuamente (l'abitino, appunto) e una sincera decisione di vivere
cristianamente sotto la materna protezione di Maria. Più che su pratiche particolari
la devozione alla Madonna del Carmine si fonda sul riferimento della propria
vita a Maria, in un orientamento abituale pieno di affetto, di fiducia, di
riconoscenza e di gioiosa adesione alla volontà del Signore.


            In
quanto dono materno, lo scapolare è un segno sicuro della efficace protezione
materna di Maria, sia in vita che in punto di morte e dopo morte. Giovanni
Paolo II parla di "protezione continua della Vergine santissima non solo
lungo il cammino della vita, ma anche al momento del transito verso la pienezza
della gloria eterna".


           


            Portando
di continuo l'Abitino, con lo sguardo rivolto a Maria, dispensatrice delle
divine grazie, rinvigorisce sempre più la certezza di conseguire, per suo
mezzo, quanto è necessario per compiere serenamente il nostro pellegrinaggio
terreno e raggiungere la pienezza della vita. Di qui una spinta continua a
rivolgersi a Lei con la semplicità del bambino e la serena certezza di chi si
sente protetto dal suo perenne ed invincibile amore.


 

Maria e lo scapolare




Maria e lo scapolare

 

            Il culto mariano, inscindibile da quello cristiano, si articola praticamente, sia in modo ufficiale mediante le celebrazioni lungo l'anno liturgico, sia in modo privato, con svariate forme di pietà popolare. Tra queste figurano i così detti "scapolari mariani"; spontanee espressioni d'amore e di fiducia, che a modo loro recano un valido contributo al culto d'iperdulia, riservato alla beata Vergine a motivo della sua singolare dignità quale "Madre di Dio".

            Il più antico, venerato e diffuso è lo Scapolare della Madonna del Carmelo o Scapolare carmelitano. Adottato dai primi eremiti, stanziati sul Monte Carmelo verso la fine del secolo XII, lo Scapolare figurò, prima, come una delle cinque parti ( tonaca, scapolare, mantello, cinghia di cuoio, bastone), poi come segno dell'abito carmelitano come tale. Esso, detto anche superumerale, consisteva in una lunga striscia rettangolare con un'apertura al centro per introdurvi la testa; una parte cadeva a coprire il dorso, l'altra il petto fino ai reni. Nella seconda metà del secolo XIII vi si attribuì un triplice significato simbolico.

            Innanzitutto un simbolismo religioso, per il fatto che presentava la foggia di vestire propria di una persona consacrata al servizio di Dio. Esso ricordava gli obblighi della consacrazione ed era segno della fedeltà ad essa. Sbarazzarsi dello scapolare equivaleva giuridicamente al rifiuto della disciplina monastica e alla diserzione dall'Ordine.

            Abbiamo, poi, un simbolismo cristologico con cui si vede nello scapolare un segno chiaro del "giogo di Cristo" portato giorno e notte, e, dunque, una eloquente espressione della obbedienza religiosa.

            Il terzo simbolismo è mariano e fa riferimento concreto alla Madonna. All'interno di questo simbolismo lo scapolare fu chiamato "abito di Maria" e "sacramento" del suo amore per noi.

           

            Nel parlare di abito di Maria non si intende, evidentemente, l'abito materiale, si vuole piuttosto indicare il suo modo di essere interiore e il complesso delle virtù esimie di cui è "rivestita", in modo particolare la sua umiltà e semplicità, di cui l'Abitino sarebbe una "abbreviata" e simbolica espressione. Ma con "abito di Maria" si vuole anche affermare che esso viene da Lei, ed è stato da Lei donato come segno e pegno della sua materna protezione.

            Ideato e confezionato generalmente dalle premure di una madre, l'abito implica sempre una forte carica di affettuosità. Basterebbe fermarsi un tantino a osservare una donna, futura madre, nell'atto di confezionare il vestitino al prossimo frutto del suo grembo. Non è difficile scorgervi un'invenzione del suo genio, una confezione intrisa di amore. Gli scrittori dell'Ordine non omisero di mettere in luce un aspetto così suggestivo dello Scapolare e lo presentano esplicitamente come "pegno d'amore", "espressione di materna predilezione", segno inequivocabile di una "affettuosa adozione" da parte della beata Vergine.

            Ma proprio perché delicata espressione di un amore materno, esso esige in chi lo indossa la risposta di un amore decisamente "filiale", fatto non solo di confidenza e di devoto attaccamento, ma anche di piena dedizione e di totale servizio.

            A livello di vita, dunque, lo Scapolare - come abito di Maria - deve costituire, come ricorda Giovanni Paolo II, "un indirizzo permanente della propria condotta cristiana". Un monito incessante di "rivestirsi" di Maria in modo analogo al "rivestirsi" di Cristo, raccomandato da S. Paolo.

            In effetti chi porta l'Abitino fa professione di appartenere alla Madonna. Si tratta di un'appartenenza che comporta, evidentemente, la dedizione totale di sé, cioè la "consacrazione a Lei .Donazione irrevocabile di sé, la consacrazione potrebbe ritenersi storicamente simile all'affidamento ("commendatio") che, secondo il sistema feudale, un figlio della gleba ("vassallus") emetteva nelle mani di un prescelto signore ("dominus") nell'intento di dedicarsi a rendergli omaggio ("obsequium") e di assicurarsene la protezione. E' evidente che, nel nostro caso, le finalità e gli scopi sono di ordine spirituale.

 

            Tale devozione, oltre che indossare giorno e notte lo Scapolare, non impone pratiche speciali; essa, perciò, è compatibile e adattabile a tutte le età e condizioni di vita. Come detto, essa punta di preferenza sulla maternità spirituale di Maria, nutrendosi di tutte le sue sfumature, secondo quanto Giovanni Paolo II mette bene in luce nell'enciclica Redemptoris Mater: materna presenza; materna funzione; materna mediazione; materno affetto; materno soccorso. Tutti aspetti, questi, che, a loro volta, suscitano nel cuore del credente sentimenti di tenerezza, confidenza e sereno abbandono. Desiderio di intimità, di condivisione della vita e di imitazione. Imitazione che, ovviamente, non significa riprodurre il tipo di vita di Maria, né, tanto meno adeguarsi all'ambiente sociale e culturale in cui si trovò, così diverso dal nostro. Significa, invece, parteciparne e riviverne, in quanto possibile, "lo spirito", cioè le disposizioni della mente e del cuore, con le quali accolse ed espletò la volontà del Signore.

            A livello pratico, come segno di dedizione e di appartenenza, l'Abitino costituisce un ricordo e un monito per evitare qualsiasi cosa non gradita a Maria: pensieri, fatti, risoluzioni contrarie al suo onore. In pari tempo dovrebbe positivamente condurre a Maria per dipendere da Lei e impegnarsi a essere suddito fedele.

 

            La dedizione-appartenenza alla Vergine, si esprime anche visibilmente attraverso l'aggregazione all'Ordine del Carmelo riconosciuto universalmente come "Famiglia di Maria". Chi porta l'Abitino, infatti, "viene aggregato come membro della Famiglia del Carmelo con l'impegno di viverne la spiritualità e di coltivare una sincera devozione alla beata Vergine secondo le caratteristiche del proprio stato di vita" (Giovanni Paolo II). La devozione alla Madonna del Carmine fa parte e sviluppa il carisma carmelitano che consiste in una tensione verticale, che, a partire dal distacco radicale ("nada") delle creature, si protende direttamente al Tutto ("todo"), il Creatore. Ne rispecchia ed alimenta le esigenze vitali che sono: l’ansia di Dio e l’appassionata ricerca della sua intimità nell'orazione. Ciò spiega perché il carmelitano, e chi indossando l'Abitino ne condivide la spiritualità, punta di preferenza su Maria quale Vergine purissima, preservata da ogni macchia di peccato, sicché fin dall'inizio mai ebbe impressa nell'anima immagine di creatura alcuna; su Maria Vergine umilissima, estranea ad ogni ripiegamento egoistico; su Maria Vergine fedelissima, custode nel cuore della divina parola, sempre e totalmente aderente alle disposizioni della Provvidenza.

           

            Il nucleo costitutivo della pietà mariana del Carmelo comporta un profondo senso di appartenenza a Maria, di radicale orientamento verso di Lei e di una  abituale dipendenza da Lei; il tutto espresso con la parola “consacrazione”, intesa come totale, fiduciosa, amorevole dedizione di sé a Lei - .

            Tale devozione non comporta, di per sé, pratiche particolari. Da questo punto di vista la devozione allo scapolare "è la più spoglia, la più sobria tra le devozioni mariane. Essa postula unicamente l'accettazione filiale di un segno da portare continuamente (l'abitino, appunto) e una sincera decisione di vivere cristianamente sotto la materna protezione di Maria. Più che su pratiche particolari la devozione alla Madonna del Carmine si fonda sul riferimento della propria vita a Maria, in un orientamento abituale pieno di affetto, di fiducia, di riconoscenza e di gioiosa adesione alla volontà del Signore.

            In quanto dono materno, lo scapolare è un segno sicuro della efficace protezione materna di Maria, sia in vita che in punto di morte e dopo morte. Giovanni Paolo II parla di "protezione continua della Vergine santissima non solo lungo il cammino della vita, ma anche al momento del transito verso la pienezza della gloria eterna".

           

            Portando di continuo l'Abitino, con lo sguardo rivolto a Maria, dispensatrice delle divine grazie, rinvigorisce sempre più la certezza di conseguire, per suo mezzo, quanto è necessario per compiere serenamente il nostro pellegrinaggio terreno e raggiungere la pienezza della vita. Di qui una spinta continua a rivolgersi a Lei con la semplicità del bambino e la serena certezza di chi si sente protetto dal suo perenne ed invincibile amore.

 

venerdì 11 luglio 2014

Counseling espiritual Coaching Cognitivo: EL CONOCIMIENTO DE SÍ. EN LA MEDITACIÓN TERESIANA....

Counseling espiritual Coaching Cognitivo: EL CONOCIMIENTO DE SÍ. EN LA MEDITACIÓN TERESIANA....: EL CONOCIMIENTO DE SÍ. EN LA MEDITACIÓN TERESIANA. Francisco Javier Sancho Fermín

"El bien que tiene quien se ejercita en la oración hay muchos santos y buenos que lo han escrito, digo oración mental. ¡Gloria sea a Dios por ello! De lo que yo tengo experiencia puedo decir, y es que, por males que haga, quien la ha comenzado, no la deje. Y quien no la ha comenzado, por amor al Señor le ruego yo, no carezca de tanto bien. No hay aquí qué temer, sino qué desear. Y si perseveran, espero yo en la misericordia de Dios, que nadie le tomó por amigo que no se lo pagase; que no es otra cosa oración mental, a mi parecer, sino tratar de amistad, estando muchas veces tratando a solas con quien sabemos nos ama. No entiendo esto que temen los que temen comenzar oración mental, ni sé de qué han miedo."




Santa Teresa de Ávila

EL CONOCIMIENTO DE SÍ. EN LA MEDITACIÓN TERESIANA. Francisco Javier Sancho Fermín

sabato 5 luglio 2014

Counseling espiritual Coaching Cognitivo: Villa Mina bed and breakfast Castel Rigone Passign...

Counseling espiritual Coaching Cognitivo: Villa Mina bed and breakfast Castel Rigone Passign...: Villa Mina bed and breakfast Castel Rigone Passignano sul Trasimeno via dell'ospedale 1



Villa Mina bed and breakfast Castel Rigone Passignano sul Trasimeno via dell'ospedale 1

Villa Mina bed and breakfast Castel Rigone Passignano sul Trasimeno via dell'ospedale 1

martedì 1 luglio 2014

Counseling espiritual Coaching Cognitivo: Eduardo Sanz de Miguel santa Teresa de Jesús Enseñ...

Counseling espiritual Coaching Cognitivo: Eduardo Sanz de Miguel santa Teresa de Jesús Enseñ...: INQUIETA Y ANDARIEGA Enseñanzas de santa Teresade Jesús para nuestros días P. Eduardo Sanz deMiguel, o.c.d. En estas págin...

En estas
páginas reflexiono sobre el «feminismo» de santa Teresa, la novedad de su mensaje
para su época y la actualidad del mismo para nuestros días. Me centro especialmente
en cuatro aspectos que caracterizan a Teresa de Jesús: mujer, escritora,
fundadora y maestra de oración.

Eduardo Sanz de Miguel santa Teresa de Jesús Enseñanzas de santa Teresa de Jesús para nuestros días





En estas páginas reflexiono sobre el «feminismo» de santa Teresa, la novedad de su mensaje para su época y la actualidad del mismo para nuestros días. Me centro especialmente en cuatro aspectos que caracterizan a Teresa de Jesús: mujer, escritora, fundadora y maestra de oración.


Contenido







P. Eduardo Sanz de Miguel, o.c.d.
Inquieta y andariega. Enseñanzas de santa Teresa de Jesús para nuestros días

Imprimi potest. P. José Francisco Santarrufina Alcaide, Provincial de los Carmelitas Descalzos de Aragón-Valencia. Valencia (España), 20 de mayo de 2014.
Nihil Obstat. Imprimatur. Monseñor Amancio Escapa Aparicio, Obispo Auxiliar de la Arquidiócesis de Santo Domingo y Vicario General de la misma. Santo Domingo (República Dominicana), 30 de mayo de 2014.


1.      Introducción

Estamos celebrando el quinto centenario del nacimiento de santa Teresa de Jesús (1515-1582), madre espiritual del Carmelo Descalzo. Hoy su familia está extendida por todo el mundo y consta de unas 13000 monjas carmelitas descalzas contemplativas, unos 4000 frailes carmelitas descalzos, unas 60 congregaciones religiosas de vida activa e institutos seculares afiliados a la Orden, algo más de 40000 miembros de la Orden seglar del Carmelo Descalzo y varias asociaciones laicales más.

En nuestros días, ¿quién lee los escritos de los grandes teólogos contemporáneos, como Domingo de Soto, Alfonso Salmerón, Juan Arza, Francisco de Vitoria, Alfonso de Castro, Diego de Covarrubias o Melchor Cano, que tanta importancia tuvieron en el concilio de Trento? Sin embargo, las obras de santa Teresa siguen traduciéndose y editándose en numerosos idiomas. En 2008 se publicó un volumen de bibliografía teresiana que recoge 12647 títulos de biografías, estudios históricos, literarios y teológicos, material audiovisual, etc. sobre santa Teresa. Esas numerosas publicaciones nos dan una idea del gran interés que esta mujer sigue despertando en el mundo entero.

Pero, ¿qué es lo que la hace actual para que sigamos interesándonos por ella después de tanto tiempo? La respuesta es sencilla: su experiencia. Ella no teoriza sobre cuestiones más o menos interesantes, pero alejadas de la vida concreta, sino que se centra en lo esencial: comparte la manifestación de Dios en su historia personal y nos enseña a encontrar a Dios en nuestras vidas y a relacionarnos con Él.

Santa Teresa falleció a los 67 años de edad en Alba de Tormes. Escribió varios libros que hoy son clásicos de la lengua española y de la espiritualidad cristiana, especialmente el Libro de la Vida, el Camino de Perfección y el Castillo Interior (conocido también como las Moradas), además de numerosas poesías, cartas y otros escritos menores. Durante los últimos 15 años de su vida fundó 17 monasterios de monjas y 15 de frailes. Después de su muerte, nuevos conventos carmelitanos se multiplicaron rápidamente en los territorios de España, Italia, Portugal, Francia, Países Bajos, Inglaterra, así como fuera de Europa.

Sus escritos se editaron rápidamente. El Camino de Perfección en 1583 en Évora, en 1585 en Salamanca y en 1587 en Valencia y la edición príncipe de sus obras en 1588, acompañada de una larga carta de presentación de fray Luis de León. En 1590 se publicó la primera biografía de la Santa, escrita por Francisco de Ribera. Ese mismo año se inició el proceso de canonización en Salamanca, en el que comparecieron más de 300 testigos. En 1606 Diego de Yepes publicó una nueva biografía. Y sus Obras se tradujeron al latín y a los otros idiomas europeos, por lo que su influencia se extendió rápidamente fuera de las fronteras españolas.

Desde muy pronto, reyes, obispos e instituciones de España, Austria, Francia, Bélgica, Polonia… se dirigieron a Roma pidiendo su canonización; aunque también llegaron acusaciones contra sus escritos, que fueron rebatidas por autores importantes. En 1614, el papa afirma en el decreto de beatificación: «Su memoria florece en todo el pueblo cristiano; razón por la cual no solo la dicha Orden [de carmelitas descalzos], sino también nuestro querido hijo Felipe, rey católico de las Españas, y casi todos los arzobispos, obispos, príncipes, corporaciones, universidades y súbditos de los reinos españoles han elevado a Nos repetidas veces humildes súplicas…» Para las celebraciones de la beatificación se publicaron grabados, libros y poesías, destacando las de Lope de Vega y Miguel de Cervantes. La canonización tuvo lugar en 1622 en una ceremonia conjunta con san Isidro labrador, san Ignacio de Loyola, san Francisco Javier y san Felipe Neri.

Antes de su beatificación ya se hablaba de su «doctrina eminente», por lo que se la empezó a representar en pinturas y esculturas en el acto de escribir, a veces iluminada por rayos divinos, otras por el Espíritu Santo, otras con el birrete y otros atributos de los doctores. También las oraciones litúrgicas recogieron expresiones que estaban reservadas solo a los doctores, como: «concédenos imitar lo que hizo y realizar lo que enseñó… así nos alimentemos con su doctrina celestial… fue dotada de admirable gracia de erudición…»

A las numerosas peticiones para que se le diera el reconocimiento oficial de doctora de la Iglesia, desde Roma se respondía siempre con el tradicional «obstat sexus» (es decir: «lo impide el sexo»). Sin embargo, el año 1622, en una ceremonia pública, los catedráticos de la universidad de Salamanca revistieron una escultura suya con el birrete y demás insignias correspondientes a los doctores, y el claustro de la misma universidad la nombró formalmente doctora «honoris causa» en presencia de los reyes de España en 1922. Posteriormente Pablo VI la distinguió con el título de doctora de la Iglesia en 1970, siendo la primera mujer reconocida con ese título «en atención a su sabiduría de las cosas divinas y al magisterio que ejerce con sus escritos». Tras su declaración, solo tres mujeres más han recibido la misma distinción (santa Catalina de Siena, santa Teresa de Lisieux y santa Hildegarda de Bingen), lo que subraya aún más su originalidad.

Teresa de Jesús reúne en sí una actividad incansable de viajes, compras de casas, negociaciones para conseguir permisos… (que se recoge en el libro de las Fundaciones y en sus innumerables cartas) y una profunda vida interior que se desboca en un misticismo ardiente (que queda reflejado en el Castillo Interior). En ella se unen la introspección y el deseo de comunicación, la firme voluntad de realizar grandes empresas y la llaneza en el trato, la defensa decidida de algunos valores esenciales y la capacidad de repensar otros y de adaptarse con facilidad a las circunstancias cambiantes. Esa unión armónica de realidades tan distintas la hace especialmente atrayente. Además, fue una mujer muy simpática. Las enfermedades, los trabajos, las humillaciones y los desprecios nunca consiguieron apagar su optimismo.

2.      Cosas de mujeres

Todos sabemos que santa Teresa es maestra de oración y una de las más grandes místicas de la historia, pero a veces pasamos por alto su dimensión humana, que resalta aún más si la consideramos en el contexto histórico que le tocó vivir. Acostumbrados a mirarla en cuadros que la representan entre ángeles y nubes, podemos olvidar que fue una mujer con los pies en la tierra, plenamente consciente de la situación de inferioridad en que se encontraba a causa de su sexo. Adelantándose a los tiempos, reivindicó con fuerza la posibilidad de que las mujeres pudieran formarse y decidir por sí mismas, sin estar sometidas a la tutela de los varones. Esto le causó muchas dificultades, a las que hizo frente con decisión. En ese campo es un modelo para nuestra sociedad, que tanto tiene que avanzar todavía para ofrecer iguales oportunidades a cada persona para que pueda desarrollar sus capacidades y decidir autónomamente, independientemente de su sexo, su raza o de otras condiciones sociales o económicas.

La globalización de la información a la que nos tiene acostumbrados internet nos permite conocer que en nuestros días las mujeres tienen prohibido conducir un vehículo en algunos países y que en otros tienen vetado el acceso a la cultura e incluso que no pueden salir a la calle sin la compañía de un varón. Hay imágenes que nos hieren, porque nos hacen tomar conciencia de que ser mujer significa una condena en algunas regiones del planeta: por ejemplo, las mujeres afganas obligadas a cubrirse totalmente con los burkas, pero aún más las niñas sometidas a mutilación genital en el norte de África, las mujeres lapidadas por adúlteras en diversos países de Oriente Medio y los feminicidios extendidos en muchas las regiones del planeta.

Pero no todos tienen la sensibilidad necesaria para darse cuenta de la gravedad de estos comportamientos. Hay quienes los ven normales e incluso quienes los justifican como manifestaciones de una cultura determinada. Y no debemos olvidar que la situación del sexo femenino no ha sido muy distinta entre nosotros en otros tiempos y que todavía falta mucho para que se dé una igualdad real de derechos en la sociedad y en la Iglesia.

Si nosotros hemos llegado a comprender que estas cosas no son normales, a pesar de que sean habituales en algunos sitios, es gracias a la reflexión que muchas mujeres han realizado y a su lucha para conseguir una igualdad de oportunidades con los varones, que la sociedad les negaba. Entre ellas, Teresa de Jesús ocupa un lugar especial, sea por la profundidad de su mensaje, sea por lo temprano del mismo.

En un mundo dominado por hombres, Teresa defendió el derecho de las mujeres a estudiar y a decidir por sí mismas, creando espacios en los que podían ser autónomas y autogestionarse. Ella estaba convencida de que una mujer tiene las mismas capacidades que un hombre y sabía que solo las pueden desarrollar si le permiten formarse. Por medio de su palabra y de sus escritos, influyó notablemente en muchos contemporáneos suyos, que quedaron convencidos de sus razones: el teólogo Domingo Báñez, el inquisidor Francisco de Soto, su compañero de aventuras carmelitanas san Juan de la Cruz o incluso el gran humanista fray Luis de León, que fue el primer editor de sus obras.

3.      Santa Teresa en su contexto

Teresa de Cepeda y Ahumada vivió durante el «Renacimiento» europeo, en tiempos de la Reforma protestante y del Concilio de Trento. Entre otros, fue contemporánea de Erasmo de Roterdam, Martín Lutero, Miguel Ángel Buonarroti, Bartolomé de las Casas, Carlos V y Felipe II.

La suya fue una época compleja, de profundas transformaciones geográficas, que ensancharon la percepción del mundo con el descubrimiento de América y las conquistas europeas en África y Asia. La sociedad medieval (agrícola y rural, de subsistencia) dio paso a una realidad nueva (urbana, en la que el comercio y los talleres artesanales adquirieron cada vez más importancia). Los cambios socio-económicos fueron acompañados por nuevas estructuras políticas (surgieron los estados modernos) y culturales (las universidades y la imprenta adquirieron una importancia fundamental en la trasmisión de las ideas). Podemos hablar de un verdadero cambio epocal, que afectó a todos los ámbitos del vivir y del pensar. También a las formas de practicar la religión.

Salvando las distancias, fue algo similar a lo que sucede en nuestros días, en los que las viejas estructuras sociales, educativas, políticas y religiosas están en crisis, sin que consigamos adivinar claramente hacia dónde nos dirigimos.

Castilla en el s. XVI

Teresa nace y vive en Castilla, que era el corazón de España y que marcaba en Occidente los caminos de la política, de la cultura e incluso de la moda. En esos años la «monarquía católica» hispana alcanzó su máximo poderío económico, militar y político. Es el llamado «siglo de oro» español, en el que las universidades de Salamanca y Alcalá eran referentes culturales a nivel europeo; las Bellas Artes conocieron un desarrollo y una creatividad sin precedentes en los pueblos y ciudades de España, que se llenaron de templos, palacios, hospitales, edificios públicos y fuentes.

Por entonces compusieron su música Juan del Encina y Tomás Luis de Victoria y escribieron Garcilaso de la Vega, fray Luis de León, Lope de Vega, Luis de Góngora y Miguel de Cervantes. Arquitectos, escultores y pintores italianos y flamencos se asentaron en las ciudades españolas, que también se enriquecieron con las influencias artísticas que llegaban del lejano Oriente, a través de Filipinas y con el incipiente arte colonial americano. Mientras Juan de Herrera construía el Escorial, Diego de Siloé, Juan de Juni y el Greco realizaban sus mejores obras.

Desde el corazón de Castilla, Felipe II gobernó un imperio como nunca se había dado antes ni se ha repetido después, «en el que nunca se ponía el sol», compuesto por las tierras de Castilla y sus posesiones del norte de África, así como América y Filipinas; Aragón y sus posesiones en el sur de Francia y en el Mediterráneo: Nápoles, Sicilia, Cerdeña, Orán, Túnez, el Rosellón, el Franco-Condado, Cataluña y Valencia; Navarra, los Países Bajos, el Imperio romano-germánico, el Milanesado, Portugal y sus colonias de África y Asia.

Guerras y conflictos

No fue fácil mantener unidas tierras y gentes tan distintas y lejanas entre sí. Las tropas españolas se vieron envueltas en numerosas guerras internacionales: En primer lugar estaban las conquistas en el Pacífico y en América, en las que participaron muchos conocidos y parientes de Teresa. Cuando ella contaba 13 años sabe que ha llegado a Toledo Hernán Cortés, conquistador del imperio de Moctezuma, acompañado por indios, animales y frutos exóticos. Los varones de las familias acomodadas emigraron a América en busca de nuevas posibilidades. Así lo hicieron los nueve hermanos varones de Teresa, así como otros parientes y conocidos suyos. Varios de ellos cayeron en las guerras entre los fieles a la corona contra Pizarro y los rebeldes. Con el tiempo solo regresarán dos de sus hermanos: Lorenzo, enriquecido, y Pedro, loco y arruinado.

Entre todos los enfrentamientos armados de la época, el más largo y doloroso fue el de las guerras de religión entre católicos y protestantes, que devastaron Europa entre 1524 y 1648. Es verdad que la causa real era normalmente el choque entre las pretensiones de los príncipes territoriales y las del emperador, así como los intereses económicos de las potencias europeas. Pero las distintas facciones tomaron posturas a favor de Roma o de Lutero. Ello conllevó que algunas prácticas cristianas tradicionales que hasta el Concilio de Trento eran normales, pero que eran favorecidas por los reformadores (como la lectura de la Biblia o la oración silenciosa), fueran miradas con recelo e incluso prohibidas en los ambientes católicos.

Los Tercios españoles, además de en las guerras de conquista y en las de religión, se vieron envueltos en muchos otros conflictos: enfrentamientos con Francia por el control de Nápoles y el Milanesado (el mismo padre de Teresa participó como caballero en la guerra de Navarra, en la que resultó herido san Ignacio de Loyola), con el Papado por otros intereses en la península italiana (el famoso «sacco» de Roma tuvo lugar cuando ella contaba doce años), con los berberiscos y los turcos otomanos por el control del Mediterráneo (la batalla de Lepanto tuvo lugar en 1571), con Inglaterra por el control del Atlántico (la armada invencible fue derrotada en 1588), con los Países Bajos que buscaban la independencia, con Portugal por derechos sucesorios..., sin que faltaran las revueltas de los moriscos en el interior de la península Ibérica (de 1568 a 1571 se desarrolló la guerra de las Alpujarras granadinas).

Demasiados enfrentamientos para una población de apenas seis millones de habitantes. Las familias españolas vieron partir uno tras otro a todos sus varones. Comenzaron a faltar los brazos necesarios para el cultivo de la tierra. Esto, unido a algunos años de sequía y al continuo crecimiento de los impuestos para mantener esa gran máquina belicista, provocó el hambre y la miseria entre los que no pudieron emigrar. La familia de san Juan de la Cruz es un ejemplo significativo. Su padre y un hermano murieron de hambre y su otro hermano sobrevivió trampeando el resto de sus días.

La llegada del oro y la plata americanos hizo crecer la inflación, a pesar de que una gran cantidad pasaba directamente de las galeras a los depósitos de los prestamistas extranjeros. La monarquía hubo de anunciar la bancarrota en varias ocasiones. Todas estas cosas provocaron numerosas revueltas populares (insurrecciones en Flandes, en Castilla, en Aragón, en Valencia, etc.), que fueron aplastadas sin miramientos. El pueblo tuvo que desarrollar su ingenio e inventar mil tretas para sobrevivir. La literatura picaresca de la época, como La Celestina o El Lazarillo de Tormes, describe perfectamente las contradicciones de aquel tiempo.

Además de los ideales conquistadores y guerreros (fruto de los quinientos años de enfrentamientos contra los moros durante la Reconquista), hay tres características que definen la sociedad en la que vivió santa Teresa: la profunda religiosidad, que impregnaba todas las dimensiones de la vida, la rígida división de la población en clases sociales y el valor supremo de la «honra», que hoy nos resulta difícil de entender.

La religiosidad imperante

Sin duda, la característica más sobresaliente es la profunda inquietud religiosa, que afectaba por igual a todas las capas de la sociedad. Las manifestaciones religiosas están continuamente presentes y envuelven la vida de la población en todas sus dimensiones, sin que haya ninguna separación entre vida civil y eclesial. Basta ver el gran número de conventos, iglesias parroquiales, ermitas y otros edificios destinados al uso religioso de la época que se conservan diseminados por todo el territorio español.

Al leer la literatura de aquel tiempo, se puede ver que tanto en las ciudades como en el campo, en público como en la intimidad del hogar, se hablaba de cuestiones religiosas: se discutía sobre la presencia real de Cristo en la Eucaristía, sobre la existencia del purgatorio, sobre la importancia de recibir los sacramentos con la disposición adecuada y de hacer buenas obras para salvarse…

En los testamentos de la época nunca faltan fondos para celebrar misas y sufragios, más o menos grandes según la capacidad económica del difunto. En los inventarios que enumeran los objetos dejados en herencia por personas de distintas condiciones, siempre aparecen cuadros y esculturas de motivos religiosos, pero en muy raras ocasiones de motivos profanos (basta ver los fondos de los museos españoles, con sujetos casi exclusivamente religiosos, tan diferentes de los holandeses con sus paisajes o de los italianos con sus escenas mitológicas). Lo mismo podemos decir de los libros. De hecho, entre mediados del s. XV y mediados del s. XVI (cuando empiezan a aparecer los Índices de libros prohibidos), en España se publican cientos de libros de ascética y mística.

Igual que la niña Teresa leía vidas de Santos, a los que quería imitar, le sucedió a Ignacio de Loyola y a una muchedumbre de contemporáneos que tenían a los Santos por modelos de vida a imitar. Los Santos, los profesores de teología, los misioneros y los religiosos de vida austera eran tan atractivos para la gente del s. XVI como lo son hoy las estrellas del cine, los deportistas de élite o los grandes empresarios.

Además, la principal actividad social de la época era participar en sermones, procesiones y todo tipo de funciones religiosas. En cada familia había varios miembros que se consagraban al servicio del Señor en su propia patria o en las misiones de ultramar. Y se puede afirmar que la totalidad de la población pertenecía a varias cofradías en honor de la Virgen, de los Santos o de los misterios de la Semana Santa, así como a otras con fines asistenciales en favor de los pobres, los huérfanos, los enfermos o los encarcelados.

Los grupos sociales

La segunda característica es la rígida división de la población en clases sociales claramente delimitadas, con formas de presentarse, comportamientos y roles sociales bien definidos en cada caso. Podemos hablar de cinco grupos (con graduaciones dentro de cada uno de ellos):

Los nobles formaban el grupo dominante. Eran los propietarios de la mayoría de las tierras y de los bienes de consumo, ocupaban los puestos claves de la administración pública (tanto civil como eclesiástica), vivían de rentas, rechazaban el trabajo manual y estaban exentos de pagar impuestos. Entre ellos abundaban los convencionalismos, los títulos y tratamientos (cf. V 37,6-10).

Junto a ellos, detentaba el poder económico una burguesía entregada al comercio, compuesta mayoritariamente por descendientes de judíos, aunque a este grupo les estaban vedados la mayoría de los cargos políticos y los tratamientos de honor, por lo que su mayor ansia era incorporarse al grupo de los nobles, muchas veces comprando certificados de hidalguía por grandes sumas de dinero.

Los clérigos y religiosos formaban un grupo numeroso (que variaba entre el diez y el veinte por ciento de la población). Entre ellos se daban las mismas divisiones que en el resto de la sociedad. El alto clero se dedicaba a la administración de rentas y propiedades y la mayoría de los sacerdotes, beaterios y muchos monasterios compartían las dificultades del pueblo para cubrir sus necesidades vitales. Teresa aprecia sinceramente a los obispos, religiosos y sacerdotes, a los que no considera «funcionarios eclesiales», sino «capitanes» de los cristianos y «defensores» de la causa de Cristo (cf. C 3,1-2).

La gran masa de los campesinos y obreros, mayoritariamente ignorantes, trabajaba de sol a sol y sobrevivía a duras penas con el fruto de su trabajo, pasando graves necesidades los años de sequía o cuando, por cualquier motivo, subían los precios de los productos elementales.

Los «pobres de solemnidad» formaban una categoría social específica en la que se entraba después de demostrar que no se tenían bienes ni posibilidad de adquirirlos, ni familia a la que acudir, por lo que se podía aspirar a algunas ayudas sociales que concedían las numerosas cofradías e instituciones asistenciales de la época.

La «honra»

La tercera característica de la época es el peculiar sentido del «honor» o de la «honra», que era el motor último de todas las actividades y aspiraciones de esa sociedad. Por entonces se entendía la honra como un reflejo de la opinión de los demás (la reputación, el prestigio) y no como la posesión de unas virtudes. Por lo tanto, era honrado el que recibía honores de la sociedad, el que era respetado, aquel al que se le reconocían algunos derechos.

Lo afirma claramente Lope de Vega cuando afirma en su obra Los comendadores de Córdoba: «Ningún hombre es honrado por sí mismo, que del otro recibe la honra un hombre. Ser vistoso un hombre y tener méritos no es ser honrado. De donde es cierto que la honra está en otro y no en él mismo». Y lo reconfirma también Teresa al afirmar: «Tengo para mí que honra y dinero casi siempre andan juntos […]. Porque por maravilla, o nunca, hay honrado en el mundo si es pobre; antes, aunque en sí sea honrado, le tienen en poco» (CE 2,5-6). La honra, pues, es lo que los otros piensan de nosotros, la consideración que nos tienen.

La honra se expresaba en una serie de títulos y gestos propios de cada clase social. Si no se respetaban las convenciones sociales, se consideraba una afrenta o deshonra, que debía ser vengada. Por honra se podía matar o dejarse morir de hambre (se puede pensar en todos los personajes que desfilan por la literatura picaresca de la época: licenciados, hidalgos o clérigos arruinados, que solo poseían una camisa, o dormían en el suelo, o no tenían para comer, pero no se privaban de criada y escudero).

La honra conllevaba el reconocimiento social, pero se convertía en una verdadera esclavitud: los vestidos, los alimentos, los gestos, los tratamientos... tenían que ser conformes a la propia condición, lo que lleva a escribir a Teresa: «Está el mundo de manera que habían de ser más largas las vidas para aprender los puntos y novedades y maneras que hay de crianza [...]. Porque no se toma en broma cuando hay descuido en el título que se da a las personas, sino que tan de veras lo toman por afrenta, que es menester hacer satisfacciones de vuestra intención si hay un descuido [...]. Hasta para aprender los títulos en los encabezamientos de las cartas se necesita ser catedrático para saber cómo se ha de hacer, porque ya se deja papel de una parte, ya de otra y a quien no se solía poner magnífico hay que poner ilustre [...]. El Señor me ha hecho merced en sacarme de ese mundo. Allá se avengan los que con tanto trabajo sustentan estas naderías» (V 37,9ss).

El trabajo manual se consideraba impropio de gente honrada, excepto el cultivo de la tierra, asociado siempre a los cristianos viejos. Los descendientes de conversos o de esclavos y los que ejercían algunos oficios considerados viles estaban continuamente expuestos a sufrir afrentas, podían ser detenidos por cualquier motivo y nunca podían aspirar a formar parte de las clases influyentes de la sociedad. Muchos oficios, tanto civiles como eclesiásticos, también les estaban vedados.

Es sorprendente la cantidad de páginas que Santa Teresa dedica a hablar de «la pestilencia de la honra» o de «los negros puntos de honra». Enseña a sus monjas a liberarse de esa lacra para ser verdaderamente libres: «Anda tal el mundo, que si el padre es más bajo del estado en que está el hijo, no se tiene para honrarlo en conocerlo por padre. Esto no viene aquí, que sería infierno, sino que la que fuere más tome menos a su padre en la boca: todas han de ser iguales». En las Constituciones llega a ordenar: «Nunca jamás la priora ni ninguna de las hermanas pueda llamarse doña». De la honra y la fama escribe que son «postizos sociales», que atentan contra la verdad y contra la libertad. Al comentar el Padre Nuestro dedica un capítulo entero al tema: «En que trata lo mucho que importa no hacer ningún caso del linaje las que de veras quieren ser hijas de Dios» (CE 45).

Aunque tanto las instituciones civiles como las religiosas pedían a los candidatos un certificado de «limpieza de sangre» (que demostrara que no eran hijos ilegítimos nacidos fuera del matrimonio, ni descendientes de judíos, musulmanes, gitanos, indios o negros), ella no permitió que se introdujera esa norma en sus Constituciones. Solo desde la superación de esa esclavitud de la honra (reputación, reconocimiento social, convenciones, prejuicios), podemos entender su libertad de espíritu, que a muchos atraía y a algunos causaba escándalo.

Los orígenes familiares de Teresa

Hasta hace pocos años, todas las biografías de santa Teresa comenzaban recordando sus nobles antepasados (algunas contemporáneas siguen haciéndolo, a pesar de que históricamente sea una falsedad). Ya en los procesos de canonización muchos testifican que era descendiente de cristianos viejos y de noble familia «como todos sabían». Y es que la religiosidad barroca daba por supuesto que la sangre de una Santa no podía estar «contaminada» por ascendientes plebeyos.

De hecho, cuando en 1946, en un legajo de la Chancillería de Valladolid se encontraron unos documentos que demostraban que el abuelo paterno de santa Teresa era un convertido del judaísmo que había tenido problemas con la Inquisición y se publicó un extracto de los mismos, los documentos desaparecieron misteriosamente, por lo que muchos se negaron a creerlo. Pero los pleitos de hidalguía de los Cepeda volvieron a aparecer en el mismo sitio y con el mismo misterio en 1986. Allí se ve que su abuelo, padre y tíos se trasladaron desde Toledo a Ávila intentando olvidar las afrentas recibidas a causa de sus orígenes. En la ciudad amurallada compraron un caserón histórico y un certificado de hidalguía falso, que les eximía de pagar impuestos y les ofrecía otros privilegios, y se dedicaron a dilapidar la fortuna amasada con tantos esfuerzos, para aparentar una condición que no poseían: la de cristianos viejos.

Los hijos de Juan Sánchez, incluido el que sería padre de Teresa, casaron con doncellas de la baja nobleza y cambiaron el apellido de su padre por el de sus esposas. En Ávila se dedicaron a la vida de los caballeros de la época: paseos por la ciudad, vestidos con telas caras y acompañados de abundante servidumbre, cacerías en la montaña, temporadas en la casa solariega del campo y –por supuesto– nada de trabajos manuales que pudieran manchar la «honra» de la familia.

La vida de un hidalgo de la época la describe perfectamente el Caballero del Verde Gabán cuando se presenta a D. Quijote: «Yo soy un hidalgo más que medianamente rico y es mi nombre don Diego de Miranda; paso la vida con mi mujer, con mis hijos y con mis amigos; mis ejercicios son el de la caza y pesca. Tengo hasta seis docenas de libros, cuáles de romance y cuáles de latín, de historia algunos y de devoción otros. Alguna vez como con mis amigos y muchas veces los convido, oigo misa cada día, reparto de mis bienes con los pobres, soy devoto de Nuestra Señora y confío siempre en la misericordia infinita de Dios Nuestro Señor».

Ese es el estilo de vida que siguieron los tíos, el padre y los hermanos de Teresa en Ávila, marcado por el esfuerzo para disimular sus orígenes, aparentar una hidalguía que no poseían y conseguir ser «honrados» (recibir honor de los otros). En este ambiente creció Teresa y desde aquí podemos comprender que casi todos sus bienhechores fueron comerciantes, que muchos nobles desconfiaran de ella y que ella se muestre tan crítica con los convencionalismos sociales y hable tanto sobre la esclavitud de la honra.

Como es natural, en el Libro de la Vida ella no hace referencia a los pleitos familiares para conseguir un título de hidalguía, pero tampoco dice que sus padres fueran nobles (al contrario que todos sus biógrafos antiguos), sino que eran «virtuosos y temerosos de Dios, [...] de mucha caridad con los pobres y grandísima honestidad» (V 1,1ss). En cierta ocasión que el P. Gracián se puso a hablar de la nobleza del linaje de la Santa, ella «se enojó mucho conmigo porque trataba de esto, y dijo que a ella le bastaba ser hija de la Iglesia Católica y que más le pesaba haber hecho un solo pecado, que si fuera descendiente de los más viles y bajos villanos y confesos del mundo». Incluso, hablando de la fundación de Sevilla, llega a afirmar que allí recibió unos honores que no le venían del «linaje», como dando a entender que era conocida su ascendencia: «Mirad, hijas mías, la mano de Dios. Pues no sería por ser yo de sangre ilustre el hacerme honra» (F 27,12).

Ella había reflexionado mucho sobre estas cosas, especialmente con motivo de la fundación de Toledo, donde había tantos miembros de la alta nobleza que se decían sus amigos. Ninguno de ellos la apoyó e incluso intentaron impedir la fundación porque Teresa aceptó la ayuda de un comerciante convertido del judaísmo. Así lo cuenta en una Cuenta de Conciencia: «Estando en el monasterio de Toledo, algunos me aconsejaban que no diese enterramiento en él a quien no fuese caballero. Díjome el Señor: “Mucho te desatinará, hija, si miras las leyes del mundo. Pon los ojos en mí, pobre y despreciado por él. ¿Por ventura los grandes del mundo serán grandes delante de mí? ¿Y vosotras, habéis de ser estimadas por linajes o por virtudes?» (CC 5). Jesús mismo confirma a Teresa en su manera de actuar: no debe tener como referencia a los «grandes» de este mundo ni las convecciones sociales del momento, tan alejadas del evangelio.

Subrayo este tema (como haré más tarde con su condición de mujer), porque solo así podemos comprender que Teresa fue una persona de su época, pero no se identificó totalmente con ella; vivió inmersa en la sociedad castellana del s. XVI, aunque sin estar totalmente integrada en esa sociedad; fue consciente de lo que sus contemporáneos consideraban «valores», pero no los asumió todos ni de la misma manera que los aceptaba la mayoría. No se salió de las estructuras sociales de su entorno, pero siempre se mantuvo en sus márgenes. Esto le permitió dirigir una mirada crítica a las costumbres e instituciones que los demás asumían con naturalidad. Su misma religiosidad no se identifica totalmente con las prácticas y devociones de su entorno.

En Teresa descubrimos una continua búsqueda de lo único que es real, auténtico y consistente en medio de las mentiras y convencionalismos de su sociedad. Se elevó por encima de su ambiente y de su tiempo, buscando nuevos horizontes. Por eso su mensaje será siempre actual, porque usando el lenguaje y las formas de una época concreta, está por encima del mismo lenguaje y de las mismas formas que utiliza y a los que desborda. La ignorancia de estos presupuestos nos incapacitaría para comprender la originalidad de santa Teresa y el significado real de la mayoría de sus páginas.

Mujer consciente

Teresa fue plenamente consciente de lo que sucedía a su alrededor. Es sorprendente la cantidad de referencias que encontramos en sus obras al Concilio de Trento, a las guerras de religión, a las revueltas de los moriscos, a los enfrentamientos con Francia y Portugal, a los procesos inquisitoriales, a los índices de libros prohibidos, a las conquistas americanas y a los productos que de allí llegaban: patatas, cocos, pipote, tacamata...

La Santa tuvo relación directa o epistolar con personas de todos los estratos de la sociedad del momento: el rey Felipe II y sus secretarios, correos mayores y administradores, príncipes e infantas, virreyes, cortesanos y nobles rurales, profesores universitarios y estudiantes, campesinos y mendigos, banqueros y mercaderes, albañiles y arrieros. Entre los eclesiásticos se trató con cardenales, nuncios y obispos, teólogos y misioneros, religiosos de casi todas las congregaciones contemporáneas, poderosas abadesas y beatas pícaras, sin olvidar a numerosos Santos canonizados de su época: san Pío V, san Pedro de Alcántara, san Juan de Ávila, san Luis Bertrán, san Francisco de Borja, san Juan de Ribera, san Juan de la Cruz. Algo inaudito para una mujer del s. XVI y más aún ¡monja de clausura!

Carácter afable

Nos encontramos ante una mujer dotada de una inteligencia despierta, de una voluntad intrépida y de un carácter abierto y comunicativo. Su ingenio y simpatía la convirtieron en la hija preferida de sus padres y capitana de todos los juegos de infancia. Ella misma reconoce que «las gracias de naturaleza que el Señor me había dado, según decían, eran muchas» (V 1,9). Un contemporáneo suyo, el P. Pedro de la Purificación, escribió: «Una cosa me espantaba de la conversación de esta gloriosa madre, y es que, aunque estuviese hablando tres y cuatro horas, tenía tan suave conversación, tan altas palabras y la boca tan llena de alegría, que nunca cansaba y no había quien se pudiera despedir de ella». Parecido es el testimonio de la Hna. María de san José: «Daba gran contento mirarla y oírla, porque era muy apacible y graciosa». Fray Luis de León añade: «Nadie la conversó que no se perdiese por ella».

Cuando se visitan los monasterios que fundó santa Teresa, sorprende que en muchos se conservan algunas reliquias especiales que le pertenecieron: castañuelas, tambores, flautas y otros instrumentos musicales. Y es que a Teresa le gustaba componer e interpretar canciones y poesías para animar las fiestas conventuales. Incluso decía que una de las señales que indicaban que una novicia tenía verdadera vocación es que tuviera ganas de reír.

En una ocasión se encontraba en el monasterio de Soria. La comunidad eligió como priora a la madre Catalina de Cristo. Una monja preguntó a una novicia qué le parecía la madre fundadora. La novicia respondió con sencillez que no le parecía tan santa como ella se esperaba, porque se reía mucho. Que le parecía más santa la priora de la casa, que era más seria. Santa Teresa lo oyó y le dijo a la novicia: «¡Alto ahí! La madre Catalina es más santa que yo porque es muy virtuosa, en eso dices verdad, que yo tengo la fama y ella las virtudes. Pero no es más santa porque se ríe poco, que eso no es una virtud, sino un defecto!»

Sor Juana de la Cruz, abadesa de las descalzas reales de Madrid, cuando conoció a santa Teresa en 1569, dijo a sus monjas: «Bendito sea Dios, que nos ha permitido ver una Santa a quien todas podemos imitar, que come, duerme y habla como nosotras y anda sin ceremonias». Verdaderamente ella era muy poco amiga de ceremonias tanto en la vida como en el culto cristiano: le gustaban las cosas sencillas y «sin artificio».

Su sobrina Teresita, hija de Lorenzo de Cepeda, testimonió a su muerte: «Tenía un exterior tan desenfadado y cortesano, que nadie por eso la juzgaba por santa; pero tenía en toda ella un no sé qué tan de sustancia, que hacía fuerza que creyesen y viesen los que la trataban, que era muy santa sin esforzarse por parecerlo».

Para santa Teresa, la alegría era una opción de vida que brotaba del saberse amada gratuitamente: «[Dios] no es aceptador de personas; a todos ama. […] No puedo decir lo que se siente cuando el Señor le da a entender secretos y grandezas suyas, el deleite tan por encima de los que se pueden tener acá» (V 27,12).

Su simpatía natural y su buen humor le abrieron numerosas puertas y le ayudaron a entretejer una compleja red de relaciones y de amistades incondicionales con personas de las más variadas proveniencias sociales, aunque también le crearon serias dificultades entre los que no veían compatibles la afabilidad y la santidad. Ella tenía muy claro que «cuanto más santas, han de ser más conversables», porque «la caridad crece al ser comunicada». También decía: «Dios nos libre de los santos encapotados», porque «un Santo triste es un triste Santo» y «un alma apretada no puede servir bien a Dios». Y le gustaba repetir: «Tristeza y melancolía, no las quiero en casa mía». Pero la mayoría de sus contemporáneos identificaban la santidad con la gravedad y consideraban que la sencillez y el buen humor eran sinónimos de superficialidad.

4.      Teresa escritora

Para comprender la singularidad de Teresa de Jesús, tenemos que detenernos unos momentos para tomar conciencia de lo que significa que esa mujer fue escritora. Basta intentar hacer un listado de mujeres escritoras anteriores al s. XIX para darnos cuenta del escaso número que conseguimos recordar. Se conservan miles de folios autógrafos de Teresa (cosa única también para los escritores varones de su época).

Sus escritos son un fiel reflejo de su persona y el mejor camino que tenemos para conocerla. Ella era consciente y, de hecho, al enviar el manuscrito del Libro de la Vida al P. García de Toledo, le asegura: «Aquí le entrego mi alma» y cuando escribe a Dª Luisa de la Cerda pidiéndole informaciones sobre el manuscrito, dice: «Puesto que la entregué mi alma, no deje de cumplir con mi encargo».

Sin embargo, hoy no podemos seguir manteniendo el prejuicio –tan repetido en tiempos pasados– de que Teresa escribe descuidadamente, como habla, de manera espontánea, sin esforzarse en la redacción de sus obras. Es cierto que era amiga de la «llaneza y claridad», como dice en una de sus cartas, por lo que no utiliza muchos artificios retóricos. También es verdad que en ocasiones no usa borradores ni tiene tiempo para repasar lo que ha escrito. Pero no debemos ignorar que algunos de sus símbolos son muy elaborados y que reescribe completamente varios de sus tratados (el Libro de la Vida y el Camino de Perfección, por ejemplo, y en parte también el Comentario al Cantar de los Cantares). Además, las importantes lagunas sobre temas conflictivos (como la ascendencia judía de su padre, los juicios inquisitoriales de Sevilla y Valladolid…) y sus repetidas justificaciones y excusas por atreverse a escribir, a pesar de ser mujer, nos indican que las cosas no son tan sencillas como podrían parecer a primera vista.

Teresa no escribe para sí misma, sino para ser leída por otros: por sus confesores y consejeros, por sus monjas, por sus amistades y por un círculo amplio de desconocidos destinatarios a los que ella quiere llegar. Por eso, al contar su experiencia oracional, tiene mucho cuidado con lo que quiere decir y también con lo que no puede o no debe decir en público. Para entender su pensamiento, es tan importante lo que cuenta en sus libros como lo que se calla. En parte, sus numerosas cartas completan estas lagunas. A pesar de todo, a veces nos encontramos con temas que no desarrolla por prudencia. Y así advierte a sus destinatarios: «No es para carta..., se lo diré cuando nos veamos, porque no son cosas para escribirlas».

Afortunadamente, varios de sus colaboradores más directos, como Jerónimo de la Madre de Dios (Gracián), Julián de Ávila, Ana de Jesús (Lobera), Ana de san Bartolomé (García), María de san José (Salazar)... siguiendo su ejemplo, pusieron por escrito sus relaciones con santa Teresa, los recuerdos de los viajes y fundaciones de casas que compartieron, así como las enseñanzas que de ella recibieron. Todos estos libros son un precioso complemento a los escritos de la Santa.

Tiempos «recios»

En el siglo XVI, el mundo de la enseñanza estaba reservado exclusivamente a los «letrados»; es decir, a los que tenían estudios reconocidos. La misma predicación no estaba abierta a todos los sacerdotes, sino solo a los que tenían unas licencias específicas, una delegación del obispo para hacerlo.

San Ignacio de Loyola cuenta en su Autobiografía que, después de su conversión, le gustaba hablar de Dios a la gente, a la que animaba a practicar oración. Mientras era estudiante en Alcalá, la Inquisición le hizo proceso y el vicario le encerró cuarenta y dos días en prisión «sin que le examinasen ni supiese la causa [...]. Finalmente, vino a la cárcel y le examinó de muchas cosas, hasta preguntarle si hacía guardar el sábado. Le declaró inocente pero le ordenó que no hablase de cosas de la fe hasta que hubiese estudiado más, pues no sabía letras» (nn. 61-62). Era tal la obsesión que había con los cristianos nuevos, que hasta a un cristiano viejo de procedencia indudable le preguntan si hacía guardar el sábado, el día sagrado de los judíos. No le pueden culpar de nada, pero igualmente le prohíben que hable de cosas de la fe, hasta que haya completado sus estudios.

De Alcalá se mudó a Salamanca, donde lo vuelven a encarcelar por los mismos motivos, esta vez encadenado. Allí «fue llamado delante de cuatro jueces y le preguntaron muchas cosas sobre la Trinidad y la Eucaristía y cosas de cánones [...], y a los veintidós días que estaba preso le llamaron para oír la sentencia, la cual era que no se hallaba ningún error ni en su vida ni en su doctrina, y así podía enseñar la doctrina y hablar cosas de Dios, con tal que nunca definiese lo que es pecado mortal ni venial, sino después de cuatro años de estudios más» (nn. 68-70). Esta vez son más benévolos: le permiten enseñar el catecismo (la «doctrina») y hablar cosas de Dios, aunque no debe especificar qué materia puede ser considerada pecado mortal y cuál pecado venial, hasta después de cuatro años más de estudios. No bastaba que su doctrina fuera recta; necesitaba el aval de los estudios. En París y Venecia se repetirán procesos similares. Y eso que él era varón, noble y estudiante de Teología.

Imaginémonos ahora las dificultades de Teresa, que era una persona de orígenes familiares oscuros, con antepasados (padre, tíos y abuelo) que habían sido condenados por judaizar, que no tenía estudios universitarios, ¡y mujer!; pero que pretendía hablar y escribir sobre temas de oración para transmitir a otros los frutos de su experiencia.

Las mujeres no tenían acceso a los estudios reglados, incluso estaba mal visto que supieran leer. La posibilidad de que alguna se atreviera a convertirse en maestra por medio de la palabra oral o escrita era algo absolutamente impensable. Todos repetían que la mujer es débil por naturaleza, inclinada al mal y fácilmente manipulable por el demonio, por lo que se debía sospechar de ella. La mayoría estaba convencida de que debía permanecer siempre bajo la tutela de algún varón. Para ello se citaban tres autoridades, principalmente. En primer lugar, el libro del Génesis, que dice que ella fue la engañada por el demonio en el momento del pecado original. En segundo lugar, san Pablo, que pide que se sometan a sus maridos y que callen en la Iglesia. Por último, santo Tomás que, siguiendo a Aristóteles, consideraba a la mujer un varón incompleto. Todo esto lo conocía Teresa y se rebeló contra esa situación, aunque era plenamente consciente del peligro que corría; por eso recoge estos tópicos en sus escritos con aparente sumisión.
           
En realidad, la mujer casi era considerada como un objeto, siempre sometida a la tutela del padre, del esposo o de los hijos varones. Sus funciones se reducían a ordenar el trabajo doméstico, perpetuar la especie y satisfacer los impulsos sexuales de su marido, a cuyo arbitrio se encontraban sometidas. Fray Luis de León, por ejemplo, ya desde el prólogo de su famosa obra La perfecta casada afirma que la misión de la mujer es «servir al marido, y gobernar la familia, y la crianza de los hijos». Y explicando los servicios y atenciones que debe tener hacia su esposo, aclara: «No es gracia y generosidad este negocio, sino justicia y deuda que la mujer debe al marido, y que su naturaleza cargó sobre ella, criándola para este oficio, que es agradar y servir, y alegrar y ayudar en los trabajos de la vida y en la conservación de la hacienda a aquel con quien se desposa […]. Que como él está obligado a llevar las pesadumbres de fuera, así ella le debe sufrir y solazar cuando viene a su casa, sin que ninguna excusa la desobligue» (cap. IV).

Por esos mismos años, un escribano real, Miguel Pérez de las Navas, pensaba que su esposa lo engañaba con otro. No pudo encontrar ninguna justificación de su sospecha, pero decidió igualmente acabar con ella para evitar la deshonra. Esperó a que su mujer se confesara el Jueves Santo, para asegurarse de que la enviaba directamente al cielo. Ese mismo día le dio garrote vil en su propia casa. Algo similar vemos en El médico de su honra, de Calderón de la Barca. El protagonista, que sospecha injustamente de su mujer, obliga al médico a sangrarla hasta morir. Nadie pidió cuentas a estos esposos por haber dado muerte a sus esposas. Al fin y al cabo, les pertenecían y ellos decidían qué hacer con sus posesiones.

Mujer «barbada»

No deja de ser significativo que, cuando algunos contemporáneos de santa Teresa quieran alabarla digan que «no parece mujer» o que «tiene ánimos de varón». Ella misma lo reconoce así y recoge el parecer de los que dicen que su ánimo es más grande que el de las mujeres (cf. V 8,7). Nos puede ilustrar lo que le sucedió al P. Juan de Salinas, provincial de los dominicos, que llamó la atención al P. Domingo Báñez, porque había escuchado que era amigo de Teresa, previniéndole de la excesiva confianza con mujeres, «cuyas virtudes hay que tener siempre por sospechosas». El P. Báñez le dijo que, ya que él iba a predicar la cuaresma en Toledo y ella estaba allí, aprovechara para conocerla personalmente y así podría comprender su aprecio por ella. Al regreso, Salinas reprochó a Báñez: «¡Me habías engañado! Me dijiste que era mujer y a fe mía que es varón ¡y de los muy barbados!».

A pesar de los prejuicios antifeministas de su época, la vida y los escritos de Teresa son una defensa a ultranza del derecho de la mujer a pensar por sí misma y a tomar decisiones: no quiere que nadie se entrometa en la vida cotidiana de sus monjas. Hubo de realizar muchos esfuerzos para que ellas pudieran autogestionarse, para que tuvieran libertad de elegir confesores y consejeros, y no estuvieran sometidas en todo a los varones; algo inconcebible en su época.

Lo vemos de una manera especial en su correspondencia de los últimos años: «Esto es lo que temen mis monjas: que han de venir algunos prelados pesados que las abrumen y carguen mucho» (Cta 145,1); «en que perpetuamente no sean vicarios de las monjas los confesores pongo mucho [...]. Es también necesario que tampoco estén sujetas a los priores [...]. Nuestras Constituciones no es menester tratarlo en capítulo de frailes ni que lo entiendan ellos» (Cta 359,1ss); «en nuestras cosas no hay que dar parte a los frailes» (Cta 360,4).

Hoy nos resulta absurdo que en una sociedad que se decía cristiana se prohibiera el acceso a la Biblia de las personas iletradas en general y de las mujeres en particular. Pero era así. Teresa alza la voz contra esa situación, lo que no impidió que su Comentario al Cantar de los Cantares fuera quemado. Con mucho cuidado, pero con fuerza, compara a los que ven peligro en la lectura de la biblia con animales venenosos que todo lo que tocan lo transforman en veneno: «He oído a algunas personas que huían de oírlas [las cosas que dice el Cantar de los Cantares]. ¡Oh, válgame Dios, qué gran miseria es la nuestra! Que como las cosas ponzoñosas, que cuanto comen se vuelve en ponzoña, así nos acaece, que de mercedes tan grandes como nos hace el Señor en darnos a entender lo que tiene el alma que le ama y animarla para que pueda hablar y regalarse con su Majestad, hemos de sacar miedos» (MC 1,3).

Por su parte, ella siempre conservó su afecto por la lectura de aquellos pocos textos de la Sagrada Escritura que podía encontrar traducidos, especialmente por los evangelios: «Yo he sido siempre aficionada y me han recogido más las palabras de los evangelios, que salieron por aquella sacratísima boca, que los libros muy concertados» (CE 35,4). También estaba convencida de que en la Biblia se encuentra lo que necesitamos saber para vivir como cristianos y para poder llegar a la plenitud mística, por lo que usa muchas de sus imágenes para explicar sus ideas. Solo se lamenta de no conocerla mejor: «¡Oh, Jesús, quién supiera las muchas cosas de la Escritura que debe haber para dar a entender [estas cosas de oración]!» (7M 3,13).

Lo mismo que con la lectura de la Biblia, sucedía con la práctica de la oración personal (es decir, la meditación, la reflexión, la vida interior). Aunque hoy nos resulte incomprensible, entonces era un campo vedado para las mujeres. Teresa hubo de enfrentarse continuamente a los que afirmaban que «la oración mental no es para mujeres, que les vienen ilusiones; mejor será que hilen; no han menester esas delicadezas; bástalas el Pater Noster y el Ave María...» (CE 35,2).

Contra el parecer mayoritario, ella afirma que, en el campo de la oración, las mujeres llegan a ser mejores que los varones: «Hay muchas más mujeres que hombres a quienes el Señor hace estas mercedes, y esto oí al santo fray Pedro de Alcántara (y también lo he visto yo), que decía que aprovechaban mucho más que los hombres en este camino, y daba de ello excelentes razones, que no hay para qué decirlas aquí, todas a favor de las mujeres» (V 40,8). Y avisa a sus monjas para que huyan como del mismo demonio de aquellos que pretendan convencerlas de lo contrario.

De la rueca a la pluma

Teresa era plenamente consciente de la situación de inferioridad en que se encontraba y necesitó utilizar continuamente sus dotes persuasivas para que sus obras (y ella misma) no acabaran en la hoguera. En todos sus libros insiste en que ella debería ocupar su tiempo en hilar en la rueca, que era lo que la sociedad contemporánea esperaba de una mujer. Y añade que si escribe es «por obediencia» a sus confesores o, al menos, «con su licencia».

A pesar de todo, en ocasiones manifiesta su deseo de escribir, consciente de que tiene algo valioso que decir: «Al obispo envié a pedir el Libro de la Vida, porque quizá se me antojará de acabarle con lo que después me ha dado el Señor, que podría escribir otro más grande» (Cta 174,26). Tampoco es raro encontrar comentarios suyos como: «Da avisos importantes» o «contiene muy buena doctrina» en los títulos de los capítulos. El último capítulo del Libro de La Vida, por ejemplo, se titula así: «Prosigue en la misma materia de decir las grandes mercedes que el Señor le ha hecho. De algunas se puede tomar harto buena doctrina, que este ha sido, según ha dicho, su principal intento, después de obedecer». Aquí dice claramente que su principal intento al ponerse a escribir es enseñar una doctrina que ella posee y que considera «harto buena».

Son bien conocidos sus esfuerzos para publicar el Camino de Perfección ante la desconfianza que tenía sobre la fidelidad de las numerosas copias que se iban sacando de sus manuscritos. Ella era consciente de que esa obra (y las demás) podía ayudar mucho a sus lectores, pero no atreviéndose a alabarlas directamente, a veces recoge las palabras de otros, como cuando afirma en el prólogo del Castillo Interior que intentará volver a escribir cosas que ya había escrito y que habían gustado a quienes las habían leído, aunque ahora estaban perdidas (no podía decir directamente que estaban en manos de la Inquisición y que habían hecho mal en requisarlas, porque la doctrina era buena, pero lo da a entender): «Me holgaría de atinar en algunas cosas que decían que estaban bien dichas».

Muchos autores siguen insistiendo en que Teresa no escribió por propia iniciativa, sino «por obediencia», pero la realidad es totalmente distinta: ella tuvo que sortear las mil dificultades que se esgrimían en su época para que una mujer se dedicara a la escritura, por eso desarrolló una retórica de la sumisión, que hay que tener muy presente si queremos entenderla.

Teresa sabía que necesitaba la aprobación de los letrados, aquellos varones que tenían autoridad para determinar la ortodoxia o heterodoxia de sus escritos. De su aprobación o su rechazo dependía que ella pudiera darlos a leer a otros o no, que pudiera influir en sus lectores, transmitiéndoles sus ideas o que sus intuiciones murieran con ella. De aquí brota su continuo andar de unos a otros, buscando siempre los más afines ideológicamente, pidiéndoles que lean y revisen sus obras, aceptando pulir sus expresiones o incluso reescribir tratados enteros cuando ellos se lo piden. Ante la necesidad de pasar la censura, siempre se somete a su parecer y acepta sus correcciones. Ella sabía que era mejor un escrito mutilado que un texto prohibido.

Para ganar la benevolencia de los censores, a cada paso intenta justificar su actividad, presentándose como inofensiva, confesando que acepta los tópicos sobre la inferioridad de la mujer (aunque a renglón seguido afirme lo contrario), insistiendo en que «me lo han mandado mucho... en todo me sujeto al parecer de los que saben más que yo… mucho me cuesta emplearme en escribir, cuando debería ocuparme en hilar... de esto deberían ocuparse otros más entendidos y no yo, que soy mujer flaca y ruin... como no tengo letras, podrá ser que me equivoque... escribo para mujeres que no entienden otros libros más complicados...» y cosas similares.

A pesar de todos sus esfuerzos, en los márgenes de sus escritos podemos encontrar anotaciones de los censores como esta: «Parece que reprende a los inquisidores que quitan libros de oración». Y tacharon con tal furia un desahogo de su corazón, que no se ha podido leer hasta tiempos bien recientes, ayudados por los rayos x, y aún hoy algunas líneas no se pueden descifrar: «Señor de mi alma, cuando andabais por el mundo no aborrecisteis a las mujeres. Antes las favorecisteis siempre con mucha piedad y hallasteis en ellas tanto amor y más fe que en los hombres [...]. Que no hagamos cosa que valga nada por vos en público, ni osemos hablar algunas verdades que lloramos en secreto, sino que no nos habíais de oír petición tan justa. No lo creo yo, Señor, de vuestra bondad y justicia, que sois juez justo y no como los jueces del mundo, que –como son hijos de Adán y, en fin, todos varones– no hay virtud de mujer que no tengan por sospechosa [...]. Que no es razón desechar ánimos virtuosos y fuertes, aunque sean de mujeres» (CE 4,1).

Estremece todavía hoy este testimonio personal de que las mujeres estaban acorraladas y debían llorar en secreto lo que no podían decir en público. Con todo, sus lúcidas precauciones fueron útiles y consiguieron preservar la mayoría de sus escritos hasta el presente.

Se añade a lo anterior la dificultad de escribir sobre temas interiores, para los que no sirven «los términos vulgares y usados», según dice san Juan de la Cruz (C prólogo, 1). Los primeros escritos de Teresa suponen un tremendo esfuerzo para hacer luz en sus experiencias místicas, como ella misma confiesa: «Yo estuve muchos años que leía muchas cosas y no entendía nada de ellas; y mucho tiempo que, aunque me lo daba Dios, no sabía decir ni una palabra para darlo a entender, que no me ha costado esto poco trabajo» (V 12,6).

Su creatividad literaria

Para hacerse entender, comienza subrayando en libros de otros autores lo que se parece a lo que ella está viviendo. De ahí pasa a escribir breves Relaciones, que entrega a sus confesores y a personas letradas en busca de consejo. Más tarde elaborará una relación más pormenorizada, que después de varias redacciones dio lugar al Libro de la Vida, en el que todavía no domina todos los recursos del lenguaje para darse a entender: «Sentí en mi espíritu un no sé qué […], ni yo sabré decir cómo fue, ni por comparaciones podría» (V 33,9). En otra ocasión, añade: «Deshaciéndome estoy, hermanas, para daros a entender esta operación de amor y no sé cómo» (6M 2,3).

Precisamente esta incapacidad para comunicar sus experiencias, le hizo seguir leyendo toda su vida, para buscar palabras con las que explicarse y explicar a los otros lo que estaba viviendo. Cuando no las encuentra, opta por usar comparaciones o inventar imágenes novedosas que a ella le parecen «desatinos santos» (V 16,4).

Con el discurrir de los acontecimientos, las lecturas, las consultas a personas «letradas»  y la práctica, Teresa adquiere una fluidez cada vez mayor y se enfrenta a obras cada vez más complejas, con clara intención docente. Tanto sus escritos históricos y autobiográficos (Cuentas de Conciencia, Libro de la Vida, Fundaciones), como sus tratados espirituales (Camino de Perfección, el Castillo Interior, Meditaciones sobre los Cantares) y legislativos (Constituciones, Modo de visitar los conventos) intentan ser un acompañamiento para orantes, una guía en la conquista del propio mundo interior o sobrenatural, en lo que Teresa de Jesús llegó a ser una gran doctora, plenamente consciente de que en ese campo tenía una palabra que decir, avalada por su propia experiencia: «Son tan dificultosas de decir estas cosas interiores del espíritu que pasan con tanta rapidez [...]. Hablo de cosas sobrenaturales, que son las que no se pueden adquirir con el propio esfuerzo ni diligencia, aunque mucho se procure» (CC 54, 1-3).

Así, pues, al principio Teresa tuvo que luchar con el lenguaje, con la falta de palabras adecuadas para hablar de su experiencia sobrenatural; y durante toda su vida tuvo que enfrentarse con el contexto social, que discriminaba a las mujeres y no las permitía escribir (y menos aún sobre cosas interiores, siempre sospechosas de luteranismo). Precisamente las dificultades interiores y ambientales fueron la principal causa de su creatividad literaria. Solo si tenemos estos presupuestos claros, podemos acercarnos a su vida y a sus obras sin malinterpretar su mensaje, como se ha hecho muchas veces (quizás de manera inconsciente, pero no inocente).

Como no se puede entender la Biblia si no se tienen en cuenta el contexto en el que fue escrito cada libro (que equivale a saber «qué» preguntas concretas intenta responder el autor) y sus géneros literarios (que equivale a saber «cómo» las responde para que los destinatarios puedan entender), de la misma manera no se pueden entender los escritos de santa Teresa si no se pone atención a lo que dice, a cómo lo dice, y también a lo que ella no dice, pero podemos adivinar leyendo sus cartas y otros testimonios contemporáneos.

Hoy ya no se pueden seguir afirmando las mismas cosas que en años pasados, cuando no se disponía de estudios serios sobre el contexto histórico y la personalidad de santa Teresa. Por ejemplo, en la introducción al libro del Castillo Interior, hablando de la reacción de la Santa a la orden de escribirlo que le dio el P. Gracián, dice un autor: «Ante esta petición, que ciertamente ella no se esperaba, la Santa se sintió consternada y suplicó con insistencia al P. Gracián que le retirara esa orden, que la dejara hilar su rueca y seguir los actos de comunidad con las demás hermanas. Pero el superior no cedió [...]. Mientras la Santa estaba pensando cómo empezar ese trabajo, Dios vino en su ayuda con una espléndida visión. Hacía tiempo que la Santa quería ver un alma en gracia, y el Señor, que dispone las cosas con suavidad y sabiduría, escuchó los deseos de su sierva» (Egidio di Gesù, Prefazione al Castello Interiore, ed. OCD). Este autor continúa diciendo que escribió el libro en éxtasis e incluso que el folio se llenaba él solo de palabras mientras ella se encontraba en oración. (Es verdad que la primera edición es de 1950, pero es la que se conserva hasta el presente en italiano y ha sido reeditada en 2010 con la misma introducción).

La poesía como cauce de expresión

Para hacerse entender, usa imágenes y comparaciones, aunque siempre insiste en la incapacidad del lenguaje ordinario para verbalizar las experiencias más profundas: «El alma entiende muy bien que es llamada de Dios, y tan entendido, que algunas veces la hace estremecer y aun quejar. Siente que es herida sabrosísimamente, más no atina cómo ni quién la hirió. Se queja a su Esposo con palabras de amor, que no puede hacer otra cosa, porque entiende que él está presente [...]. Estoy deshaciéndome por daros a entender esta operación de amor, y no sé cómo; porque parece contradictorio entender que el Amado está claramente con el alma y parece que al mismo tiempo la llama con una señal tan cierta que no se puede dudar...» (6M 2,2).

Por eso intenta expresar con versos las experiencias que no puede contar de otra manera. En principio, ella no se sentía poeta. Sus primeros poemas surgen de una incontenible experiencia mística que busca cauces para comunicarse y descubre que el lenguaje ordinario es insuficiente. Hablando de sí misma en tercera persona, dice: «¡Válgame Dios, cómo está un alma en este estado! Toda ella querría ser lenguas para alabar al Señor. Dice mil desatinos santos. Yo sé de una persona que, con no ser poeta, le acaecía hacer de pronto coplas muy sentidas declarando bien su pena, no hechas de su entendimiento, sino que para más gozar la gloria que tan sabrosa pena le daba, se quejaba de ella a su Dios» (V 16,4).

De su primer poema en concreto, ella misma refiere que lo compuso en 1557, estando en oración, en casa de Dª Guiomar de Ulloa y que le brotó de una manera espontánea (Cta 167,36), aunque al transcribirlo no lo recuerda entero. Lo que escribió en aquella ocasión es lo que se ha conservado hasta el presente. Dice así:

«¡Oh, Hermosura que excedéis
a todas las hermosuras!
Sin herir dolor hacéis
y sin dolor deshacéis
el amor de las criaturas.

¡Oh, nudo que así juntáis
dos cosas tan desiguales!
No sé por qué os desatáis,
pues atado fuerza dais
a tener por bien los males.

Juntáis quien no tiene ser
con el ser que no se acaba;
sin acabar, acabáis;
sin tener que amar, amáis,
engrandecéis nuestra nada» (P 3).

Al menos a partir de este momento (de antes no tenemos constancia), la poesía y el canto (coplas, villancicos, cantarcillos) serán para ella importantes medios para expresar sus sentimientos. Algunos poemas tendrán el mismo origen que el anterior, otros los compondrá adaptándose a músicas previas, para ser cantados y bailados en la recreación de las monjas. Incluso varios tendrán forma dialogada, para ser interpretados por varias solistas alternándose con el coro. Los recoge en sus cartas, los envía como regalo a sus amistades, comenta los que componen otras personas y los intercambia: «No sé qué le envíe, si no es estos villancicos que hice yo. […] Tienen graciosa tonada» (Cta 163,23); «Las poesías también vengan» (Cta 395,18), etc. Desde entonces, en el Carmelo quedó la costumbre de realizar e interpretar composiciones piadosas en las fiestas conventuales.

Cuando en 1560 experimenta por primera vez la transverberación, siente que su amor era tan intenso, que le parecía como si un ángel le clavara un dardo de fuego en el corazón y le arrancara las entrañas, dejándola abrasada de amor: «Creciendo en mí un amor tan grande de Dios, que no sabía quién me lo ponía [...]. Me veía morir con deseo de ver a Dios» (V 29,8). A pesar de las muchas veces que este episodio ha sido representado en el arte, especialmente en la famosa escultura de Bernini en la iglesia de Santa María de la Victoria de Roma, ella misma explica que no se trata de un ángel real, ni tampoco es real el dardo ni el fuego, sino que son las imágenes sensibles con las que ella narra acontecimientos inefables: «Es una manera de herida que parece al alma como si la metiesen por el corazón una saeta. Así causa un dolor tan grande, que la hace quejarse; y tan sabroso, que no querría que le faltase nunca. Este dolor no es en el sentido, ni tampoco es llaga material, sino en lo interior del alma» (CC 54,14).

A la hora de servirse de la imagen del ángel con el dardo para explicar esa altísima experiencia del amor de Dios, seguramente influyó en Teresa el haber visto muchas veces representado el amor como Cupido, un pequeño ángel que dispara sus saetas, así como las poesías amatorias de la época, que presentaban al amado como un cazador y a la amada como una cierva vulnerada, que solo puede encontrar descanso en aquel que la hirió con los dardos de su amor. Ella misma se sirvió de este trasfondo para cantar lo que había vivido:

«Ya toda me entregué y di
y de tal suerte he trocado
que mi Amado es para mí
y yo soy para mi Amado.

Cuando el dulce Cazador
me tiró y dejó rendida,
en los brazos del amor
mi alma quedó caída.
Y, cobrando nueva vida,
de tal manera he trocado,
que mi Amado es para mí
y yo soy para mi Amado.

Hirióme con una flecha
enherbolada de amor
y mi alma quedó hecha
una con su Criador.
Yo ya no quiero otro amor,
pues a mi Dios me he entregado,
y mi Amado es para mí
y yo soy para mi Amado» (P 1).

Aunque ella procuraba pasar desapercibida y solo comentaba estas experiencias íntimas con el confesor, a medida que se multiplicaban sus gracias místicas, crecieron las habladurías e incomprensiones en la ciudad, por lo que de nuevo hizo uso de la poesía para intentar explicar lo que sentía:

«¡Cuán triste es, Dios mío,
la vida sin ti!
Ansiosa de verte
deseo morir.

Carrera muy larga
es la de este suelo,
morada penosa,
muy duro destierro.
¡Oh, Dueño adorado
sácame de aquí;
ansiosa de verte
deseo morir...» (P 6).

Si la poesía le sirve para expresar sus ansias del cielo («Vivo sin vivir en mí / y tan alta vida espero / que muero porque no muero…»), también se vale de ella para confesar que solo quiere lo que Dios quiera y que está dispuesta a permanecer sobre la tierra hasta el fin del mundo si con sus trabajos puede salvar una sola alma («Vuestra soy, para vos nací, / ¿qué mandáis hacer de mí?)».

5.      Teresa fundadora

Con veinte años, Teresa se hizo monja carmelita. No tenía muchas alternativas. O someterse a un marido hasta morir de sobreparto, como muchas de sus contemporáneas –incluida su propia madre– o meterse monja. En sus escritos reflexiona sobre las obligaciones de una mujer bien casada, que tiene que someterse en todo a su marido y en los sufrimientos de las que lo tienen celoso, comparándolo con la libertad de las esposas de Cristo (cf. CE 38,1). Ella misma reconoce que, al decidirse por la segunda opción, no lo hacía por motivos sobrenaturales totalmente claros: «Más me parece me movía un temor servil, que no amor» (V 3,6). Incluso se decide por las carmelitas porque allí estaba su gran amiga Juana Juárez: «Miraba yo más mis gustos y mi vanidad que lo que fuera mejor para mi alma». Pero Dios sabe escribir derecho con renglones torcidos.

La vida en la Encarnación

Cuando Teresa se hace carmelita, el monasterio de la Encarnación era un edificio nuevo, aún no terminado. El primitivo beaterio de 1478 se convirtió formalmente en monasterio hacia 1500. Desde entonces había conocido distintas ubicaciones hasta que se pudo decir la primera misa en el actual emplazamiento el 4 de abril de 1515, el mismo día en que ella fue bautizada. El grupo inicial de 14 religiosas no había parado de crecer, llegando a 120 en 1540, a 165 en 1545 y a 200 pocos años después. Los gastos ocasionados por la construcción de nuevas celdas y locutorios retrasaban la finalización de la Iglesia y endeudaban progresivamente a la comunidad.

La estructura de este y de cualquier otro monasterio de la época era un reflejo de la sociedad contemporánea, y difería mucho de la que podemos encontrar hoy en las comunidades religiosas. La comunidad estaba compuesta por una pequeña minoría de monjas sinceramente vocacionadas, que querían entregarse por completo al servicio del Señor. Entre ellas había algunas ejemplares, e incluso santas. Al mismo tiempo, como no se aceptaba que una mujer pudiera permanecer soltera y la mayoría de los varones jóvenes estaban enrolados en el ejército o en América, los monasterios se convertían en residencias de hijas de buena familia a quienes sus padres no habían conseguido un marido conforme a su condición, así como de niñas y adolescentes, hijas rebeldes, viudas piadosas y, en el caso de los conventos más poderosos, miembros de las grandes familias, que se servían de los bienes y posesiones del monasterio para acrecentar su patrimonio e influencia social. De todas formas, como cada monasterio era jurídicamente independiente (incluso los pertenecientes a una misma familia religiosa), algunas cosas podían cambiar de uno a otro.

En el caso de la Encarnación, aparte de las niñas o mujeres seglares acogidas, había tres tipos de monjas:

  1. Las religiosas que podían aportar una dote y sabían leer eran «de velo negro», estaban obligadas al rezo de las Horas canónicas en el coro y tenían voz y voto en los capítulos conventuales.

  1. Aquellas que no podían aportar una dote eran «de velo blanco» y se dedicaban a las tareas domésticas, sin tener obligación del rezo coral (que se cambiaba por un número determinado de «padrenuestros») y sin poder participar en las reuniones en que se tomaban las decisiones conventuales. Eran llamadas «legas» o «freilas». Estas últimas y las criadas tenían dormitorios y comedores comunes, donde muchas veces faltaba lo esencial.

  1. Las «doñas» que se lo podían pagar tenían amplias habitaciones con cocina propia, despensa, oratorio, recibidor y alcoba (es el caso de Teresa). Además, podían llevar consigo vestidos, joyas, familiares y siervas que les limpiaran la habitación y prepararan sus comidas e incluso perros y otros animales de compañía. Conservaban sus apellidos y los títulos y privilegios sociales de sus familias de proveniencia y estaban exentas del rezo en común, así como de otras obligaciones.

El monasterio se veía imposibilitado para alimentar a todas las monjas y para cuidar de todas las enfermas, por lo que muchas pasaban temporadas más o menos largas en las casas de sus padres o de otros parientes o bienhechores. Cuando ingresa Teresa hay unas 50 religiosas en esta situación. Más tarde, también ella residirá largos periodos fuera del monasterio.

Además de estos tres tipos de religiosas («de coro», «legas» y «doñas») y de las niñas y doncellas internas, en las propiedades del monasterio había casas para los hortelanos, el administrador de las rentas y los demás criados que cuidaban de las cuadras, gallinero y pajares, pastoreaban los rebaños, recogían los alquileres de las propiedades que el monasterio tenía en varios pueblos (frutos de dotes de algunas monjas o de herencias de seglares a cambio de ser enterrados en la iglesia y de determinados sufragios por sus almas), llevaban el grano a los molinos y la harina al horno, etc. La comunidad también tenía contratados capellanes y confesores, médico, cirujano, notario, procurador y letrado. Por eso, la Encarnación se parecía más a una pequeña ciudad que a lo que hoy identificamos con un convento. Allí había mujeres de todas las condiciones sociales, tanto entre las monjas como entre las seglares.

Como es natural, entre las que eran obligadas a permanecer en el convento por sus familias, había muchas desmotivadas. De ellas escribirá Santa Teresa que «están con más peligro que en el mundo» y que «es preferible casarlas muy bajamente que meterlas en monasterios». También describe algunas costumbres en las que ella nunca participó, pero que eran muy comunes entre estas mujeres sin vocación: «Tomar yo libertad ni hacer cosa sin licencia, digo por agujeros o paredes o de noche, nunca hice».

Ya hemos dicho que Teresa se hace monja sin una clara conciencia vocacional: «Aunque no acababa mi voluntad de inclinarse a ser monja, vi que era el estado mejor y más seguro; y así poco a poco me determiné a forzarme para tomarle» (V 3,5). Sin embargo, las lecturas piadosas, el buen ejemplo de algunas hermanas y su carácter generoso, la fueron llevando a tomar muy en serio su vida. En el monasterio encontró una paz y una alegría que la embargaban. Se sentía tan a gusto que no echaba de menos sus anteriores ocupaciones: «Andaba algunas veces barriendo en horas que yo solía ocupar en mi regalo y gala» (V 4,2).

La joven monja se entrega con entusiasmo a las prácticas religiosas: confesiones frecuentes, oración en el coro, servicios a las hermanas, realización de oficios humildes, ayunos y penitencias. En este último campo no tenía quien la guiara por los caminos de la moderación y su impetuosidad la llevó a extremos exagerados, que más tarde condenará en sus obras. Una testigo dirá: «Hacía tan grandes y extraordinarias penitencias, que la disminuyeron la salud». Efectivamente, los excesos estuvieron a punto de acabar con ella: «Me comenzaron a crecer los desmayos y me dio un mal de corazón tan grandísimo, que ponía espanto, y otros muchos males juntos [...] que me privaban del sentido muchas veces» (V 4,4). Todos sabemos que los cuidados de una curandera de Becedas casi la matan y que posteriormente sanó por intercesión de san José.

En la Encarnación pasó 27 años dedicada a los rezos comunitarios, la lectura espiritual, la oración personal en su oratorio privado, los cuidados a las enfermas de la casa, la atención a las numerosas personas que solicitaban su compañía en el locutorio y  el cuidado de su hermana pequeña (que compartirá su celda durante 10 años desde la muerte de su padre hasta su matrimonio, como lo harán más tarde otras dos parientes más). Los testimonios de la época hablan de la generosidad y de la piedad de la hermana Teresa, así como de su simpatía y de la llaneza de su trato. Muchos la consideraban una religiosa ejemplar. Ella, sin embargo, no terminaba de estar contenta, se encontraba dividida: «Por una parte me llamaba Dios, por otra yo seguía al mundo. Me daban gran contento todas las cosas de Dios, me tenían atada las del mundo. Paréceme quería concertar estos dos contrarios» (V 7,17). Finalmente, Dios la venció totalmente. Al respecto, exclama: «Con grandes regalos castigabais mis delitos» y «antes me cansé yo de ofenderos que vos de perdonarme».

San José de Ávila

Un atardecer de septiembre de 1560, en la celda de Dª Teresa se encontraban reunidas dos sobrinas suyas, a las que ella criaba allí, y otras diez religiosas amigas, comentando una carta circular que había hecho llegar el rey Felipe II a todos los monasterios, en la que exponía los daños causados por los luteranos en Francia y en el resto de Europa, y pedía oraciones por la unidad de la Iglesia. Comenzaron a tratar del gran bien que hace la oración de los buenos religiosos, de los ermitaños antiguos del Monte Carmelo, de fray Pedro de Alcántara y de las descalzas reales, que él había reformado, de lo hermoso que sería vivir en una comunidad así... Su sobrina María de Ocampo aseguró que, si se hacía, aportaría mil ducados y Dª Guiomar, que se había unido al grupo, también prometió su ayuda. Teresa no estaba muy convencida, hasta que pocos días después sintió al comulgar que Cristo «me mandó mucho que lo procurase, haciéndome grandes promesas de que no se dejaría de hacer el monasterio» (V 32,11).

Comienzan dos años de luchas continuas. Sus conocidos (especialmente el confesor) dicen que es una locura. Ella quiere pareceres autorizados, por lo que escribe a san Pedro de Alcántara, a san Francisco de Borja y a san Luis Bertrán, que responden apoyándola incondicionalmente. El provincial de los carmelitas, también aprueba la fundación, por lo que se decide a pedir un Breve Papal para realizarla. Cuando se conoció la noticia en la Encarnación y en la ciudad, la mayoría se puso en contra, por lo que el provincial retiró su apoyo (V 32,15).

La acusaban de alumbrada y endemoniada, por lo que pidió su parecer al teólogo más renombrado en ese momento en Ávila: el dominico P. Pedro Ibáñez, para el que escribió un largo memorial de 40 párrafos con la situación de su espíritu, la primera Cuenta de Conciencia que conservamos: «La manera de proceder en la oración que ahora tengo es la presente: pocas veces son las que estando en oración puedo tener discurso con el entendimiento, porque comienza a recogerse el alma y estar en quietud, de tal manera que ninguna cosa puedo usar de las potencias y sentidos [...]. Me ha venido una determinación muy grande de no ofender a Dios, que antes moriría mil muertes que tal hiciese [...]. Con todo, aunque creo que es Dios ciertamente, yo no haría ninguna cosa, si no le pareciese bien a quien tiene cargo de mí [...]. Esto es lo que siento que el Señor obra en mí. Todo lo remito al juicio de vuestra merced». La gente identificaba la perfección con la penitencia y la renuncia. Ella no habla de esas cosas, sino de su experiencia personal de Dios: de la oración y de la práctica de las virtudes. A pesar de la oposición de la ciudad y las presiones que recibe el dominico, su parecer será positivo y lo acompañó con un dictamen laudatorio, escrito en 33 puntos.

Reconfortada, se decide a pedir un segundo Breve Papal; esta vez poniendo el monasterio bajo la obediencia del obispo, ya que el anterior permitía fundarlo bajo la obediencia del provincial de los carmelitas, que ahora no lo acepta. Como el obispo tampoco estaba dispuesto a tomar el monasterio bajo su obediencia, san Pedro de Alcántara le escribe una preciosa carta solicitándoselo: «Una persona muy espiritual, con verdadero celo, desde hace tiempo pretende fundar un monasterio religiosísimo en ese lugar. […] Por amor de Nuestro Señor, pido a vuestra señoría que lo ampare y reciba».

Don Álvaro de Mendoza no se dejó impresionar y volvió a manifestar su negativa. Finalmente, san Pedro de Alcántara se dirigió a la residencia de descanso del obispo en el Tiemblo, pero no pudo arrancarle una respuesta positiva. Todo lo que consiguió fue la promesa de que cuando volviera a Ávila iría personalmente a conocer a la monja de la que tanto había oído hablar para escuchar sus razones. Así cuenta el encuentro el secretario del obispo, D. Juan Carrillo: «Fray Pedro de Alcántara le llevó al monasterio de la Encarnación, donde estaba la madre Teresa de Jesús, para que tratase con ella el negocio de la fundación; y la tarde que vino el obispo de hacer esto, este testigo le oyó decir que totalmente le había mudado Nuestro Señor, porque hablaba en aquella mujer, y venía persuadido a que por ninguna vía dejaría de hacer la fundación de San José». Desde ese momento, D. Álvaro se convirtió en amigo y confidente de la Santa, llegando a ser su dirigido y a dejarle sus bienes en herencia.

Aunque las contradicciones externas crecieron, hizo venir de Alba a su hermana Juana y a su cuñado, para que se encargasen de las obras de adaptación de una casita en un barrio popular fuera de las murallas (V 33,4ss). Las obras se alargan porque unos muros ceden, cayendo sobre uno de los sobrinos de Teresa, que quedó como muerto. Al enterarse, fue corriendo a la obra y tomó del suelo el cuerpecito, abrazándose a él. El niño se despertó y Teresa se lo entregó a su madre. Los obreros comenzaron a decir que era un milagro. Ella les respondió que lo que habría sido un milagro es que el muro hubiera permanecido en pie, estando tan mal construido, y que tenían que volver a levantarlo. Los dineros faltaban, pero supuso una gran ayuda la inesperada llegada de algunas monedas de oro, enviadas desde América por su hermano Lorenzo (Cta 2,1-2).

Ella se encarga personalmente de terminar las obras de acondicionamiento: «Acomodó una pieza pequeñita para iglesia, con una rejita pequeña de madera doblada y bien espesa, por donde viesen las monjas misa, y un zaguán pequeñito por donde se entraba a la iglesia y a la casa, que todo, en pequeño y pobre, representaba el portal de Belén». No sin nuevos trabajos, se superan las últimas dificultades y el 24 de agosto de 1562 se inaugura el conventico de S. José (V 36,5). Teresa tenía 47 años.

Los comienzos fueron muy difíciles. Los pocos amigos que le quedaron se demostraron fieles en aquellos días terribles. Francisco de Salcedo llegó a sufrir con paciencia burlas y persecuciones por visitar y favorecer a las monjas de San José. El concejo de la ciudad convocó una reunión para tratar el caso. Fueron citados el corregidor, 4 regidores, 2 caballeros, el provisor, 3 canónigos, los priores de 5 monasterios masculinos acompañados de un fraile da cada Orden, 2 letrados del ayuntamiento y 2 representantes del pueblo. 25 varones reunidos para discutir sobre los proyectos de un grupito de mujeres. Por supuesto que no fue consultada ninguna mujer que representara a los 6 monasterios femeninos de la ciudad ni menos aún las interesadas. En dicha reunión, el P. Domingo Báñez fue su único defensor. Cuando todos estaban dispuestos a deshacer el nuevo convento, advirtió que no podían, bajo pena de excomunión, ya que contaba con los oportunos permisos del obispo y de Roma.

Como no podían deshacerlo, el ayuntamiento les pone pleito, porque afirma que la tapia del conventillo da sombra a las fuentes públicas. El argumento tenía poca consistencia, pero con esta y otras historias semejantes se determinaron a presentar el pleito ante el rey, para que diera orden de cerrar el convento. Con el tiempo se calmarán las cosas y se olvidará el pleito, que no se cerró formalmente hasta el año 2012, en un pleno extraordinario del ayuntamiento abulense con motivo del 450 aniversario de la fundación de San José.

La importancia de una ciudad de la época se medía por el número de iglesias y monasterios que tenía. Los más austeros eran los más apreciados. Por eso es tan extraño el rechazo a la obra fundadora de Teresa. Tenemos que ser conscientes de que no fue principalmente un motivo económico el que lo provocó. Un monasterio cercano podía haber puesto la objeción de que las limosnas tendrían que dividirse y que quizás no habría para todos. Pero no es este el caso (como lo será en otras fundaciones posteriores). La oposición no viene de uno o varios monasterios, sino de toda la ciudad, por lo que tenemos que buscar otras causas.

Una la veremos con claridad más adelante: hasta entonces los monasterios, iglesias, hospitales o instituciones similares habían sido fundados siempre por hombres que compraban los terrenos, dirigían las obras y establecían las condiciones. Y Teresa se atrevió a hacer cosas tan serias de propia iniciativa. Además, en un contexto de miedo ante las divisiones eclesiales provocadas por la Reforma luterana, la propuesta de interioridad y vida sencilla de Teresa sonaba a protestantismo. La fundación de San José se parecía demasiado a las casas de la gente normal y demasiado poco a lo que se identificaba con un monasterio. Pienso que aquí se encuentra la verdadera causa del rechazo inicial.

De todas formas, el Señor mismo la consuela haciéndola oír en la oración que «esta casa es un rinconcito de Dios, paraíso de su deleite» (V 35,12) y diciéndole que no se preocupara, «que no se desharía» (V 36,16). Cuando la gente fue conociendo la manera de vivir de Teresa y sus monjas, se vencieron todos los prejuicios y se aficionaron a ellas, transformándose en bienhechores muchos de los antiguos perseguidores: «Era mucha la devoción que el pueblo comenzó a traer con esta casa» (V 36,23). Para ella comenzaron «los cinco años más descansados de toda mi vida» (F 1,1).

Un nuevo estilo de vida

Mientras tanto, en S. José de Ávila se recogen los principios esenciales de la tradición carmelitana, que ella había aprendido en la Encarnación y que nunca abandonará: la vida en obsequio de Jesucristo, marcada por el amor a la Palabra de Dios y una fuerte dimensión orante, el cultivo de la interioridad en el silencio, las referencias a María y al profeta Elías, como modelos de oración y de servicio.

A la herencia carmelitana se unen armónicamente otras intuiciones nuevas, que darán a luz lo que en el futuro será una de las más fecundas corrientes de espiritualidad que alimentan la Iglesia. No es que Teresa tuviera todo claro desde el principio: serán la vida y el diálogo continuo con las hermanas de la casa los que irán marcando el camino a seguir.

Lo que tiene claro desde el principio es que las monjas de san José se consagran por entero al servicio de Cristo. Él será el centro y la razón de su existencia, no las cosas que hagan ni los oficios que desempeñen. Jesús será su amigo, compañero y esposo, con el que quieren gozarse, al que están dispuestas a consolar y por el que no les importa morir. Se consagran a servirle y a amarle, no a la práctica de determinadas devociones o actividades religiosas, que solo serán útiles en la medida en que favorezcan la unión con Cristo.

Ante todo, las monjas de S. José serán un «pequeño colegio de Cristo», compuesto por un máximo de 13 mujeres (12 y la priora, como los apóstoles en torno al Señor, aunque más tarde ampliará el número hasta 21). Pocas, pero firmemente vocacionadas. No admitirán presiones externas para acoger a unas u otras, ni aceptarán personas que busquen «remediarse», como dice ella. Las candidatas serán muy bien seleccionadas, para que solo entren aquellas que libremente quieran adherirse a su estilo de vida y estén capacitadas para ello. Insistía a sus hermanas en que «nunca dejen de recibir a las que vinieren a querer ser monjas por no tener bienes de fortuna, si los tienen de virtudes». Para ella es más importante un buen entendimiento que un buen apellido o una buena dote.

Teresa se cambia el nombre, como signo de que inicia una nueva vida. Ya no se llamará «Dª Teresa de Cepeda y Ahumada», sino «Teresa de Jesús». Sus compañeras también cambian los apellidos civiles por otros religiosos. Entre ellas no es importante la familia de proveniencia, ya que todas se consideran iguales, hijas del mismo Padre celestial y esposas del mismo Señor Jesús. En principio, no se admiten legas ni criadas, ni tratamientos que indiquen la pertenencia a un estado superior, ya que se busca la vivencia de una fraternidad intensa y sencilla. «Aquí todas se han de amar, todas se han de querer, todas se han de ayudar», escribirá la madre Teresa, que añade que vivirán del trabajo de sus manos y que, independientemente del cargo que ocupen, todas se turnarán en los servicios necesarios para el mantenimiento de la casa: cocina, limpieza, lavadero, huerta, atención a la portería... «La tabla de barrer, que empiece por la priora».

La autoridad se ejercitará como un servicio abnegado, avalado por la vida antes que por las leyes: «La priora procure ser amada para ser obedecida». Procura que cada una se alimente y reciba según su necesidad, independientemente del cargo y de la edad. Particularmente, habrá que atender a las enfermas con la máxima solicitud, llegando a establecer en las Constituciones: «Si es necesario, que les falte lo necesario a las sanas para dar capricho a las enfermas».

Cuando más tarde ponga por escrito los elementos fundamentales que deben caracterizar a las carmelitas descalzas, antes de hablar de la oración o de las prácticas religiosas, considera que es necesario dejar claro que el verdadero fundamento de la consagración religiosa está en las virtudes humanas que favorecen la convivencia: la autenticidad, la afabilidad, la educación, el agradecimiento, la laboriosidad, la higiene... Especialmente habla de la importancia de practicar tres virtudes para poder ser verdaderamente orantes: el amor de unas con otras, el desasimiento de todo lo criado y la humildad, que las abraza a todas y que consiste en andar en verdad.

Para Teresa, humildad, honestidad, amor a la verdad, conocimiento de sí… son palabras sinónimas que invitan a la naturalidad, a la «llaneza» (para decirlo con sus palabras), a no aparentar delante de los otros, llegando a afirmar que «es gran alivio andar con claridad». Su discípulo Juan de la Cruz dirá que «es insufrible» el apego de algunas personas a las ceremonias complicadas y su falta de sencillez en las cosas de la fe (3S 43,1).

Después de hablar de lo que ella denomina «virtudes grandes», puede detenerse en todo lo referente a la oración personal de las religiosas, a su dimensión contemplativa: serán ermitañas, con habitaciones individuales y amplios tiempos dedicados a la soledad, especialmente una hora de oración silenciosa por la mañana y otra por la tarde. La oración no se entiende como meditación, esfuerzo de la inteligencia por comprender el misterio, tal como pretenden aquellos que «llevan las cosas con tanta razón y tan medidas por sus entendimientos, que parece que quieren comprender con sus letras toda la grandeza de Dios». Al contrario, la oración es un «trato de amistad», en el que se establece una relación afectuosa con Cristo. Contra lo que puedan decir algunos letrados, «no está la cosa en pensar mucho, sino en amar mucho».

Como es natural en personas consagradas, la jornada estará marcada por la celebración de los sacramentos y por el rezo de la alabanza divina. Aunque en el monasterio se viviera con gran pobreza, Teresa gustaba que se gastara lo necesario para la ornamentación de la iglesia (flores, perfumes, ornamentos litúrgicos, imágenes piadosas) y que las celebraciones se hicieran con dignidad, pero con gran sobriedad. No quiere que sus monjas tengan que perder mucho tiempo en los ensayos de cantos difíciles ni que las celebraciones se conviertan en conciertos o en entretenimientos para personas desocupadas, por lo que prefiere el canto semitonado y las melodías sencillas a la polifonía. Muchas veces pedía a los sacerdotes amigos que explicaran a la comunidad el sentido de algún salmo o de alguna lectura del Oficio Divino. Ella comulgaba cada día (algo verdaderamente excepcional en su época) y quería que sus monjas también lo hicieran o, al menos, que comulgaran con mucha frecuencia.

No prescribe prácticas piadosas (ni aun el rosario, a pesar de que ella lo rezaba cada día), ni métodos ni fórmulas de oración: «Lo que más os mueva a amar, eso haced». A algunas les ayudará comenzar con una lectura espiritual y a otras mirar con atención un cuadro o una imagen. A alguna le ayudará permanecer de rodillas y a otra sentada. Las jaculatorias piadosas serán útiles para unas y la contemplación de la naturaleza para otras. Ella sabe que todas las personas no pueden hacerse composiciones de lugar y concentrarse en la meditación, pero todos estamos capacitados para amar. Por eso insiste en que hablemos a Jesús con la misma naturalidad que hablaríamos a un padre o a un esposo o a un amigo, contándole nuestras cosas, estando en su compañía, dejándonos mirar por él. Lo importante es que la oración sea auténtica y que no se desentienda de la vida, sino que desemboque en el ejercicio del amor y en el servicio (cf. F 5).

De hecho, la oración no se limita a los momentos que las religiosas pasan juntas en el coro de la iglesia. Ella tiene claro que «también entre los pucheros anda el Señor» y que sería muy duro si solo se le pudiera encontrar «en los rincones». Por eso pide a las hermanas que no se preocupen si en algún momento tienen que dejar los tiempos de oración para cuidar de alguna enferma o hacer otros servicios necesarios, porque también en esas actividades están sirviendo al Señor, ya que las hacen por amor a él. Más tarde, cuando se multipliquen sus viajes y actividades, le vendrá el pensamiento de que se sirve mejor a Dios estando apartada de esos negocios, pero sentirá que Jesús mismo le dice que no se deben dejar, que basta que haga todo con recta intención y desasimiento, como él mismo hizo en todas sus actividades (cf. Relación 11).

Amiga de la cultura y de las buenas letras, quiere que sus monjas se formen. Es enemiga de «devociones a bobas». Quiere que su vida espiritual se construya sobre cimientos sólidos. Para eso llama a los mejores predicadores que encuentra, para que tengan en la iglesia y en el locutorio pláticas para las religiosas. La priora debe tener cuidado de que la biblioteca conventual disponga de buenos libros y el horario debe permitir que las hermanas tengan tiempo para la lectura espiritual y para la formación todos los días. Pero «las letras» no son un fin en sí mismas, sino un medio para mejor conocer y más amar a Jesucristo. Teresa sabe que puede surgir una soberbia sutil en quienes se creen superiores por tener más estudios o conocimientos. Como hemos dicho más arriba, insiste a sus monjas en que deben ser sencillas en el trato. No deben ser rebuscadas en el hablar ni entrar en discusiones por cuestiones de palabras o de conceptos. Entre las carmelitas descalzas, la cultura no puede entrar en contradicción con la llaneza y la naturalidad.

Introduce en la vida de las monjas la novedad de dedicar una hora por la mañana y otra por la tarde a la convivencia intensa y distendida. Es la «recreación», en la que se comparten las alegrías y las contradicciones de la jornada entre poesías, canciones y bromas, mientras se cose o se realizan otras actividades que no exijan demasiada atención. Ya hemos hablado de sus poemas místicos, pero también conservamos muchos de los poemillas compuestos por la Santa para estas recreaciones: cantos para celebrar la Navidad, o la Circuncisión, o la Epifanía, o la Semana Santa, o las fiestas de san Andrés, san Hilarión, santa Catalina, o con motivo de algunos acontecimientos comunitarios, como la toma de hábito o la profesión de las hermanas; incluso una para suplicar al Señor ser libradas de una plaga de piojos.

«Pues nos dais vestido nuevo,
Rey celestial,
librad de la mala gente
este sayal…

Inquieta este mal ganado
en oración,
el ánimo mal fundado
en devoción;
más Dios en el corazón
tened igual.

Librad de la mala gente
este sayal…» (P 27).

En su época, la autenticidad de la vivencia religiosa se medía por la capacidad de renuncia y por las penitencias. En las vidas de los Santos se leían sus ayunos y sacrificios. Ella había querido imitarlos con fatales consecuencias para su salud. Ahora, desde su experiencia personal, escribe que «en la vida de los Santos, hay cosas para admirar y cosas para imitar». Sus penitencias entran en la categoría de lo admirable, sus virtudes en la de lo imitable. En S. José se insistirá en la práctica de las virtudes, en la identificación con Cristo y con sus sentimientos, en la unión amorosa con él. La austeridad y la ascesis se harán con moderación y suavidad, «apretando más en las virtudes que en el rigor, que este es nuestro estilo». La austeridad de vida no es un fin en sí mismo, sino un medio para centrarse en lo esencial, sin dispersiones.

La alegría de las hermanas será la mejor manifestación de que sus vidas están totalmente centradas en Cristo, que llena sus corazones. Solo la unión con él puede convertirlas en la luz, sal y levadura que el mundo necesita.

La «estética» teresiana

En san José surge una «estética» teresiana, una manera de mirar el mundo y de representarlo. Santa Teresa proviene de la Encarnación, monasterio construido en las afueras de la ciudad con numerosas dependencias en torno a un claustro monumental, con una Iglesia capaz de albergar a muchos feligreses y con varios edificios alrededor del núcleo central para acoger a los capellanes, la servidumbre, los pajares, los animales de labranza... Los monasterios tradicionales, con sus sólidos edificios, servían para recordar al mundo los valores que permanecen para siempre. Si, además, se encontraban alejados de las ciudades, invitaban a abandonar los bienes de este mundo para buscar los del cielo.

San José surgirá como una casa más en medio de un barrio bullicioso. La capilla será una habitación pequeña y recogida, como un nuevo «portalico de Belén», dirá ella. Por supuesto que no necesitan torre, sino que basta con una campanilla colgada del muro, para llamar a la oración. La casa de Teresa recuerda a la sociedad de su tiempo que Dios «ha puesto su morada entre nosotros» y que permanece siempre a nuestro lado «ayudándonos en lo interior y exterior». Ella, que quería que sus monjas encontraran a Dios no solo en el templo, sino también «entre los pucheros» y en las demás actividades cotidianas, quiere que la población sienta a sus monjas vecinas, cercanas. Por eso, la misma arquitectura conventual no se diferenciaba mucho de la de las casas de alrededor.

La cocina, las celdas y las demás dependencias del monasterio serán austeras y funcionales: paredes encaladas, pisos de baldosas de barro, vigas de madera sin decorar, una cruz desnuda en la pared, un poyo junto a la ventana para escribir, un candil, los útiles de trabajo (rueca, agujas de bordar, etc.) y un cántaro de agua para asearse. En los lugares comunes se colocarán algunos cuadros e imágenes en los que se busca que despierten la devoción por encima del valor artístico o económico.

Para producir verduras y frutas y para procurar esparcimiento a las hermanas, se cuidará la huerta, en la que también se plantarán algunas flores junto al arroyo y se construirán unas pequeñas ermitas para el retiro personal. Todo dirigido a la búsqueda de la belleza interior, la única que perdura en el tiempo. Todo muy sencillo, muy recogido y muy limpio: «Mal me parece que de la hacienda de los pobres se hagan grandes casas. La nuestra sea pobrecita en todo y chica, que a trece pobrecillas, cualquier rincón les basta [...]. Que no haga mucho ruido al caerse el día del juicio» (CE 2,9).

Sensibilidad apostólica

Es una de las cosas que más sorprenden es esta monja contemplativa. Como buena carmelita, tiene por modelo al profeta Elías. La Orden del Carmelo habla siempre de su “doble espíritu” (el contemplativo y el apostólico), que se manifiesta en sus dos lemas, que han estado siempre presentes en la espiritualidad de la Orden. La dimensión contemplativa encuentra su expresión en el lema “Vive Dios, en cuya presencia estoy” (1Re 17,1; 18,15). La dimensión apostólica se recoge en el otro lema eliano, que se conserva hasta el presente en el escudo carmelitano: “Ardo en celo por el Señor Dios todopoderoso” (1Re 19,10;14). Cada carmelita tiene que hacer un camino personal para combinar estas dos realidades, de manera que no se rompa la armonía y que la oración sea apostólica y el apostolado sea orante.

Santa Teresa decía que Marta y María deben caminar de la mano (cf. 7M 4,12) y que todas las recomendaciones de Jesús a sus seguidores se resumen en el mandamiento del amor: “El Señor solo nos pide dos cosas en las que tenemos que trabajar: amor a Dios y al prójimo. Si las cumplimos con perfección, hacemos su voluntad y estaremos unidas con Él” (5M 3,7). A ella le gustaba repetir lo que dice san Juan: “El que no ama a su hermano, a quien ve, no puede amar a Dios, a quien no ve” (1Jn 4,20).

Sus ansias evangelizadoras y su amor apasionado a la Iglesia y a todos los hombres, especialmente a los pecadores y a los que más sufren (pobres, enfermos, etc.) brotaron precisamente de su enamoramiento por Cristo y de su relación personal con él. Por eso insistía a sus monjas en que su ocupación principal es orar por la Iglesia y por sus necesidades, teniendo presentes a todos los hombres ante el trono de Dios, día y noche. Su profundo amor a la Iglesia la lleva a identificarse con su causa y a dedicar todas sus energías a su servicio, sin perder tiempo en cosas secundarias: «Está ardiendo el mundo, quieren tornar a sentenciar a Cristo, quieren poner su Iglesia por el suelo [...]. Hermanas mías, no es tiempo de tratar con Dios negocios de poca importancia» (CE 1,5).

Confiesa que las divisiones religiosas del momento fueron el motor que la impulsó a fundar: «Venida a saber los daños de estos luteranos y cuánto iba en crecimiento esta desventurada secta, lloraba con el Señor y le suplicaba remediase tanto mal [...]. Y ya que tiene tantos enemigos y tan pocos amigos, que estos sean buenos; y así determiné a hacer esto poquito que yo puedo, que es seguir los consejos evangélicos con toda la perfección que yo pudiese, y procurar que estas poquitas que están aquí hiciesen lo mismo [...]. Todas ocupadas en oración por los que son defensores de la Iglesia y predicadores y letrados [...]. Para esto os juntó aquí el Señor; este es vuestro llamamiento, estos han de ser vuestros negocios» (CE 1,2ss).

Su pasión por las almas queda ampliamente recogida en sus escritos y en los testimonios de sus contemporáneos, como en este de Isabel de Sto. Domingo: «Decía muchas veces que, si fuera lícito que las mujeres pudieran ir a enseñar la fe cristiana, fuera ella a enseñarla a tierra de herejes, aunque le costara mil vidas». La presencia de los hermanos de Teresa en América, la tuvo ampliamente informada de los avances y de los abusos de la Conquista. Siempre estuvo preocupada por la suerte de los indígenas, llegando a escribir «que no me cuestan pocas lágrimas estos indios».

Especiales ansias misioneras se despertaron en ella y en sus compañeras con motivo de la visita al locutorio de S. José de un amigo del obispo Bartolomé de Las Casas, que se dirigía con un memorial a defender la causa de los Indios ante el rey y la Corte: «Acertó a venir un misionero franciscano, llamado fray Alonso Maldonado, muy siervo de Dios y con los mismos deseos del bien de las almas que yo (y los podía poner por obra, que yo le tuve mucha envidia). Venía de las Indias y comenzó a contar de los muchos millones de almas que allí se perdían por falta de doctrina [...]. Me fui a una ermita con muchas lágrimas; clamaba a Nuestro Señor, suplicándole que diese medio para que yo pudiese hacer algo para ganar algún alma para su servicio [...]. Tenía gran envidia a los que podían ocuparse en esto por amor de Nuestro Señor» (F 1,7).

Con sus ansias evangelizadoras crece también su sensibilidad hacia los más desfavorecidos y sus deseos de justicia para los pueblos evangelizados. Al año de fundado S. José, escribe una segunda Cuenta de Conciencia para el P. Pedro Ibáñez, en la que le da cuenta de su oración y de su evolución en este campo: «Paréceme que tengo mucha más piedad que solía hacia los pobres, teniendo yo una lástima grande y deseo de remediarlos, que, si mirase mi voluntad, les daría lo que traigo de vestido. Ningún asco tengo de ellos, aunque los trate y llegue a las manos. Y esto veo que es ahora un don de Dios, que aunque por amor de él hacía limosna, piedad natural no la tenía. Bien conocida mejoría siento en esto» (CC 2,5). Más adelante, escribirá una carta a su hermano Lorenzo compartiéndole sus sufrimientos por algunas noticias que recibe sobre las conquistas americanas: «Me lastima ver tantas almas perdidas, y esos indios no me cuestan poco. El Señor los dé luz, que acá y allá hay mucha desventura. Como me hablan muchas personas, no sé muchas veces qué decir, sino que somos peores que bestias» (Cta 24,20).

Mujer inquieta y andariega

Teresa gozaba de la paz en su conventico de S. José: «Estaba deleitándome entre almas tan santas y limpias, adonde todo su cuidado era únicamente servir y alabar a nuestro Señor» (F 1,2). Muchas jóvenes le pedían entrar en él, pero ella no estaba dispuesta a aceptar más de las 13 que ya convivían allí, porque conocía por experiencia los peligros de los monasterios numerosos. Quería hacer algo por estas mujeres buenas que pretendían unirse a ella, aunque no sabía qué, ni tampoco encontraba un lugar apropiado al que enviarlas. Además, crecían en ella las ansias de hacer algo por los demás, aunque era consciente de que a las mujeres de su época les estaba prohibido realizar ningún apostolado: «Considerando yo el gran valor de las hermanas y el ánimo que Dios las daba para servirle, muchas veces me parecía que las riquezas que ponía en ellas eran para algún gran fin. Con el pasar del tiempo, crecían mis deseos de hacer algo por el bien de las almas. Muchas veces me sentía como quien tiene un gran tesoro guardado y quiere que todos gocen de él y le atan las manos para que no lo distribuya» (F 1,6).

Ella sabe que su propuesta de vida es buena para la Iglesia, se siente poseedora de un gran tesoro que querría compartir con todo el mundo, pero también es consciente de que su condición de mujer le cerraba las puertas a cualquier posibilidad de poner en práctica sus grandes deseos. Con una expresión muy significativa dice que es como si le ataran las manos. Como ya hemos visto, esa era la triste situación de las mujeres en la sociedad de su época y las cosas no eran muy diferentes en el seno de la Iglesia. La única vocación femenina que se aceptaba era la de monja de clausura y a las consagradas no se les permitía realizar ninguna labor a favor de sus semejantes.

No encontrando comprensión entre los hombres, dirige su oración al cielo: «Suplicaba a Dios que se ofreciese medio para que yo pudiera hacer algo para ganar algún alma para su servicio. Tenía gran envidia de los que pueden ocuparse en esto por amor de nuestro Señor, ya que, cuando leo en las vidas de los Santos que convirtieron almas, me produce más devoción y ternura y envidia que todos los martirios que padecen» (F 1,7). Ella deseaba trabajar para dar a conocer a Cristo, anunciar su evangelio, sembrar su amor en los corazones y sentía envidia de los misioneros, de los sacerdotes, de los que podían anunciar públicamente la fe.

Por entonces, «andando yo con esta pena tan grande, una noche, estando en oración, se me representó el Señor de la manera que acostumbra, y mostrándome mucho amor, como para consolarme, me dijo: “Espera un poco, hija, y verás grandes cosas”» (F 1,8). Teresa comenta que estas palabras se le quedaron grabadas en el corazón y que no las podía apartar de sí, aunque no atinaba a pensar qué podían significar. Sabía que se cumplirían, pero no podía adivinar la manera. El enigma tardó algunos meses en aclararse.

Mientras tanto, el Concilio de Trento en sus últimas sesiones había redactado los decretos para la reforma de los clérigos y de los religiosos. En 1567, Pío V, recién elegido Papa, urge a que se pongan en práctica. Ese mismo año llega desde Italia, en visita pastoral, el general de la Orden, el P. Juan Bautista Rossi (o Rubeo, en la versión latinizada del apellido que usa siempre Teresa), «algo que no había sucedido antes, porque el general siempre se está en Roma», cuenta ella.

Aunque ella recibe la noticia con miedo, porque el general podía deshacer su obra, encontró en él comprensión y apoyo. Además, le dio permiso para fundar «tantos monasterios como cabellos tiene en la cabeza». Así inicia una labor hercúlea que la lleva a fundar 17 monasterios de monjas y 15 de frailes en 15 años entre grandes dificultades y contradicciones.

Para comprender lo que esto significó, recordemos que las vías de comunicación seguían siendo las antiguas calzadas romanas, muy deterioradas después de 1500 años de uso sin reparaciones ni mantenimiento. Los caminos eran pistas polvorientas en verano, que se convertían en barrizales impracticables durante el invierno. Los puentes para franquear los ríos eran casi inexistentes, por lo que se cruzaban en barcazas (que tampoco eran abundantes). Las posadas eran poco numerosas y todos los relatos de la época coinciden en subrayar su incomodidad, al tratarse de lugares sucios, poco ventilados, sin camas, llenas de chinches y pulgas entre la paja. Por eso Teresa y sus acompañantes durmieron ordinariamente en el suelo de las iglesias del camino y solo hicieron uso de las posadas cuando no quedaba otra posibilidad. Además, tampoco tenían servicio de comida (contra lo que aparece en las películas pseudohistóricas que recrean la época).

La misma Santa relata las dificultades para encontrar provisiones en los caminos. En su viaje de Beas a Sevilla, por ejemplo, algunos días no encontraron ningún alimento que comprar a los posaderos ni a los campesinos y en el postrero de Burgos a Alba de Tormes consiguieron únicamente unos higos secos. María de san José dejó testimonio escrito sobre el argumento: «Muchos días solo podíamos conseguir unas habas, o un poco de pan, o algunas cerezas, o cosa así; y cuando hallábamos un huevo para nuestra Madre, era gran cosa».

Pero la dificultad principal la encontró, al igual que para escribir, en su condición femenina. Hasta entonces, todos los monasterios y Órdenes religiosas habían sido fundadas por hombres: san Benito de Nursia fundó las benedictinas, santo Domingo de Guzmán las dominicas, san Francisco de Asís las clarisas. Incluso en el caso de mujeres que tuvieron los bienes necesarios para erigir un monasterio o un hospital en el que retirarse a servir a los enfermos (como las reinas santa Isabel de Portugal y santa Isabel de Hungría después de quedarse viudas), encargaron a varones que realizaran los trámites necesarios. Pero Teresa negocia directamente con las autoridades, establece acuerdos con los bienhechores, compra casas, dirige obras… lo que provoca la reacción de los que no estaban dispuestos a permitir que una mujer actuase sin someterse al criterio de los varones. Ella misma lo reconoce así al reflexionar sobre las oposiciones que encontraba: «Todos estaban espantados de tal atrevimiento, que una mujercilla, contra su voluntad, les hiciese un monasterio» (F 15,11).

La mayoría de los que la trataban personalmente terminaban siendo amigos suyos y apoyando su obra. Pero ella era consciente de que muchas personas influyentes no aceptaban que una monja andase fuera de su convento, fundando y escribiendo con una libertad que en aquella sociedad estaba vetada a las mujeres, por lo que no deja de moverse buscando apoyos: «Me alegra que vuestra señoría haya tenido ocasión de hablar a favor de mis salidas. Cierto, es una de las cosas que más me cansan en la vida y que mayor trabajo es para mí; especialmente ver que se tiene por malo [...]. Cuando veo lo que se sirve el Señor en estas casas, todo se me hace poco» (Cta 76,10).

Como casi todos le insistían en que las mujeres deben someterse a los hombres, en cierto momento le entran escrúpulos sobre su obra. Especialmente, porque sus superiores (confesores, provinciales, obispos) son los representantes de Dios y parecen los más opuestos a su obra. Casi todo el mundo conoce que el nuncio la calificó como «fémina inquieta y andariega, desobediente y contumaz, que a título de devoción inventa malas doctrinas, andando fuera de clausura, contra la orden del Concilio Tridentino y de los prelados, enseñando como maestra contra lo que san Pablo enseñó mandando que las mujeres no enseñasen». En cierto momento, incluso el papa san Pío V escribió una carta al obispo de Ávila en la que le pidió que ya no permitiera a la Madre Teresa abandonar su convento para fundar otros ni para visitar los ya fundados.

Para una mujer honesta y siempre buscadora de la verdad, la pregunta surgió espontánea: ¿Se engañó a sí misma durante tanto tiempo? ¿Se engañaron también tantos consejeros a los que había pedido luz en esos años? Fue Cristo mismo quien la consoló, tal como ella misma confiesa: «Estando pensando si tenían razón los que les parecía mal que yo saliese a fundar y que yo estaría mejor empleándome siempre en oración, entendí: “Mientras se vive, no está la ganancia en procurar gozarme más, sino en hacer mi voluntad”. Parecíame a mí que, pues san Pablo manda el encerramiento de las mujeres (que me lo han recordado hace poco, pero ya antes me lo habían dicho), que esta sería la voluntad de Dios. Él me dijo: “Diles que no se sigan por una sola parte de la Escritura, que miren otras, y que si por ventura podrán atarme las manos”» (CC 16). Así que, con la ayuda del Señor y con mucha imaginación y tenacia, perseveró sorteando todos los obstáculos para realizar su obra.

El desenlace de su aventura

Hasta en el morir fue original. Lo hizo el 4 de Octubre de 1582, a los 67 años de edad. Los testigos presenciales recogen dos expresiones suyas profundamente significativas. Por un lado, afirmó: «Muero, al fin, hija de la Iglesia», que es como un grito reivindicativo. Aunque vivió siempre bajo sospecha y muchas veces amenazada, sus enemigos no consiguieron expulsarla de la comunidad cristiana. Por otro lado, dirigiéndose a Jesús, exclamó antes de fallecer: «Es tiempo de caminar». Muchos la querían encerrada e inactiva, pero ella había recorrido los caminos al servicio de Cristo y de los hermanos y pensaba seguir haciéndolo después de muerta.

El día de su fallecimiento se reformó el calendario. Hasta entonces se usaba el «Juliano», instituido por Julio César en el año 46 a.C., que constaba de 12 meses de 30 días cada uno, con cinco días de menos al año y uno bisiesto cada cuatrienio. El emperador Aureliano lo reajustó el año 270 d.C., pero tenía el inconveniente de que se perdían algunas horas cada año. El Papa Gregorio XIII ordenó que se empezara a utilizar una nueva manera de contar el tiempo: el calendario «Gregoriano», que sigue vigente hasta el presente. Para arreglar el desfase, se eliminaron 11 días del calendario, por lo que santa Teresa se murió en la noche del 4 al 15 de octubre de 1582.

Ya hemos dicho que sus obras fueron rápidamente editadas y traducidas a otros idiomas. También sus hijas se extendieron rápidamente por toda la geografía española y se hicieron presentes en Portugal, Francia, Países Bajos, Inglaterra… estando hoy esparcidas por el mundo entero.

Hago mías las palabras de fray Luis de León en el prólogo de la edición príncipe de las obras de santa Teresa (año 1589): «Yo no conocí, ni vi a la madre Teresa de Jesús mientras estuvo en la tierra, pero ahora, que vive en el cielo, la conozco y veo casi siempre en dos imágenes vivas que nos dejó de sí, que son sus hijas y sus libros». Hoy, como entonces, quien quiera conocer el verdadero espíritu de esta mujer tiene dos caminos: la lectura de sus obras y el trato con sus hijas.

6.      La experiencia orante de Santa Teresa

Santa Teresa es maestra de oración en la Iglesia. Su doctrina es tan profunda y convincente porque la ha vivido antes de escribirla. De hecho, repite muchas veces que solo escribe lo que ha experimentado. En este sentido, todos sus libros son autobiográficos. En ellos expone su camino de oración y lo propone para los que quieran escucharla.

Infancia y juventud

Teresa recuerda que su madre tenía mucho cuidado de enseñar a rezar a sus hijos y de transmitirles su devoción a la Virgen y a algunos Santos (V 1,1). Con un hermano de su edad, se entretenía en leer vidas de Santos, a los que querían imitar. Ya a la edad de «seis o siete años» gustaba meditar en que la gloria del cielo y las penas del infierno son para siempre (V 1,4). Con su hermano jugaba a que eran ermitaños (V 1,5) y con otras niñas de su edad a que eran monjas (V 1,6). Añade que «Procuraba soledad para rezar mis devociones, que eran muchas, en especial el rosario» (Ib.). Por eso, cuando quedó huérfana a los 13 años, acudió de manera espontánea a María, pidiéndole que fuera su Madre (V 1,7).

A los 16 años la internan en un monasterio, donde jóvenes de su condición recibían formación hasta el momento del matrimonio (V 1,6). Allí lleva una vida de piedad, acompasada por el rezo de muchas oraciones vocales (V 2,2). Lo abandona por causa de una enfermedad y, mientras va a curarse a casa de su hermana, se detiene en el camino en casa de su tío Pedro. Este dedicaba su tiempo a la lectura de buenos libros religiosos y, más tarde, se haría monje. Regala a su sobrina las Cartas de san Jerónimo, que hablan mucho de la oración (la 3ª parte se titula Sobre el estado eremítico o vida contemplativa). Su compañía lleva a Teresa a recordar sus meditaciones de niña sobre lo rápido que pasa todo y que cielo e infierno son para siempre. Así decide hacerse monja (V 3,5).

El descubrimiento de la meditación

En el noviciado del monasterio de la Encarnación de Ávila encuentra un buen clima orante. De hecho, la Regla del Carmelo invita a «permanecer día y noche en oración, meditando la Palabra de Dios y velando en oración» (Regla 8). Las Constituciones del monasterio mandaban que «con mucha diligencia trabajen las novicias en estudiar y aprender a cantar los salmos y el Oficio Divino y sean enseñadas en todas las rúbricas» (BMC 9,494). Aunque ella no sabía latín, el rezo de los Salmos y del Oficio Divino va a ocupar muchas horas de su vida a partir de ese momento. Quizás por entonces tiene su primer encuentro con los evangelios traducidos al español, ya que afirmará: «Siempre he sido muy aficionada y me han recogido más las palabras de los evangelios que otros libros» (C 21,4).

Tres años después abandona temporalmente el monasterio, a causa de otra enfermedad. De camino a casa de su hermana, su tío le volvió a proporcionar buenos libros. En primer lugar, el Comentario al libro de Job, de san Gregorio Magno, en el que encontró un buen modelo de oración bíblica: Job habla con Dios, en medio de su enfermedad, exponiéndole sus sufrimientos y dirigiéndose a Él con sus propias palabras. También el Tercer Abecedario, de Francisco de Osuna, que será fundamental en su vida, ya que le abrió el camino de la oración mental. Le fascinó lo que allí encontró desde la primera página: «La amistad y comunicación de Dios es posible en esta vida, más estrecha y segura que jamás fue entre hermanos ni entre madre e hijo». Ella comenta que, hasta entonces, «no sabía cómo proceder en la oración ni cómo recogerme. Por eso, me alegré mucho con ese libro y me determiné a seguir  camino con todas mis fuerzas» (V 4,7).

Comienza a practicar lo que después llamará «primer grado de la oración», que consiste en meditar en la vida de Cristo y en el conocimiento propio. Le ayuda la lectura de buenos libros, fijar su mirada en imágenes del Señor y la contemplación de la naturaleza, en la que ve una huella del Creador. En los tres años que permanece en la enfermería del monasterio, dedica mucho tiempo a la oración y a enseñar a orar a otras, que admiran su paciencia y su alegría (V 6,4). Su mismo padre se convierte en discípulo suyo.

La oración tentada

Hacia los 27 años se recupera de su postración (V 6,8). Lo milagroso de su curación, la profundidad de sus palabras y su simpatía natural hicieron que muchos acudieran a hablar con ella en el locutorio del monasterio y a consultarle sus asuntos. Las conversaciones se alargaban, derivando en temas intrascendentes, convirtiéndose en meros pasatiempos. Como esto revertía en limosnas para el convento, tan necesitado, a todos les parecía bien. Aquí introdujo el demonio la mayor tentación de toda su vida, disfrazada de humildad. Teresa se sintió indigna de acercarse a la oración, convencida de que solo las personas perfectas son dignas de tratar con Dios y viéndose a sí misma tan imperfecta: «comencé a tener miedo de tener oración mental» (V 7,1). Ella quería sinceramente clarificar sus dudas, pero no encontraba con quién. La ocasión llegó con motivo de la enfermedad y muerte de su padre. Mientras lo cuidaba, tuvo ocasión de hablar con su confesor, que la animó a comulgar a menudo y a recuperar la oración (V 7,17).

A partir de ese momento se propuso practicar todos los días, por lo menos, una hora de oración silenciosa. De regreso al monasterio, su vida cotidiana se repartía entre los rezos comunitarios, la lectura espiritual, la oración personal, el cuidado de las enfermas y la atención en el locutorio a cuantos la visitaban. Muchos la consideran una religiosa ejemplar. Pero ella no estaba contenta, porque se sentía dividida: «Por una parte me llamaba Dios, por otra yo seguía al mundo. Me daban gran contento todas las cosas de Dios, pero me tenían atada las del mundo. Me parece que quería compaginar estos dos contrarios» (V 7,17).

Cuando escribe sus recuerdos, en la cima de su vida espiritual, considera todo el tiempo perdido como una traición al amor de Dios. Como recibió tantas gracias de Él, se sentía más obligada a vivir en su amistad, entregándose sin reservas. Sintiéndose tan imperfecta, le humillaban las gracias que el Señor le concedía: «Con grandes regalos castigabais mis delitos» (V 7,19). En esta tensión se mantuvo durante 10 años, hasta que Dios la venció totalmente.

La conversión

Ante una imagen de Cristo muy llagado, se determinó a entregarse por completo en sus manos, haciendo siempre y en todo la voluntad de Dios (V 9,1). Exclamará: «Antes me cansé yo de ofenderle que Él de perdonarme» (V 19,17). Teresa contaba 39 años y se dispone a comenzar una nueva etapa de su existencia, la más original y fecunda. Se acabó el tiempo de construir su vida sobre lo que los demás puedan pensar de ella, sobre el afecto en las criaturas, sobre las ocupaciones y actividades exteriores (por muy buenas y religiosas que sean). Desde ese momento, la oración será la columna vertebral de su existencia.

Es importante tener presente que, para Teresa y sus contemporáneos, la oración no es solo una actividad del alma, sino una manera de ser, una opción de vida que conlleva introspección, búsqueda de una relación personal con Dios y una manera de situarse ante el mundo, viviendo a la luz del evangelio. Hoy lo llamamos «espiritualidad». Lo vemos en san Ignacio: «Por Ejercicios Espirituales se entiende todo modo de examinar la conciencia, de meditar, de orar vocal y mentalmente y de otras actividades [...] para quitar de sí todas las afecciones desordenadas y buscar la voluntad divina» (Primera anotación de los Ejercicios). Esto era la «oración» en el s. XVI.

Este tema es tan importante que, cuando santa Teresa cuenta su historia, se siente obligada a hacer un gran paréntesis de 12 capítulos (V 11-22), para introducir unas reflexiones sobre la oración, que nos ayuden a comprender lo que viene después. Especialmente, subraya la dimensión relacional de la oración, que no consiste en repetir fórmulas. Es una relación de amistad con Dios, que brota del sabernos queridos y aceptados por Él y que conlleva una verdadera transformación de la propia existencia, teniendo a Cristo por modelo: «A mi parecer, la oración mental no es otra cosa que tratar de amistad, estando muchas veces tratando a solas con quien sabemos que nos ama» (V 8,5). Al retomar el relato de su vida, dirá: «Es otro libro nuevo de aquí adelante, digo otra vida nueva» (V 23,1).

La oración afectiva

Desde que inició la práctica de la oración, Teresa comenzaba meditando alguna página del evangelio o de otro libro espiritual. En la meditación, ella se «representaba» una escena de la vida de Cristo y reflexionaba sobre sus enseñanzas: «Yo tenía este modo de oración: procuraba representar a Cristo dentro de mí […] y estaba con Él lo más que me dejaban mis pensamientos» (V 8,4).

En cierto momento, comienza a percibir la presencia misteriosa, pero real, del Señor a su lado, sin que ella haga nada para provocarlo. Es la entrada en la oración mística: «Me venía a deshora un sentimiento de la presencia de Dios, que en ninguna manera podía dudar de que estaba Él dentro de mí y yo toda envuelta en Él» (V 10,1). Esto le producía asombro y gozo. Sus confesores creen que el diablo la engaña, pero ella no puede dudar de que quien la visita es Dios, porque se siente cada día más firme en la fe y en la esperanza, más generosa en la práctica de la caridad y más desasida de todo.

En su oración, los pensamientos y meditaciones van a ocupar cada vez menos tiempo. Por el contrario, lo decisivo será el afecto, la voluntad. Se siente en presencia de Cristo, al que mira amorosamente y del que se deja mirar, al que habla, sin importarle las palabras que usa, como con un amigo, con un hermano, con un esposo. Eso mismo recomienda a sus lectores: «No os pido que penséis, ni que saquéis muchos conceptos, ni que hagáis grandes y delicadas consideraciones con el entendimiento. Solo os pido que le miréis […] Si estás alegre, mírale resucitado […] Si estás triste, mírale camino del huerto […] o atado a la columna […] o cargado con la cruz […] Y Él te mirará con unos ojos tan hermosos y olvidará sus dolores para consolar los tuyos […] Y habla muchas veces con Él. Si hablas con otras personas, ¿por qué te habrían de faltar las palabras para hablar con Él» (C 26,3-9). Efectivamente, Teresa ha descubierto que «aquí no está la cosa en pensar mucho, sino en amar mucho. Así, lo que más os mueva a amar, eso haced» (4M 1,7).

La plenitud contemplativa

Desde que empezó a practicar esta oración afectiva (ella la llama oración de recogimiento), se multiplicaron las gracias místicas: hablas interiores, visiones, éxtasis, heridas de amor en el corazón. A diferencia de la meditación, que es discursiva y se realiza con el esfuerzo del entendimiento, esta oración es intuitiva y se recibe como un don gratuito. Al principio se asustó. No encontraba las palabras adecuadas para explicar lo que le pasaba. En busca de luz para comprenderlo, empieza a ponerlo por escrito. Sus primeros consejeros no la entendían. Querían «explicaciones» comprensibles y Teresa solo podía ofrecerles un «testimonio» de cómo este encuentro la transformaba.

Ella sabía que sus experiencias no eran resultado de su obrar, sino que venían de Dios, por los efectos que producían: verdadera humildad, libertad interior, desasimiento de todo lo criado, fortaleza en el sufrimiento, amor desinteresado. San Francisco de Borja, san Pedro de Alcántara y san Juan de Ávila la confirmaron en que venían de Dios. Con tan buenos apoyos, desaparecieron sus miedos y todo se convirtió en oración: «cesaron mis males y el Señor me dio fuerza para salir de ellos […]. Todo me servía para conocer más a Dios y amarle y ver lo que le debía y pesarme de la que había sido» (V 21,10).

Teresa se sentía totalmente identificada con Cristo y sus sentimientos. De su unión con Él brotó su amor apasionado por la Iglesia y la fortaleza necesaria para trabajar por la causa de Cristo sin hacer caso de opiniones contrarias. Al mismo tiempo que alcanzó las más altas cimas de la mística, se convirtió en «andariega» de Dios, fundadora de monasterios, maestra de oración y escritora de libros de espiritualidad. En ella, Marta y María caminaron indisolublemente unidas, ya que «para este fin hace el Señor tantas mercedes en este mundo» (7M 4,4). Quiera el Señor que, siguiendo el ejemplo de Santa Teresa, nuestra oración nos mueva a entregarnos totalmente al servicio de Cristo y a dejarle actuar en nosotros.

7.      Enseñanzas sobre la oración

Los escritos de santa Teresa han servido de estímulo y alimento para la vida espiritual de varias generaciones cristianas. Como ya hemos dicho, cuando narra la historia de su vida, en cierto momento tiene que interrumpirla e introducir un tratadillo de oración, porque si no lo hace, no se puede entender lo que viene a continuación. Tomando enseñanzas de esas páginas y de sus demás escritos, ofrezco una carta que ella no escribió, pero que está compuesta a partir de textos suyos, por lo que perfectamente la podemos leer como dirigida por ella a cada uno de nosotros, con su estilo directo e interpelante. Comenzamos como hace ella en su epistolario:

Jesús. El Espíritu Santo sea con vuestra merced.

 La necesidad de la oración

Hallándome yo en este Palomarcico de la Virgen, a mi noticia ha venido su interés en las cosas del espíritu, de lo que he recibido mucho contento. Y ya que tanto me ha importunado para que le escriba algo de lo que yo entiendo sobre asuntos de oración, pongo aquí por seguido algunas de las cosas que tengo escritas en otros lugares, con la confianza de que quien lo leyere se aproveche para amar un poco más a Nuestro Señor, a quien sea la gloria por los siglos. Amén.

Pues hablando de los que comienzan a ser siervos del amor (que no me parece otra cosa el determinarse a seguir al que tanto nos amó por el camino de la oración), es una dignidad tan grande, que me regalo mucho de pensar que podemos tener un trato íntimo con Dios, que se rebaja de buena gana a tratar con sus siervos. Bien veo que no hay con qué se pueda comprar tan gran bien en la tierra, ya que consiste en tratar nada menos que con Dios, que quiere comunicarse en este destierro con sus criaturas para hacerlas grandes mercedes. Si hacemos lo que podemos en disponernos para acoger los bienes que Él quiere regalarnos en la oración, su Majestad nos abrirá los tesoros de su corazón, porque no se niega Él a nadie que le busque con corazón sincero.

Le diré que la oración me parece tan necesaria, que pienso que quien no la tiene es como un cuerpo tullido, que aunque tenga pies y manos, no los puede mandar. Y así son nuestras almas, creadas por Dios con grandes posibilidades y dones, que solo se descubren y ponen en práctica en el encuentro amoroso con Aquel que las creó con infinita misericordia. Considero yo que es nuestra alma como un castillo, todo de diamante o muy claro cristal, en el que hay muchos aposentos, así como en el cielo hay muchas moradas. En el centro y mitad de todas ellas está la principal, que es adonde pasan las cosas de mucho secreto entre Dios y el alma. No hallo yo cosa mejor con qué comparar la gran hermosura del alma y sus grandes capacidades. Baste pensar que su Majestad dice que nos hizo a su propia imagen y semejanza, para sospechar algo de nuestra riqueza interior. A cuanto yo puedo entender, la única puerta para entrar en este castillo es la oración.

Yo veo mi alma tan aprovechada y rica en virtudes desde que tengo oración, que es como si me regalaran con numerosas joyas y manjares exquisitos. Pienso que hemos de ser muy bobos si no abrimos nuestros corazones a este gran Señor para que Él los llene, que es como si estuviéramos junto a la fuente y, por no hacer el esfuerzo de llevarnos el agua a la boca, nos muriésemos de sed. Pues, ¿qué no dará a sus amigos quien es tan amigo de dar y puede dar cuanto quiera? Él, que ha dado su vida por nosotros, por fuerza ha de seguir dándonos todo lo que necesitamos para crecer en su amor, si se lo pedimos con confianza. En el nombre de Nuestro Señor pido a quien no tiene oración que no se prive de tanto bien como su Majestad quiere regalarnos en ella.

Al mismo tiempo, debo decirle que cuando yo no tenía oración, no vivía, sino que peleaba con una sombra de muerte. Ahora me espanto cómo pude llamar vida a vivir sin ella. Dios me perdonará que, por mi ignorancia, no sabía yo apreciar tan gran bien. O quizás fuera el orgullo, que nos hace creer que nos bastamos a nosotros mismos y que sabemos todo lo que necesitamos saber y que no necesitamos de un Salvador, al fin y al cabo, porque no lo buscamos.

De lo que yo tengo por experiencia puedo decir; y es que, por males que haga quien ha comenzado la oración, no la deje, pues es el medio por donde puede remediarse y sin ella será mucho más dificultoso. Y quien no la ha comenzado, por amor del Señor le ruego yo que no carezca de tanto bien. No hay aquí que temer, sino que desear, que nadie tomó a Dios por amigo que no fuese correspondido por Él. Más me atrevo a decir: que es Dios quien nos ha amado primero, y nos busca y nos llama a grandes gritos, y está deseando manifestarse a nosotros… y solo nos pide que nos dispongamos en la oración para poder regalarnos.

 Qué es la oración

En cuanto a saber decir qué es la oración, no es otra cosa, a mi parecer, sino tratar de amistad, estando muchas veces tratando a solas con quien sabemos que nos ama. Cuando el alma ora, tiene amorosa conversación nada menos que con Dios, por lo que es bueno que advierta y considere mucho con quién está y quién es ella y qué es lo que dice, porque si no es así, no lo llamo yo oración, por mucho que menee los labios. No basta con recitar fórmulas aprendidas, como hacen esos pájaros que repiten lo que escuchan, pero sin entender lo que dicen.

No crea que le han de faltar palabras para hablar con Jesús. Al menos, yo no le creeré, que basta tratarle como Amigo y Compañero y Hermano, valiente Capitán, siempre cercano a los suyos en la pelea. No es nada delicado mi Señor, ni mira en menudencias. Muchas veces gusta más su Majestad de la humildad de una pobre labradorcilla que si más supiese más dijese, que de muy elegantes razonamientos. No son tan importantes las cosas que le decimos como el caer en la cuenta de que estamos tratando con Dios mismo, que nos acoge en su compañía y nos hace miembros de su familia. En nuestra relación con Él, no está la cosa en pensar mucho, sino en amar mucho. Así, lo que más os despertare a amar, eso haced. No necesitamos de palabras rebuscadas ni de elegantes razonamientos, sino que hemos de hablar al corazón de nuestro Esposo con humildad y sencillez.

Cierto, no necesita el alma condiciones especiales para tratar con Dios en la oración, ni fuerzas corporales; pues, ¿quién no puede echar unas pajillas en el fuego cuando ve que va a apagarse? No creo yo que sea mayor el esfuerzo de estarse en amorosa compañía con quien tantas muestras de amor nos ha dado. Él nos acoge, a pesar de nuestra baja condición, con tal de que ese rato le queramos dar entero el corazón. Y, pues todo lo sufre y sufrirá por hallar un alma que quiera estarse con Él y tratarlo con amor, sea esa la nuestra. Es verdad que, para que sea verdadero el amor, han de encontrarse las condiciones y han de igualarse los amantes. La condición del Señor ya sabéis que no puede fallar, que nos ama como Dios. La nuestra es ser ruines y miserables.

Por mucho que lo considero, no puedo yo entender que un Dios tan grande venga a tratarse con unos gusanillos malolientes. Me espanta la humildad de este gran Emperador, que ama a una como yo y me acoge en su compañía, haciéndome de los de su casa. Señor mío y Dios mío, ¡qué grandes son vuestras grandezas!, y andamos acá como unos pastorcillos bobos, que nos parece entendemos algo de vos, y debe ser tanto como nonada. Si me espanta mirar vuestra majestad, más me espanta, Señor mío, mirar vuestra humildad y vuestro amor, que en todo podemos tratar con vos como queremos, sin necesidad de que otros nos presenten o nos introduzcan. Vos mismo descendéis a cosa tan pequeña como nuestra alma, y nos ensancháis y engrandecéis poco a poco, conforme a lo que es menester para lo que queréis poner en nosotros

Los fundamentos de la oración

Quizás pensará que al hablarle de oración yo le enseñaré cómo debe sentarse o respirar, cuánto tiempo debe dedicar a su ejercicio y cómo dividirlo para ocuparlo bien. No es esa mi intención. Mejor le hablaré de los que yo considero que son los cimientos sobre los que se ha de levantar el edificio de la oración: el amor de unos con otros, el desasimiento de todo lo criado y la humildad (que, aunque la digo a la postre, es la principal). Que, si estos fallan, se vendrá abajo todo el edificio. Por eso, para que nuestra oración sea auténtica, hemos de acompañarla con la práctica de estas virtudes grandes.

En cuanto al amor, ya saben que los que más han hecho por los prójimos siempre han sido los grandes amadores de Dios, y todo lo demás es humo de pajas, que dura un momento, como se suele decir. Y, para unirnos con Dios, que es el mismo Amor, claro se ve que ha de ser caminando en el amor, como nos enseñó su Divino Hijo. Es importante caer en la cuenta de que su amor nos precede y acompaña siempre, ya que amor saca amor. Aprenderemos a amar a los hermanos si ponemos nuestra mirada en el que nos amó hasta el extremo de dar su vida por nosotros y nos pidió que aprendamos de su ejemplo.

Por lo que se refiere al necesario desasimiento, paréceme es claro cómo hemos de desembarazarnos de todo lo que no es Dios para llegarnos a Él. Si los quereres y las cosas ocupan nuestros pensamientos y nuestras fuerzas, ¿cómo diremos que amamos al Señor por encima de todo?

Decíale que es igualmente necesaria la humildad, que no es otra cosa sino andar en la verdad; esto es: conocernos, descubrir que no estamos huecos, sino que Dios mismo nos habita, y comprender que estamos llamados a unirnos con Él y que, aunque con nuestras solas fuerzas no somos capaces, podemos disponernos para que Él obre en nosotros. Pidámosle confiadamente su luz, que Él no se niega a nadie.

El conocimiento de sí

No le extrañe si le digo que esto del conocimiento propio es esencial. Y no solo en los inicios, sino en cada momento, que es el pan con el que hemos de acompañar todos los manjares. Y es que muchas veces no nos conocemos a nosotros mismos ni sabemos las grandes capacidades que Dios ha colocado en nosotros. Pues entonces, ¿cómo podremos desarrollarlas y ponerlas en práctica?

Vuelvo a repetir la comparación de la que he hablado antes, porque no encuentro otra mejor: Pensemos que nuestra alma es un castillo de cristal en el que hay muchas moradas y en el centro de ellas está la principal, en la que vive Dios. De ahí le viene su hermosura, su riqueza y sus grandes capacidades. Para poder desarrollarlas, hemos de conocerlas primero.

Y no es pequeña lástima y confusión que –por nuestra culpa– no nos entendamos a nosotros mismos ni sepamos quiénes somos. ¿No sería gran ignorancia que preguntasen a uno quién es y no se conociese ni supiese quién fue su padre ni su madre ni de qué tierra? Pues si esto sería gran bestialidad, sin comparación es mayor la que hay en nosotros cuando no procuramos saber qué cosa somos, sino que nos detenemos en estos cuerpos y así, a bulto, sabemos que tenemos almas solo porque lo hemos oído y porque nos lo dice la fe. Mas qué bienes puede haber en esta alma o quién está dentro de ella o su gran valor, pocas veces lo consideramos.

Por eso, lo primero que hemos de hacer al orar es tomar conciencia de la grandeza y dignidad de nuestra alma, de sus inmensas capacidades, para hacerlas fructificar con la ayuda del Señor y así no quedarnos enanos.

Las distracciones en la oración

Quiero recordarle una vez más que la verdad de nuestra oración no se manifiesta en qué pensamos o sentimos, sino en cuánto amamos; por eso siempre debemos ocuparnos en lo que más nos despierte a amar. Quizá no sabemos qué es amar, y no me sorprenderá mucho; porque el amor no está en el mayor gusto, sino en la mayor determinación de desear contentar en todo a Dios y en procurar no ofenderle en cuanto pudiéremos, y en rogarle que vaya siempre adelante la honra y gloria de su Hijo y el aumento de la Iglesia Católica. Estas son las señales del amor, y no penséis que lo importante es no pensar en otra cosa, ni que va todo perdido cuando en la oración se os va un poco el pensamiento.

Yo he sufrido mucho a causa de esto, porque me decían que mi oración no era auténtica si tenía distracciones. Pero he visto por experiencia que estas solo desaparecen en las últimas moradas, cuando el Señor las hace cesar. Por eso no hay que darles demasiada importancia ni permitir que nos quiten la paz. Tampoco hemos de dejar la oración cuando no podemos controlar los pensamientos. La solución es llevarlos con paciencia, ya que provienen de la debilidad de nuestra naturaleza humana, herida por el pecado. Como los pensamientos de la imaginación son cosa de nuestra pobre naturaleza, no deben inquietarnos ni afligirnos cuando no podemos controlarlos. Lo importante es perseverar buscando contentar en todo al Señor, aun con nuestras flaquezas.

 Los grados de la oración

La oración es un arte, en el que podemos perfeccionarnos durante toda la vida. No piense que ha de practicarse siempre a la misma manera. Para explicarme mejor, voy a hacer uso de una comparación: El que comienza a orar ha de hacer cuenta que es como el que quiere plantar un huerto en una tierra abandonada, llena de piedras y malas hierbas. Con ayuda de Dios hemos de procurar, como buenos hortelanos, quitar las piedras y malas hierbas del corazón, que son nuestros pecados, y plantar las buenas, que son las virtudes. Hemos de procurar que crezcan estas plantas, y tener cuidado de regarlas, para que no se pierdan, sino que vengan a echar flores que den buen olor, para que este Señor nuestro venga a deleitarse muchas veces a nuestro jardín y se encuentre allí a gusto.

Los que comienzan a tener oración son como los que sacan agua de un pozo, que es algo trabajoso y el resultado bien pequeño. Es verdad que les cuesta mucho recoger los sentidos, que como están acostumbrados a andar desparramados y llenos de ruidos, es harto trabajo. Han menester irse acostumbrando a estar en silencio interior y exterior, leyendo en buenos libros y discurriendo con su entendimiento en lo que leen, meditando en la vida de Cristo, y en el conocimiento de sí mismos, y en los misterios de nuestra santa religión. Hay muchos libros para esto, que presentan meditaciones para cada día de la semana y pueden ayudar mucho en los inicios.

La segunda manera de regar el huerto es sirviéndose de una noria, con su torno y arcaduces, que se saca más agua con menos trabajos (recuerdo que en la casa de mi padre había una de esas). A este modo llamo yo «oración de quietud», en que comienzan a recogerse las potencias del alma dentro de sí. Hay que procurar tener a Cristo, nuestro bien, siempre presente, acostumbrándose a no se le dar nada de ver u oír fuera de Él. Si está triste, mírele camino de la cruz, perseguido de unos, negado de otros, helado de frío, puesto en tanta soledad, que el uno con el otro os podéis consolar. Y Él es tan bueno que olvidará sus penas para consolar las vuestras. Si está contento, mírele resucitado y gócese en su gloria. Mas no se canse en pensar mucho ni se quiebre la cabeza con muchas palabras, sino lleve la voluntad con mucha suavidad a estarse en amorosa atención y tierno afecto con su Esposo. Cuando la memoria y el entendimiento no ayudan a la voluntad a despertarse para más amar, no las haga caso y céntrese en esta atención amorosa a su Esposo en paz y sosiego, sin buscar palabras ni consideraciones que lo quieran explicar. Déjese mirar por Cristo y mírele con afecto y gratitud.

La tercera forma de regar el huerto es cuando se tiene un río o un arroyo, que se encamina el agua por los surcos y se la deja que empape la tierra con poco trabajo del hortelano. Cierto es que la corriente de agua la tiene que dar el Señor. Este tercer grado de oración es un sueño de las potencias en que se goza de Dios con mucho deleite, sin entender qué le pasa ni poderlo explicar con palabras. No me parece que esta paz y deleite y contento nazcan del propio corazón, ni de sus pensamientos, ni de lo que ha visto ni oído, sino de otra parte más interior. El contento que se siente no es como los de acá. Pienso que debe ser algo que sucede en el centro del alma, donde Dios está presente y se comunica. El alma se olvida totalmente de sí y solo desea cumplir en todo la voluntad de Dios. Bien puedo decir que se cumple lo que decía el apóstol san Pablo: que el Espíritu de Dios ora en nosotros con gemidos inefables. Es tal el gozo interior que toda ella querría ser lenguas para alabar al Señor, al que dice mil desatinos santos y amorosos.

El cuarto grado de oración es como cuando llueve sobre el campo, que la tierra se moja más y el hortelano no trabaja nada. Así, cuando Dios quiere comunicarse en esta divina unión, se goza sin entender lo que se goza, participando de la vida y del amor y de la compañía de Dios, que la levanta y la introduce en sí. Hagamos cuenta que los sentidos y las potencias (que son los habitantes del castillo) escuchan un silbo amoroso de su Rey. Un silbo tan suave que casi no lo entienden, pero produce su efecto y dejan de lado todas las cosas exteriores en que andaban ocupadas. Entonces se meten en el castillo y ocúpanse todos en lo que deben, que es en servir a su Señor, cumpliendo así el oficio para el que fueron creados. El entendimiento conoce secretos inefables de Dios y la memoria queda llena de su presencia y la voluntad se hace una con la de Cristo, de modo que puede decir como el apóstol, que ya no vive ella, sino que es Cristo quien vive en ella.

La unión de voluntades

No todos tienen gustos en la oración, que los da su Majestad a quien quiere y como quiere. Será bueno que aquellos a quienes el Señor no da cosas tan sobrenaturales no queden sin esperanza, porque –con el favor de nuestro Señor– todos podemos alcanzar muy bien la verdadera unión si nos esforzamos en procurarla, queriendo cumplir en todo la voluntad de Dios. Esa es la unión que yo he deseado toda mi vida, la que siempre pido a nuestro Señor y la que es más clara y segura.

Pero advierta que no basta con desearlo o con imaginarlo. El único camino para saber si de verdad queremos hacer en todo la voluntad de Dios está en las obras concretas que revelan que nuestro amor es verdadero, ya que el Señor solo nos pide dos cosas en las que tenemos que trabajar: amor a Dios y al prójimo. Si las cumplimos con perfección, hacemos su voluntad y estaremos unidas con Él con oración verdadera.

Esto del amor es tan importante que debemos ir practicándolo en las cosas pequeñas y no dejarlo solo para las ocasiones extraordinarias. Lo que quiere el Señor es que si ve a una enferma a la que puede dar algún alivio, no le importe perder su devoción y se compadezca de ella; y si tiene algún dolor, que se duela con ella; y si es necesario, que yo ayune para que ella coma. Esta es la verdadera unión con su voluntad, y que si veo alabar mucho a otra persona me alegres más que si me alabasen a mí.

El mayor servicio que podemos hacer al Señor es olvidar nuestro descanso para buscar el bien de los hermanos, aunque claro está que eso no es sencillo, porque contradice nuestra naturaleza. Y no piense que esto no ha de costarle algo y que se lo ha de encontrar hecho. Mire lo que costó a nuestro Esposo el amor que nos tuvo, que murió en la cruz para librarnos de la muerte.

La perseverancia

Hele cobrado muy particular afecto, que no hay para mí mayor deleite que tratar con personas que hacen oración. Dicen algunos que esta es una senda estrecha. No me lo parece a mí, sino Camino Real, que de seguro nos lleva al Reino prometido. El alma ocupada en la oración es como la abeja, que labra en la colmena la miel. Así, cuanto vuelan a Dios y se llenan de su dulzura, pueden extenderla por el mundo.

Cierto, hemos de orar en todas partes, mas es tanta nuestra flaqueza, que será bien buscar algunos ratos de soledad y llevar concertados los tiempos que dedicamos cada día al señor, y una vez comenzada la oración, no dejarla por cualquier nonada, sino perseverar hasta beber de las aguas de la vida que Nuestro Señor nos promete. Comience, pues, con una determinada determinación, dedicando cada día un poco de su tiempo a estar en presencia del que tanto nos ama. Y no deje la oración jamás, por muchas sequedades, tropiezos y distracciones que el demonio le pusiere delante; que tiempo vendrá en que se lo pague el Señor todo junto. Y, pues nada se aprende sin un poquito de esfuerzo, dé por bien empleado este, que yo le digo que, por un momento que le dé el Señor a gustar su presencia, quedan pagados todos los trabajos que en buscar oración pasare. Ponga los ojos en Cristo y en todo lo que Él ha pasado por amor a nosotros, y todo se le hará poco.

Quede vuestra merced con Dios y con la gloriosa Virgen María, Nuestra Señora. Ella no estuvo un instante de su vida sin tratar de amores con su Divino Hijo, y así ha de ser nuestra principal maestra de oración, junto con mi padre y señor san José, que tan íntimamente trató, también, a su Majestad en la tierra. Y manténgase en este camino, sin abandonar a mi Señor, que Él mismo enseña que empezar es de muchos y perseverar de pocos; y en estos tiempos recios son menester amigos fuertes de Dios.

Quedo sierva de vuestra merced. Teresa de Jesús.

8.      Conclusión

Teresa de Jesús fue una mujer profundamente contemplativa y eficazmente activa. Como decía al principio, en estas páginas he intentado acercar al lector a su riquísima personalidad desde cuatro aspectos que la caracterizan: mujer, escritora, fundadora y maestra de oración. Para que se comprenda mejor la originalidad de su propuesta, la he presentado en su contexto vital, del que toma algunos elementos y al que se enfrenta en otros.

Estoy profundamente convencido de la actualidad de sus enseñanzas, que pueden ayudar al creyente de hoy a encontrar caminos para encarnar la perenne novedad del evangelio en la sociedad y en la Iglesia de nuestros días. Creo haber ofrecido algunas claves para comprender su mensaje y confío en que la lectura de este libro mueva a muchos a acercarse a los escritos de santa Teresa. Allí descubrirán que «la grandeza de Dios no tiene término, tampoco lo tendrán sus obras» (7M 1,1). El Dios que se manifestó a Teresa como amigo y compañero sigue deseoso de comunicarse con nosotros. Siguiendo su ejemplo u su doctrina, ¡abrámosle