martedì 1 luglio 2014

Eduardo Sanz de Miguel santa Teresa di Gesù

VIDEO DI: Eduardo Sanz de Miguel santa Teresa di Gesù 

INQUIETA E VAGABONDA
Insegnamenti di santa Teresa di Gesù per i nostri giorni
P. Eduardo Sanz de Miguel, o.c.d.


In queste pagine riflettiamo sul «femminismo» di santa Teresa, sulla novità del suo messaggio per la sua epoca e sulla attualità dello stesso per i nostri giorni. In particolare, ci soffermeremo su quattro aspetti che caratterizzano Teresa di Gesù: donna, scrittrice, fondatrice e maestra d’orazione.


Contenuto







P. Eduardo Sanz de Miguel, o.c.d.
Inquieta y andariega. Enseñanzas de santa Teresa de Jesús para nuestros días

Imprimi potest. P. José Francisco Santarrufina Alcaide, Provincial de los Carmelitas Descalzos de Aragón-Valencia. Valencia (España), 20 de mayo de 2014.
Nihil Obstat. Imprimatur. Monseñor Amancio Escapa Aparicio, Obispo Auxiliar de la Arquidiócesis de Santo Domingo y Vicario General de la misma. Santo Domingo (República Dominicana), 30 de mayo de 2014.



1.      Introduzione

Stiamo celebrando il quinto centenario della nascita di santa Teresa di Gesù (1515-1582), madre spirituale del Carmelo Scalzo. Oggi la sua famiglia si estende in tutto il mondo e consta di circa 13000 monache carmelitane scalze contemplative, circa 4000 frati carmelitani scalzi, circa 60 congregazioni religiose di vita attiva e istituti secolari affiliati all’Ordine, un pò più di 40000 membri dell’Ordine secolare del Carmelo Scalzo e altre varie associazioni laicali.

Ci chiediamo chi è che, ai nostri giorni, legge ancora gli scritti dei grandi teologi contemporanei di Teresa, come Domingo de Soto, Alfonso Salmerón, Juan Arza, Francisco de Vitoria, Alfonso de Castro, Diego de Covarrubias o Melchor Cano, che tanta importanza ebbero nel concilio di Trento. Al contrario, le opere di santa Teresa continuano a essere tradotte e pubblicate in numerose lingue. Nel 2008 è stato pubblicato un volume di bibliografia teresiana che raccoglie 12647 titoli su santa Teresa, tra biografie, studi storici, letterari e teologici, materiale audiovisivo, ecc. Il cospicuo numero di queste pubblicazioni ci dà un’idea del grande interesse che questa donna continua a suscitare in tutto il mondo.

Ma, che cosa la rende così attuale da farci ancora interessare a lei dopo tanto tempo? La risposta è semplice: la sua esperienza. Teresa non teorizza su questioni più o meno importanti, slegate dalla vita concreta, ma piuttosto mira all’essenziale: condivide l’esperienza di Dio che le si manifesta nella sua storia personale e ci insegna a incontrarlo nella nostra vita e a dialogare con Lui.

Santa Teresa morì a 67 anni ad Alba de Tormes. Scrisse vari libri che sono oggi dei classici della lingua spagnola e della spiritualità cristiana, nello specifico il Libro della Vita, il Cammino di perfezione e il Castello interiore (noto anche come le Mansioni), oltre a numerose poesie, lettere e altri scritti minori. Negli ultimi quindici anni della sua vita fondò 17 monasteri di monache e 15 di frati. Dopo la sua morte, altri conventi carmelitani si moltiplicarono rapidamente nei territori della Spagna, Italia, Portogallo, Francia, Paesi Bassi, Inghilterra, così come fuori d’Europa.

Le pubblicazioni dei suoi scritti si susseguirono velocemente. Il Cammino di perfezione uscì nel 1583 ad Évora, nel 1585 a Salamanca, nel 1587 a Valenza e l’edizione principe delle sue opere nel 1588, accompagnata da una lunga lettera di presentazione di fra Luis de León. Nel 1590 uscì la prima biografía di Teresa, scritta da Francisco de Ribera. Nello stesso anno iniziò il processo di canonizzazione a Salamanca, al quale si presentarono più di 300 testimoni. Nel 1606 Diego de Yepes pubblicò una nuova biografía. E le sue opere vennero tradotte in latino e in altre lingue europee, così che la sua influenza si estese velocemente anche oltre le frontiere spagnole.

Fin da subito, re, vescovi e istituzioni di Spagna, Austria, Francia, Belgio, Polonia… si rivolsero a Roma chiedendo la canonizzazione di Teresa; benché non mancarono accuse contro i suoi scritti, che furono confutate da autori importanti. Nel 1614, papa Paolo V nel decreto della beatificazione afferma: «La sua memoria fiorisce in tutto il popolo cristiano; ragion per cui non solo detto Ordine [di carmelitani scalzi], ma anche il nostro caro figlio Filippo, re cattolico delle Spagne, e quasi tutti gli arcivescovi, vescovi, principi, corporazioni, università e sudditi dei regni spagnoli hanno innalzato a Noi spesse volte umili suppliche…». Per le celebrazioni della beatificazione vennero pubblicati incisioni, libri e poesie, con in evidenza quelle di Lope de Vega e Miguel de Cervantes. La canonizzazione ebbe luogo nel 1622 in un’unica cerimonia con sant’Isidoro agricoltore, sant’Ignazio di Loyola, san Francesco Saverio e san Filippo Neri.

Prima della sua beatificazione già si parlava della sua «dottrina eminente», motivo per cui si prese a rappresentarla nei dipinti e nelle sculture nell’atto di scrivere, a volte illuminata da raggi divini, altre dallo Spirito Santo, altre ancora con lo zucchetto e altri attributi specifici dei dottori. Anche le preghiere liturgiche assunsero espressioni tipicamente riservate ai dottori, come: «concedici di imitare ciò che fece e di realizzare ciò che insegnò… così ci alimenteremo della sua dottrina celeste… fu dotata di ammirevole grazia d’erudizione…».

Alle numerose richieste perché le fosse riconosciuto ufficialmente il titolo di dottore della Chiesa, da Roma si rispondeva sempre con il tradizionale «obstat sexus» (cioè: «lo impedisce il sesso»). Ciononostante, nel 1622, durante una cerimonia pubblica, i cattedratici dell’università di Salamanca adornarono una sua scultura con lo zucchetto e altre insegne proprie dei dottori, e il consiglio della stessa università la nominò formalmente dottore «honoris causa» in presenza dei re di Spagna nel 1922. In seguito, Paolo VI la distinse con il titolo di Dottore della Chiesa nel 1970, essendo la prima donna riconosciuta con tale titolo «in relazione alla sua conoscenza delle cose divine e al magistero che esercita con i suoi scritti». Dopo la sua proclamazione, soltanto altre tre donne hanno ricevuto lo stesso privilegio (santa Caterina da Siena, santa Teresa di Lisieux e santa Hildegarda di Bingen), il che conferma ancor più la sua originalità.

Teresa di Gesù riunisce in sé un’instancabile attività di viaggi, acquisti di case, negoziazioni per ottenere permessi… (che raccoglie nel libro delle Fondazioni e nelle sue innumerevoli lettere) e un profondo vissuto interiore che sfocia in una mistica ardente (riflesso nel Castello interiore). In lei si uniscono l’introspezione e il desiderio di comunicazione, la ferma volontà di realizzare grandi imprese e la sua naturaleza nelle relazioni, la difesa decisa dei valori essenziali e la capacità di ripensarne altri e di adattarsi facilmente alle circostanze mutevoli. Questa unione armoniosa di realtà tanto diverse la rendono particolarmente attraente. Fu anche una donna molto simpatica. La malattia, i lavori, le umiliazioni e il disprezzo non riuscirono mai a spegnere il suo ottimismo né il suo buon umore.

2.      La discriminazione delle donne

Sappiamo che santa Teresa è maestra di orazione e una delle più grandi mistiche della storia, ma a volte tralasciamo la sua dimensione umana, che risalta ancor più se considerata nel contesto storico in cui visse. Abituati come siamo a guardarla in quadri che la rappresentano tra angeli e nuvole, possiamo dimenticare che fu una donna terrena, pienamente cosciente della situazione di inferiorità in cui si trovava a causa del suo sesso. Precorrendo i tempi, rivendicò con forza la possibilità che le donne potessero formarsi e decidere da sé, senza essere soggette all’autorità degli uomini. Questo le procurò molti problemi, a cui fece fronte con determinazione. In questo campo è un modello per la nostra società, che ancora deve progredire molto nell’offrire pari opportunità a ogni persona affinché possa sviluppare le proprie capacità e decidere in modo autonomo, indipendentemente dal sesso, dalla razza e da altre condizioni sociali o economiche.

La globalizzazione dell’informazione alla quale ci ha abituati Internet ci permette di sapere che ai nostri giorni ci sono ancora paesi in cui alle donne è proibito di guidare un veicolo, e in altri l’accesso alla cultura e persino di uscire di casa senza la compagnia di un uomo. Sono immagini che feriscono, perché ci fanno prendere coscienza del dramma di cosa significhi essere donna in alcune regioni del pianeta: come il caso delle donne afghane costrette a coprire totalmente il capo con i burqa, ma ancora di più delle bambine sottoposte a mutilazione genitale nel Nord Africa, delle donne lapidate come adultere in diversi paesi del Medio Oriente e dei femminicidi estesi in molte regioni del pianeta.

Ma non tutti hanno la sensibilità necessaria per rendersi conto della gravità di questi episodi. C’è chi li considera normali e perfino chi li giustifica come espressione di una determinata cultura. Non va poi dimenticato che la situazione del sesso femminile non è stata molto diversa in Occidente in altri tempi e che ancora manca molto perché si raggiunga una reale uguaglianza di diritti nella società e nella Chiesa.

Se siamo arrivati a comprendere che queste condizioni non sono normali, malgrado siano abituali in molti luoghi, è grazie alla riflessione che molte donne hanno fatto e alla loro lotta per ottenere pari opportunità con gli uomini, che la società negava loro. Tra esse, Teresa di Gesù occupa un posto particolare, sia per la profondità del suo messaggio, che per la precocità dello stesso.

3.      Santa Teresa nel suo contesto

Teresa de Cepeda y Ahumada visse durante il «Rinascimento» europeo, ai tempi della Riforma protestante e del concilio di Trento. Tra l’altro, fu contemporanea di Erasmo da Rotterdam, Martin Lutero, Michelangelo Buonarroti, Carlo V e Filippo II.

La sua fu un’epoca complessa, di profonde trasformazioni geografiche, che ampliarono la percezione del mondo con la scoperta dell’America e con le conquiste in Africa e in Asia. La società medievale (agricola e rurale, di sussistenza) diede il via a una nuova realtà (urbana, nella quale il commercio e le botteghe artigianali acquisirono sempre più importanza). I cambiamenti socioeconomici furono accompagnati da nuove strutture politiche (sorsero gli stati moderni) e culturali (le università e la stampa acquistarono un’importanza fondamentale nella trasmissione delle idee). Possiamo parlare di un vero cambiamento epocale, che colpì tutti gli ambiti del vivere e del pensare. Anche le forme di praticare la religione.

Salvo le differenze, fu qualcosa di simile a quello che succede ai nostri giorni, in cui le vecchie strutture sociali, educative, politiche e religiose sono in crisi, al punto da disorientarci e non farci capire dove siamo diretti.

La Castiglia nel XVI secolo

Teresa nasce e vive in Castiglia, cuore pulsante della Spagna che segnava in Occidente le strade della vita e della politica, ivi compreso la moda. In quegli anni la «monarchia cattolica» spagnola raggiunse il suo massimo potere economico, militare e politico. È il cosiddetto «secolo d’oro» spagnolo, nel quale le università di Salamanca e Alcalá erano riferimenti culturali a livello europeo; le Belle Arti conobbero uno sviluppo e una creatività senza precedenti nei paesi e nelle città della Spagna, che si riempirono di templi, palazzi, ospedali, edifici pubblici e fontane.

In quel tempo composero la loro musica Juan del Encina e Tomás Luis de Victoria e scrissero Garcilaso de la Vega, fra Luis de León, Lope de Vega, Góngora e Cervantes. Architetti, scultori e pittori italiani e fiamminghi si stabilirono nelle città spagnole, che si arricchirono anche grazie alle influenze artistiche provenienti dal lontano Oriente, attraverso le Filippine e con l’incipiente arte coloniale americana. Mentre Juan de Herrera costruiva l’Escorial, Diego de Siloé, Juan de Juni ed El Greco realizzavano le loro migliori opere.

Dal cuore della Castiglia, Filippo II governò un impero come mai si era creato prima né si è ripetuto dopo, «nel quale mai tramontava il sole», formato dalle terre della Castiglia e dai suoi possedimenti nel Nord Africa, così come in America e nelle Filippine; dell’Aragona e dei suoi possedimenti nel sud della Francia e nel Mediterraneo: Napoli, Sicilia, Sardegna, Oran, Tunisia, il Rossiglione, la Franca Contea, la Catalogna e Valenza; della Navarra, dei Paesi Bassi, dell’Impero romano-germanico, del Milanese, del Portogallo e delle sue colonie in Africa e Asia.

Guerre e conflitti

Non fu facile mantenere unite terre e genti così diverse e lontane tra di loro. Le truppe spagnole si videro coinvolte in numerose guerre internazionali: in primo luogo, le conquiste nel Pacifico e nell’America, nelle quali parteciparono molti conoscenti e parenti di Teresa. A tredici anni, ella era a conoscenza dell’arrivo a Toledo di Hernán Cortés, conquistatore dell’impero di Montezuma, accompagnato da indios, animali e frutti esotici. Poco dopo, tutti i suoi fratelli e altri parenti e conoscenti di Avila partirono per le Indie, dove combatterono a fianco dei fedeli alla corona contro Pizarro e i ribelli.

Tra tutti gli scontri armati dell’epoca, il più lungo e doloroso fu quello delle guerre di religione tra cattolici e protestanti, che devastarono l’Europa tra il 1524 e il 1648. È vero che il motivo reale era lo scontro tra le pretese dei principi territoriali e quelle dell’imperatore, così come gli interessi economici delle potenze europee. Ma, nello specifico, le diverse fazioni assunsero atteggiamenti a favore di Roma o di Lutero. Ciò determinò che alcune pratiche cristiane tradizionali che fino al concilio di Trento erano normali (come la lettura della Bibbia o l’orazione silenziosa) fossero guardate con sospetto e anche proibite negli ambienti cattolici, perché favorite dai riformatori.

Le armate spagnole, oltre che nelle guerre di conquista e in quelle di religione, si videro coinvolte in molti altri conflitti: scontri con la Francia per il controllo di Napoli e del Milanese (lo stesso padre di Teresa partecipò come cavaliere nella guerra di Navarra, nella quale rimase ferito sant’Ignazio di Loyola), con il Papato per altri interessi nella penisola italiana (il famoso «sacco» di Roma ebbe luogo quando lei aveva dodici anni), con i berberi (tribù del nord dell’Africa) e i turchi ottomani per il controllo del Mediterraneo (la battaglia di Lepanto ebbe luogo nel 1571), con l’Inghilterra per il controllo dell’Atlantico (la sconfitta dell’Invincibile Armata è del 1588), con i Paesi Bassi che cercavano l’indipendenza, con il Portogallo per diritti di successione… senza contare le rivolte dei mori all’interno della penisola iberica (dal 1568 al 1571 si svolse la guerra delle Alpujarras di Granada).

Troppi scontri per una popolazione di appena sei milioni di abitanti. Le famiglie spagnole videro partire uno dopo l’altro tutti i loro uomini. Incominciarono a mancare le braccia necessarie per la coltivazione della terra. Questo, insieme ad alcuni anni di siccità e al continuo aumento delle imposte per mantenere quella grande macchina bellica, provocò fame e miseria tra coloro che non poterono emigrare. La famiglia di san Giovanni della Croce ne è un esempio significativo. Il padre e il fratello morirono di fame e un altro fratello sopravvisse arrabbattandosi per il resto dei suoi giorni.

L’arrivo dell’oro e dell’argento americani fece aumentare l’inflazione, malgrado una gran quantità passasse direttamente dalle galere ai depositi degli istituti di credito stranieri. La monarchia dovette dichiarare bancarotta in varie occasioni. Tutto questo provocò numerose rivolte popolari (insurrezioni nelle Fiandre, nella Castiglia, in Aragona, a Valenza, ecc.) che furono sedate senza pietà. Il popolo dovette acuire l’ingegno e inventare mille stratagemmi per sopravvivere. La letteratura picaresca dell’epoca (caratterizzata dalla descrizione delle avventure dei «picari», popolani furbi, imbroglioni e privi di scrupoli), come La Celestina o Il Lazarillo de Tormes, illustra perfettamente le contraddizioni di quel tempo.

Oltre agli ideali di conquista e guerrieri (frutto dei cinquecento anni di scontri contro i mori durante la Riconquista), tre caratteristiche definiscono la società nella quale visse santa Teresa: la profonda religiosità, che impregnava tutte le dimensioni della vita, la rigida divisione della popolazione in classi sociali e il valore supremo della honra, che oggi a noi risulta tanto difficile da capire.

La religiosità imperante

Indubbiamente, la caratteristica più vistosa dell’epoca è la profonda inquietudine religiosa, che colpiva ugualmente tutti gli strati della società. Le manifestazioni religiose erano per così dire onnipresenti e abbracciavano la vita della popolazione in tutte le sue dimensioni, senza nessuna separazione tra vita civile ed ecclesiale. Basti considerare il gran numero di conventi, chiese parrocchiali, eremi e altri edifici destinati all’uso religioso, che troviamo ancora sparsi in tutto il territorio spagnolo.

Leggendo la letteratura di quel tempo, si può notare che sia nelle città che nelle campagne, in pubblico come nell’intimità del focolare domestico, si parlava di questioni religiose: si discuteva sulla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, sull’esistenza del purgatorio, sull’importanza di ricevere i sacramenti con la disposizione adeguata e di fare opere buone per salvarsi...

Nei testamenti dell’epoca non mancano fondi per la celebrazione di messe e suffragi, più o meno grandi secondo la possibilità economica del defunto. Negli inventari che elencano gli oggetti lasciati in eredità da persone di condizioni sociali diverse, non mancano mai quadri e sculture a tema religioso, mentre in rarissime occasioni sono di argomento profano (basti considerare il patrimonio dei musei spagnoli, costituito da temi quasi esclusivamente religiosi, a differenza di quelli olandesi, basati su paesaggi, o da quelli italiani ricchi di scene mitologiche). Lo stesso possiamo dire dei libri. Di fatto, tra la metà del XV e la metà del XVI secolo (quando cominciano a comparire gli Indici dei libri proibiti), in Spagna si pubblicano alcune centinia di libri di ascetica e mistica.

Proprio come Teresa bambina che leggeva vite dei Santi, e voleva imitarli, anche Ignazio di Loyola e una moltitudine di contemporanei avevano i Santi come modello di vita da imitare. I Santi, i professori di teologia, i missionari e i religiosi di vita austera esercitavano un’attrattiva per la gente del XVI secolo non meno di quella che oggi esercitano su di noi le stelle del cinema, gli sportivi di élite o i grandi impresari.

Inoltre, la principale attività sociale dell’epoca consisteva nel partecipare a prediche e ad altre funzioni religiose. In tutte le famiglie vi erano vari membri che si consacravano al servizio del Signore, operando nella propria patria o avventurandosi in missioni d’oltremare. Possiamo affermare che tutta la popolazione faceva parte di varie confraternite in onore della Vergine, dei Santi o dei misteri della Settimana Santa, così come di altre con fini assistenziali a favore dei poveri, degli orfani, dei malati o dei carcerati.

I gruppi sociali

La seconda caratteristica è la rigida divisione della popolazione in classi sociali chiaramente delimitate, con forme di presentarsi, comportamenti e ruoli sociali ben definiti in ciascun caso. Possiamo parlare di cinque gruppi (con gradazioni all’interno di ciascuno di essi).

I nobili formavano il gruppo dominante. Erano i proprietari della maggior parte delle terre e dei beni di consumo, occupavano i posti chiave dell’amministrazione pubblica (sia civile che ecclesiastica), vivevano di rendite, rifiutavano il lavoro manuale ed erano esenti dal pagamento delle tasse. Tra di loro abbondavano i convenzionalismi, i titoli e i trattamenti di cortesia (cf. V 37,6-10).

Accanto a loro, deteneva il potere economico una borghesia dedita al commercio, composta perlopiù da discendenti di ebrei, anche se a questo gruppo erano vietati la maggior parte degli incarichi politici e i trattamenti d’onore, motivo per il quale la loro maggior bramosia era incorporarsi nel gruppo dei nobili, che spesso riuscivano a soddisfare acquistando certificati di hidalguía con grandi somme di denaro.

I chierici e i religiosi costituivano un gruppo numeroso (che oscillava tra il dieci e il venti per cento della popolazione). Tra di essi vigevano le stesse divisioni che nel resto della società. L’alto clero si dedicava all’amministrazione delle rendite e proprietà, mentre la maggior parte dei sacerdoti, comunità religiose e molti monasteri condividevano le difficoltà del popolo per coprire le loro necessità vitali. Teresa apprezza sinceramente i vescovi, religiosi e sacerdoti, che non considera «funzionari ecclesiali» ma «capitani» dei cristiani e «difensori» della causa di Cristo (cf. C 3,1-2).

La grande massa dei contadini e operai, perlopiù analfabeti, lavorava dall’alba al tramonto e sopravviveva a fatica con il frutto del proprio lavoro, trovandosi in grandi difficoltà negli anni di siccità o quando, per qualche motivo, salivano i prezzi dei beni di prima necessità.

I «poveri in canna» formavano una categoria sociale specifica, nella quale si accedeva solo dopo aver dimostrato che non si possedevano beni né possibilità per acquisirli, né famiglia da cui andare, per cui si poteva aspirare ad alcuni aiuti sociali che concedevano numerose confraternite e istituzioni assistenziali dell’epoca.

La «honra»

La terza caratteristica dell’epoca è il peculiare senso dell’«onore» o della «honra», che era il motore ultimo di tutte le attività e aspirazioni di quella società. Allora, la honra era intesa come un riflesso dell’opinione altrui (la reputazione, il prestigio) e non come il possesso di virtù. Pertanto, era onorato colui che riceveva onori dalla società, colui che era rispettato, colui al quale si riconoscevano alcuni diritti.

Lo afferma chiaramente Lope de Vega quando nella sua opera I commendatori di Cordova scrive: «Nessun uomo è onorato da se stesso, dall’altro riceve l’onore un uomo. Essere virtuoso e avere meriti non è essere onorato. Da ciò è sicuro che l’onore sta in un altro e non in se stesso». E lo riconfermano le parole di Teresa quando dice: «Gli onori, secondo me, van sempre d’accordo con le ricchezze […]. Sarebbe, infatti, assai strano trovare un povero onorato dal mondo! Anche se fosse degno di ogni onore, sarebbe sempre tenuto in poco conto» (CE 2,5-6). La honra, dunque, è quello che gli altri pensano di noi, la considerazione che di noi hanno.

La honra si esprimeva in una serie di titoli e gesti propri di ciascuna classe sociale. Il mancato rispetto delle convenzioni sociali era ritenuto una onta o disonore, che doveva essere vendicato. Per honra si poteva uccidere o lasciarsi morire di fame (si pensi a tutti i personaggi che sfilano nella letteratura picaresca dell’epoca: laureati, nobili o chierici in rovina, che possedevano solo una camicia, o dormivano per terra, o non avevano da mangiare, ma non si privavano di domestica e scudiero).

La honra implicava il riconoscimento sociale, ma era anche una vera schiavitù: il vestiario, gli alimenti, i gesti, i modi di trattare... dovevano essere consoni alla propria condizione, il che porta Teresa a scrivere: «Oggi il mondo è arrivato a tal punto che bisognerebbe che le vite fossero più lunghe per poter imparare tutte le prammatiche, le cerimonie, e le nuove significazioni di rispetto [...]. Se nel trattare con la gente si cade in qualche distrazione e non si rende loro un omaggio maggiore di quello che meritano, la cosa viene presa sul serio, se n’offendono, e occorre discendere a spiegazioni, assicurandoli della nostra buona intenzione con la scusa che in quel momento si era alquanto distratti [...]. Ci vorrebbe una scuola soltanto per i titoli delle lettere e imparare il modo di comporle, perché ora bisogna lasciare il margine da una parte e ora dall’altra, e stare attenti a dare il titolo d’illustre a chi prima non si dava nemmeno del magnifico. [...] giacché il Signore mi ha dato di esserne lontana, voglio abbandonarlo del tutto. Se lo goda chi con tanti sacrifici si sottomette alle sue frivolezze» (V 37,9ss).

Il lavoro manuale era considerato inadatto alla gente onorata, eccetto la coltivazione della terra, associata sempre ai «cristiani vecchi». I discendenti degli ebrei convertiti o degli schiavi e coloro che esercitavano uffici considerati vili erano continuamente esposti agli oltraggi, potevano essere messi in carcere per qualsiasi motivo e non potevano per nessun motivo aspirare ad appartenere alle classi sociali influenti. Inoltre molti incarichi, sia civili che ecclesiastici, erano loro proibiti.

È sorprendente la quantità di pagine che santa Teresa dedica alla «peste della honra» o ai «brutti punti d’onore». Insegna alle sue monache a liberarsi da questa piaga per essere veramente libere: «il mondo oggi si governa di tal guisa che se il padre è di condizione più bassa del figlio, questi si ritiene disonorato nel riconoscerlo per tale. Ma questo per noi non ha luogo, perché simili sentimenti sarebbero un inferno. Quella che fosse di più nobile famiglia abbia in bocca, meno di tutte, il nome di suo padre, perché qui dovete essere tutte uguali». Nelle Costituzioni arriva a ordinare: «Né la priora, né qualunque altra sia chiamata col titolo di Donna». Della honra e della fama scrive che sono «artefatti sociali», che compromettono la verità e la libertà. Commentando il Padre nostro dedica un intero capitolo al tema: «quanto importi non tener conto del proprio lignaggio per essere veri figli di Dio» (CE 27).

Anche se le istituzioni civili, come quelle religiose, richiedevano ai candidati un certificato di «limpieza de sangre» (che dimostrasse che non erano figli illegittimi nati fuori dal matrimonio, né discendenti di ebrei, musulmani, gitani, indi o neri), lei non permise mai che questa norma entrasse nelle sue Costituzioni. Solo dal superamento di questa schiavitù della honra (reputazione, riconoscimento sociale, convenzioni, pregiudizi), possiamo capire la sua libertà di spirito, che attraeva molti e scandalizzava alcuni.

Le origini familiari di Teresa

Fino a pochi anni fa, tutte le biografie di santa Teresa incominciavano ricordando i suoi nobili antenati (alcune contemporanee continuano a farlo, sebbene dal punto di vista storico sia un falso). Già nei processi di canonizzazione in molti testimoniarono che era discendente di cristiani vecchi e di nobile famiglia «come tutti sapevano». La religiosità barocca dava per scontato che il sangue di una Santa non potesse essere «contaminato» da ascendenti plebei.

Di fatto, quando in un fascicolo della Cancelleria di Valladolid furono trovati dei documenti che dimostravano che il nonno paterno di santa Teresa era un convertito dall’ebraismo che aveva avuto problemi con l’Inquisizione e fu pubblicato un estratto degli stessi, i documenti scomparvero misteriosamente, per cui molti si rifiutarono di crederlo. Ma i processi di nobiltà dei Cepeda riapparvero nello stesso luogo e con lo stesso mistero nel 1986. Lì risultò che il nonno, il padre e lo zio si trasferirono da Toledo ad Avila per cercare di dimenticare le offese ricevute a causa delle loro origini. Nella città murata acquistarono un casale storico e un certificato di nobiltà falso, che li dispensava dal pagamento delle tasse e offriva loro altri privilegi, e si dedicarono a dilapidare la fortuna accumulata con tanti sforzi, per simulare una condizione che non avevano: quella di cristiani vecchi. I figli di Juan Sánchez, incluso colui che sarebbe stato il padre di Teresa, si sposarono con fanciulle della piccola nobiltà e cambiarono il cognome del padre con quello delle loro rispettive mogli. Ad Avila condussero la vita dei cavalieri dell’epoca: passeggiate per la città, abbigliati con stoffe costose e accompagnati da numerosa servitù, partite di caccia in montagna, periodi nella casa avita di campagna e – naturalmente – nessun tipo di lavoro manuale che potesse macchiare la honra della famiglia.

La vita di un nobile dell’epoca la descrive perfettamente il Cavaliere del Verde Gabán quando si presenta a don Chisciotte: «Io sono un nobile più che mezzanamente ricco, mi chiamo don Diego di Miranda, e passo la vita in compagnia di mia moglie, dei miei figlioli e degli amici miei. Mi divertono la caccia e la pesca [...]. Possiedo circa sei dozzine di libri quali in volgare, quali in latino, alcuni di storia, altri di devozione. [...] Qualche volta mi piace di banchettare in casa degli amici, ma più mi diletta di convitarli in casa mia [...], ascolto ogni giorno la messa: faccio parte coi poveri degli averi miei [...], ho Nostra Signora in particolar devozione, e confido sempre nella misericordia infinita di Dio Signore».

Questo è lo stile di vita che ad Avila seguirono gli zii, il padre e i fratelli di Teresa, caratterizzato dallo sforzo di dissimulare le proprie origini, simulare una nobiltà non posseduta e riuscire a essere honrados (ricevere onore dagli altri). Teresa crebbe in questo contesto e da ciò possiamo evincere che tutti i suoi benefattori furono commercianti, che molti nobili non avevano fiducia in lei e comprendere perché lei stessa sia stata tanto critica a riguardo dei convenzionalismi sociali e si sia soffermata tanto sulla schiavitù della honra.

Naturalmente, nel Libro della Vita non fa riferimento ai processi familiari per ottenere un titolo di nobiltà, ma non dice neppure che i suoi genitori fossero nobili (a differenza di tutti i suoi biografi antichi), bensì che erano «virtuosi e timorati di Dio [...], di molta carità con i poveri e di grandissima onestà» (V 1,1ss). In un’occasione che il padre Gracián si mise a parlare della sua nobiltà di lignaggio, ella «si arrabbiò molto con me perché trattavo di ciò, e disse che a lei bastava essere figlia della Chiesa cattolica e che le pesava di più aver fatto un solo peccato che se fosse stata discendente dei più vili e infimi villani e convertiti del mondo». Anche parlando della fondazione di Siviglia, arriva ad affermare che lì ricevette degli onori che non le venivano dal «lignaggio», dando a intendere che la sua ascendenza era nota: «Ammirate, figliole mie, la potenza di Dio! Sarà stato forse per essere io di sangue illustre che mi si fece tanto onore?» (F 27,12).

Teresa aveva riflettuto molto su ciò, specialmente con la fondazione di Toledo, dove vi erano molti membri dell’alta nobiltà che si dicevano suoi amici. Nessuno di loro la appoggiò, anzi cercarono di impedire la fondazione con il pretesto che Teresa accettò l’aiuto di un commerciante convertito dall’ebraismo. Così racconta nelle Relazioni spirituali: «Trovandomi nel monastero di Toledo fui consigliata da alcuni di non dare sepoltura nella nostra chiesa se non a persone di sangue gentilizio. Ma il Signore mi disse: “T’inganni molto, figliola, se ti lasci guidare dalle leggi del mondo! Fissa gli occhi su di me che sono stato povero e disprezzato! Forse che i grandi del mondo sono tali anche dinanzi a me? O che forse voi dovete essere stimate per la nobiltà dei natali, e non per la virtù?”» (R 8). Gesù stesso conferma Teresa nella sua maniera di agire: non deve aver come punto di riferimento i «grandi» di questo mondo né le convenzioni sociali del momento, tanto distanti dal vangelo.

Sottolineiamo questo argomento (come faremo in seguito nel trattare la sua condizione di donna), perché solo così capiremo che Teresa fu una persona della sua epoca, senza però identificarsi totalmente con essa; visse immersa nella società castigliana del XVI secolo, ma senza integrarsi completamente con tale società; fu cosciente di quello che i suoi contemporanei ritenevano «valori», ma non li ammise tutti, né lo fece allo stesso modo in cui la maggior parte li accettava. Non fu fuori dalle strutture sociali del suo ambiente, ma si mantenne sempre ai margini. Ciò le consentì di guardare con occhio critico ai costumi e alle istituzioni che altri accoglievano con spontaneità. La sua stessa religiosità non si identifica totalmente con le pratiche e devozioni del suo ambiente.

In Teresa troviamo una continua ricerca di quello che è unicamente reale, autentico e consistente in mezzo alle menzogne e convenzionalismi della sua società. Andò oltre il suo ambiente e il suo tempo, cercando nuovi orizzonti. Per questo il suo messaggio sarà sempre attuale, perché usando il linguaggio e le forme di un’epoca concreta, sta al di sopra dello stesso linguaggio e delle stesse forme che utilizza fino a trascenderli. Ignorando questi presupposti, non potremo comprendere l’originalità di santa Teresa e il vero significato della maggior parte delle sue pagine.

Donna cosciente

Teresa fu pienamente cosciente di tutte queste realtà. È sorprendente la quantità di riferimenti che troviamo nelle sue opere al concilio di Trento, alle guerre di religione, alle rivolte dei mori, agli scontri con la Francia e il Portogallo, ai processi inquisitoriali e agli Indici dei libri proibiti, alle conquiste americane e ai prodotti che da lì arrivavano: patate, cocco…

Teresa ebbe contatto diretto o epistolare con persone di tutti i ceti sociali del momento: il re Filippo II e i suoi segretari, corrieri maggiori e amministratori, principi e principesse, viceré, cortigiani e nobili rurali, professori universitari e studenti, contadini e mendicanti, banchieri e mercanti, muratori e trasportatori. Tra gli ecclesiastici trattò con cardinali, nunzi e vescovi, teologi e missionari, religiosi di quasi tutte le congregazioni contemporanee, potenti badesse e avventurieri, senza dimenticare i numerosi santi canonizzati della sua epoca: Pio V, Pietro di Alcántara, Giovanni d’Avila, Luigi Bertran, Francesco Borgia, Giovanni de Ribera, Giovanni della Croce. Qualcosa di inaudito per una donna del XVI secolo e ancor più monaca di clausura!

Carattere affabile

Ci troviamo davanti a una donna dotata di una intelligenza vivace, di una volontà intrepida e di un carattere aperto e comunicativo. Il suo talento e la sua simpatia la resero la figlia prediletta dei genitori e caposquadra di tutti i giochi d’infanzia. Lei stessa riconosce che «le doti di natura di cui Dio mi aveva favorito, secondo quanto dicevano, erano molte» (V 1,8). Un suo contemporaneo, padre Pietro della Purificazione, scrisse: «Una cosa mi stupiva della conversazione di questa gloriosa madre, e cioè che, anche se stesse parlando da tre o quattro ore, aveva una così soave conversazione, tali eccellenti parole e la bocca così piena di gioia, che non stancava mai e non c’era chi potesse congedarsi da lei». Simile fu la testimonianza di suor Maria di san Giuseppe: «Stimolava grande gioia guardarla ed ascoltarla, perché era molto affabile e aggraziata». Fra Luis de León aggiunse: «Nessuno conversò con lei che non ne restasse affascinato».

Nel visitare i monasteri che santa Teresa fondò, sorprende che in molti di essi sono conservate alcune particolari reliquie che le appartennero: nacchere, tamburi, flauti e altri strumenti musicali. Il fatto è che a Teresa piaceva comporre e interpretare canzoni e poesie per animare le feste conventuali. Diceva addirittura che uno dei segni indicativi della vera vocazione di una novizia fosse la sua voglia di ridere.

Una volta si trovava nel monastero di Soria. La comunità elesse priora la madre Catalina di Cristo. Una monaca domandò a una novizia il suo parere sulla madre fondatrice. La novizia rispose con sincerità dicendo che non le sembrava tanto santa come si aspettava, perché rideva molto. E che le sembrava più santa la priora della casa, essendo più seria. Santa Teresa ascoltò e precisò alla novizia: «Altolà! La madre Caterina è più santa di me perché è più virtuosa, in questo hai ragione, io ho la fama e lei le virtù. Ma non è più santa perché ride poco, perché questo non è una virtù, ma un difetto!».

Suor Juana de la Cruz, badessa delle scalze reali di Madrid, quando nel 1569 conobbe Teresa, disse alle sue monache: «Sia benedetto Dio, che ci ha permesso di vedere una Santa che noi tutte possiamo imitare, che mangia, dorme e parla come noi e vive senza cerimonie». In verità, ella non era amante delle cerimonie sia nella vita che nel culto cristiano: le piacevano le cose semplici e «senza artificio».

La nipote Teresita, figlia di Lorenzo de Cepeda, alla sua morte testimoniò: «Aveva un portamento così disinvolto e cortigiano, che per questo nessuno la prendeva per santa; ma c’era in lei un non so che di tanta sostanza, che fece sì che coloro che la frequentavano credessero e vedessero che era molto santa senza sforzarsi di sembrarlo».

Per santa Teresa, l’allegria era una scelta di vita che scaturiva dal sapersi amata gratuitamente: «[Dio] non fa discriminazione di persone; ama tutti indistintamente. [...] essendomi impossibile manifestare tutto ciò che si prova quando il Signore ci mette a parte dei suoi segreti e delle sue meraviglie» (V 27,12).

La sua naturale simpatia e il suo buon umore le aprirono numerose porte e la aiutarono a intessere una complessa rete di relazioni e di amicizie incondizionate con persone delle più svariate provenienze sociali, anche se le crearono serie difficoltà tra coloro che non vedevano compatibili l’affabilità e la santità. Lei aveva molto chiaro che «quanto più sante, devono essere più socievoli», perché «la carità cresce quando viene comunicata». Così diceva: «Dio ci liberi dai santi imbronciati», perché «un Santo triste è un triste Santo» e «un’anima oppressa non può servire bene Dio». E le piaceva ripetere: «Tristezza e malinconia, non le voglio in casa mia». Ma la maggior parte dei suoi contemporanei identificavano la santità con l’austerità e consideravano che la semplicità e il buon umore erano sinonimi di superficialità.

4.      Teresa scrittrice

Per comprendere la singolarità di Teresa di Gesù, dobbiamo soffermarci un istante su cosa significa che ella fu scrittrice. Basta cercare di fare un elenco di donne scrittrici precedenti al secolo XIX per renderci conto dello scarso numero che riusciamo a ricordare. Si conservano migliaia di pagine autografe di Teresa (cosa rara anche per gli scrittori uomini della sua epoca).

I suoi scritti sono una fedele immagine della sua persona e la migliore pista che abbiamo per conoscerla. Lei ne era consapevole e, di fatto, nell’inviare il manoscritto del Libro della Vita a padre García di Toledo assicurava: «Qui le consegno la mia anima» e nello scrivere a donna Luisa de la Cerda chiedendole informazioni sul manoscritto, diceva: «Visto che le ho consegnato la mia anima, non tralasci di compiere il mio incarico».

Tuttavia, oggi non possiamo continuare ad avere il pregiudizio tanto ripetuto in tempi passati secondo il quale Teresa scrive incautamente, come parla, in maniera spontanea, senza nessuno sforzo nella redazione delle sue opere. È certo che era amante della «semplicità e della chiarezza», come dice in una delle sue lettere, per cui non utilizza molti artifici retorici. È anche vero che a volte non usa bozze né ha tempo per rileggere quello che ha scritto. Ma non dobbiamo ignorare che alcuni dei suoi simboli sono molto elaborati e che riscrive completamente diversi suoi trattati (il Libro della Vita e il Cammino di perfezione, per esempio, e in parte anche il Commento al Cantico dei Cantici). Inoltre, le importanti lacune su temi conflittuali (la discendenza ebraica di suo padre, i giudizi inquisitoriali di Siviglia e Valladolid…) e le sue ripetute giustificazioni e scuse per aver osato scrivere, pur essendo una donna, ci indicano che le cose non sono così semplici come potrebbero sembrare a prima vista.

Teresa non scrive per se stessa, ma per essere letta da altri: dai suoi confessori e consiglieri, dalle sue monache, dai suoi amici e da un’ampia cerchia di destinatari sconosciuti ai quali vuole arrivare. Quindi, nel raccontare la propria esperienza di preghiera, fa molta attenzione a quello che vuole dire e anche a quello che non può o non deve dire in pubblico. Altrettanto importante, come quello che racconta nei suoi libri, è ciò che viene messo a tacere. In parte, le sue numerose lettere completano tali lacune. Ciò nonostante, a volte ci troviamo di fronte a temi che non sviluppa per prudenza. Avverte così i suoi destinatari: «Queste cose non sono da trattare in una lettera…, glielo dirò quando ci vediamo, perché non sono cose da scrivere».

Fortunatamente, molti dei suoi collaboratori più diretti, come Girolamo della Madre di Dio (Gracián), Giuliano d’Avila, Anna di Gesù (Lobera), Anna di san Bartolomeo (García), Maria di san Giuseppe (Salazar)…, seguendo il suo esempio, misero per iscritto il proprio rapporto con santa Teresa, i ricordi dei viaggi e le fondazioni di case che condivisero, così come gli insegnamenti che da lei ricevettero. Tutti questi libri sono un prezioso complemento agli scritti della Santa.

Tempi difficili

Nel XVI secolo, il mondo dell’istruzione era riservato esclusivamente ai «dotti», cioè, a coloro che godevano di studi riconosciuti. La predicazione stessa non era consentita a tutti i sacerdoti, bensì soltanto a coloro che possedevano permessi specifici, una delega del vescovo.

Sant’Ignazio di Loyola racconta nella sua Autobiografia che dopo la sua conversione, gli piaceva parlare di Dio alla gente per convincerla a preticare l’orazione. Mentre era studente ad Alcalá, l’Inquisizione lo processò e il Vicario lo rinchiuse quarantadue giorni in prigione «senza che lo esaminassero per sapere il motivo […]. Finalmente venne in carcere e lo esaminò su tante cose, fino a domandargli se osservava il sabato. Lo dichiarò innocente ma gli ordinò che non parlasse di cose della fede fino a che non avesse studiato di più, perché non aveva cultura» (nn. 61-62). Era tale l’avversione che si aveva nei confronti dei cristiani nuovi (discendenti da ebrei, musulmani o indios), che perfino a lui, vecchio cristiano di indubbia provenienza, gli venne chiesto se aveva osservato il sabato, il giorno sacro agli ebrei. Non poterono incolparlo di nulla, ma gli proibirono ugualmente di parlare di cose della fede fino a quando non avesse completato i suoi studi.

Da Alcalá si spostò a Salamanca, dove lo incarcerarono di nuovo per gli stessi motivi, questa volta incatenato. Lì «fu chiamato davanti a quattro giudici che gli chiesero molte cose sulla Trinità e l’Eucaristia e cose di canoni […], e dopo ventidue giorni da quando lo avevano preso lo chiamarono per ascoltare la sentenza, la quale era che non risultava alcun errore né nella sua vita né nella sua dottrina, e così poteva insegnare la dottrina e parlare di cose di Dio, sempre che non definisse mai ciò che è peccato mortale né veniale, se non dopo quattro anni di studio in più» (nn. 68-70). Questa volta furono più benevoli: gli permisero di insegnare il catechismo (la «dottrina») e parlare di cose di Dio, senza però specificare quale materia potesse essere considerata peccato mortale e quale peccato veniale, fino a dopo altri quattro anni di studio. Non bastava che la sua dottrina fosse corretta, necessitava dell’avallo degli studi. A Parigi e a Venezia si ripeteranno processi simili. E lui era un uomo, nobile e studente di Teologia.

Immaginiamo allora le difficoltà di Teresa, che era una persona di origini familiari oscure, con gli antenati (padre, zii e nonno) che erano stati condannati per ebraismo, che non possedeva studi universitari, e donna!; ma che pretendeva di parlare e scrivere su temi di orazione per trasmettere agli altri i frutti della sua esperienza.

Alle donne non solo era negato l’accesso agli studi regolari, ma non era visto di buon occhio neanche che sapessero leggere. La possibilità per cui qualcuna osasse diventare maestra per mezzo della parola orale o scritta era qualcosa di assolutamente impensabile. Tutti ritenevano che la donna fosse debole per natura, incline al male e facilmente manipolabile dal demonio, per cui andava guardata con sospetto. La maggior parte era convinta che dovesse rimanere sempre sotto la tutela di un uomo. A questo proposito, si citavano principalmente tre autorità. In primo luogo il libro della Genesi, che dice che ella fu ingannata dal demonio nel momento del peccato originale. In secondo luogo, san Paolo, che chiede che siano sottomesse ai loro mariti e che tacciano nella Chiesa. Per ultimo san Tommaso, che, seguendo Aristotele, considerava la donna un uomo incompleto. Teresa sapeva tutto questo e contro questa situazione cercò di ribellarsi, anche se era pienamente cosciente del pericolo che correva; perciò raccolse con apparente sottomissione questi argomenti nei suoi scritti.

In realtà, la donna era quasi considerata alla stregua di un oggetto, sottomessa sempre alla tutela del padre, dello sposo o dei figli maschi. I suoi ruoli si riducevano ad assolvere il lavoro domestico, perpetuare la specie e soddisfare le esigenze sessuali del marito al cui arbitrio si trovava sottomessa. Fra Luis de León, per esempio, già fin dal prologo della sua famosa opera La moglie perfetta afferma che la missione della donna è «servire il marito, governare la famiglia e l’educazione dei figli». E nello spiegare i servizi e le attenzioni che deve avere nei riguardi dello sposo, chiarisce: «Non è grazia e generosità questa attività, ma giustizia e dovere che la donna deve al marito, e che la sua natura ha addossato a lei, creandola per questo dovere, che è compiacere e servire, allietare e aiutare nei lavori della vita e nella conservazione del patrimonio di colui con il quale si unisce in matrimonio […]. E poiché egli è costretto a farsi carico dei problemi di fuori, così lei lo deve sopportare e sollazzare quando torna a casa sua, senza che nessuna giustificazione la disobblighi» (cap. IV).

In quegli stessi anni, uno scrivano reale, Miguel Pérez de las Navas, pensava che la sua sposa lo tradisse con un altro. Non poté trovare alcuna giustificazione del suo sospetto, ma decise ugualmente di ucciderla per evitare il disonore. Aspettò che sua moglie si confessasse il giovedì santo, per assicurarsi che la mandava direttamente in cielo. Qualcosa del genere troviamo ne Il medico del suo onore di Calderón de la Barca. Il protagonista, che sospetta ingiustamente della moglie, obbliga il medico a salassarla fino ad ucciderla. Nessuno chiese conto a questi mariti per aver ucciso le proprie mogli. Del resto, erano di loro appartenenza e potevano perciò decidere cosa fare delle loro proprietà.

La stessa Teresa, nel raccontare la storia della fondatrice del monastero di Alba de Tormes, dice che alla nascita fu sul punto di morire perché fu abbandonata dai suoi genitori e parenti, che non le diedero alimenti né altre cure per il solo fatto che era una bambina. E aggiunge: «I genitori di Teresa avevano già quattro figlie, quando ella venne al mondo, e nel vedere che era anch’essa una figlia, rimasero molto disgustati. Fa pena vedere i mortali disconoscere quel che loro conviene! Completamente all’oscuro dei disegni di Dio, ignorano i grandi beni che possono avere dalle figlie e i mali senza numero dai figli. E tuttavia vorrebbero opporsi a Colui che sa tutto e tutto crea, consumandosi dal dispiacere per quello che dovrebbe invece rallegrarli» (F 20,2-3).

Donna «virile»

Non è senza significato che, quando alcuni contemporanei di santa Teresa volevano farle un complimento dicevano che «non sembra una donna» o che «ha il coraggio di un uomo». Lei stessa lo riconosce e raccoglie le opinioni di quelli che dicono che il suo coraggio è più grande di quello delle donne (cf. V 8,7). Valga d’esempio quello che accadde a padre Juan de Salinas, provinciale dei domenicani, il quale richiamò l’attenzione di padre Domenico Báñez, perché aveva sentito che era amico di Teresa, avvertendolo della eccessiva fiducia nei confronti delle donne, «le cui virtù bisogna considerare sempre per sospette». Padre Báñez gli disse che, giacché lui andava a predicare la quaresima a Toledo e lei era lì, ne poteva approfittare per conoscerla personalmente e così poteva comprendere il suo apprezzamento per lei. Al ritorno, Salinas rimproverò Báñez: «Mi avete ingannato! Mi avete detto che era una donna e secondo me è un uomo, e di quelli molto virili!».

Malgrado i pregiudizi antifemministi della sua epoca, la vita e gli scritti di Teresa sono una difesa ad oltranza del diritto della donna a pensare da se stessa o a prendere decisioni autonomamente: non vuole che qualcuno si intrometta nella vita quotidiana delle sue monache. Dovette fare molti sforzi perché esse potessero autogestirsi, perché avessero libertà di scegliere confessori e consiglieri, e non stessero sottomesse in tutto agli uomini: qualcosa di inconcepibile nella sua epoca.

Lo vediamo in modo speciale nella corrispondenza degli ultimi anni: «Questo è ciò che temono le mie religiose: la venuta di alcuni pesanti superiori che le opprimano e le aggravino troppo» (Lett. 89,1 a padre Girolamo Gracián, del 19/11/1576); «Ritengo molto importante il fatto di stabilire per sempre che i confessori non siano vicari (cioè superiori) delle religiose. [...] È anche necessario che non siano neppure soggette ai priori […]. Ciò che riguarda le nostre Costituzioni non è necessario trattarlo al Capitolo dei frati né informare gli altri» (Lett. 159,1.4 a padre Girolamo Gracián, del 02/1581); «non è necessario informare i frati sulle nostre cose» (Lett. 59,4 a padre Girolamo Gracián del 02/1581).

Oggi ci sembra assurdo che in una società che si proclamava cristiana si proibisse l’accesso alla Bibbia alle persone analfabete in genere e alle donne in particolare. Ma era così. Teresa si ribella contro quella situazione, il che però non impedì che il suo Commento al Cantico dei Cantici venisse bruciato. Con molta cautela, ma con forza, paragona quelli che vedono il pericolo nella lettura della Bibbia ad animali velenosi che trasformano in veleno tutto quello che toccano: «Ho sentito di alcuni che evitavano perfino di udirle [le cose che dice il Cantico dei Cantici]! Oh, Dio! Quanto è grande la nostra miseria! Ci avviene come a certe bestie velenose che cambiano in veleno tutto quello che mangiano. Mentre il Signore ci concede tante grazie nel farci intendere quel che avviene in un’anima che Egli ama; mentre c’incoraggia a intrattenerci e a deliziarci con Lui, noi ne prendiamo paura e interpretiamo le sue parole secondo la debolezza del nostro amore» (Pensieri sull’amore di Dio 1,3).

Da parte sua, conservò l’amore per la lettura di quei pochi testi della Sacra Scrittura che aveva potuto trovare tradotti, in special modo per i vangeli: «Io ho sempre amato molto le parole del vangelo e in qualche circostanza mi hanno procurato maggior raccoglimento le espressioni originali uscite dalla bocca santissima di Gesù che non i libri stilati nella maniera più elegante» (CE 35,4). Era anche convinta del fatto che nella Bibbia si trova ciò di cui abbiamo bisogno di sapere per vivere come cristiani e per poter arrivare alla pienezza mistica, per cui usa molte delle sue immagini per spiegare le sue idee. Si lamenta solo di non conoscerla meglio: «Oh, Gesù, se potessi conoscere tutti i passi della Sacra Scrittura tendenti a far comprendere [queste cose dell’orazione]!» (7M 3,13).

Allo stesso modo che con la lettura della Bibbia, accadeva con la pratica dell’orazione personale (la meditazione, la riflessione, la vita interiore). Anche se oggi ci risulta incomprensibile, allora era un campo vietato per le donne. Teresa dovette battersi continuamente contro quelli che affermavano che «l’orazione mentale non è per donne, perché vengono loro illusioni; sarà meglio che filino; non hanno bisogno di tali raffinatezze; bastano loro il Pater Noster e l’Ave Maria…» (CE 35,2).

Contro l’opinione della maggioranza, lei afferma che, nel campo dell’orazione, le donne arrivano ad essere migliori degli uomini: «come ho inteso dire dal santo fra Pietro d’Alcántara e io stessa ho constatato, Dio concede queste grazie più alle donne che agli uomini, e le donne vi fanno più profitto degli uomini. Il medesimo santo spiegava la cosa con eccellenti ragioni che qui non è il caso di riportare, tutte in favore delle donne» (V 40,8). E avverte le sue monache perché fuggano come dallo stesso demonio da quelli che pretendono di convincerle del contrario.

Dal fuso alla penna

Teresa era pienamente consapevole della situazione d’inferiorità in cui si trovava ed ebbe bisogno di usare continuamente le sue abilità persuasive perché le sue opere (e lei stessa) non andassero a finire al rogo. In tutti i suoi libri insiste sul fatto che lei avrebbe dovuto occupare il suo tempo a filare col fuso, che era proprio quello che la società contemporanea si aspettava da una donna. E aggiunge che se scrive è «per obbedienza» ai suoi confessori o, perlomeno, «con il loro permesso».

Malgrado tutto, in certe occasioni manifesta il suo desiderio di scrivere, consapevole che ha qualcosa di prezioso da dire: «Ho mandato a chiedere il libro [della Vita] al vescovo, perché forse avrò voglia di finirlo aggiungendovi quello che poi mi ha dato il Signore» (Lett. 8,19 a don Lorenzo de Cepeda, del 17/01/1577). Neppure è raro trovare nei titoli dei capitoli commenti come: «qui offro alcuni avvisi importanti» o «contiene molta buona dottrina». L’ultimo capitolo del Libro della Vita, per esempio, si intitola così: «Prosegue nel racconto delle grandi grazie che Dio le ha fatto. Da qualcuna si può cavare molta buona dottrina, giacché questo è lo scopo principale di questo scritto, come già si disse, dopo quello di obbedire». Qui dice chiaramente che il suo principale intento nel mettersi a scrivere è insegnare una dottrina che lei possiede e che considera «molto buona».

Sono anche ben noti i suoi sforzi per pubblicare il Cammino di perfezione, a causa della diffidenza che avesse sulla fedeltà delle numerose copie che si stavano ricavando dai suoi manoscritti. Lei era consapevole che quell’opera e le altre potessero aiutare molto i suoi lettori, ma non osando elogiarle direttamente, raccoglie a volte le parole degli altri, come quando afferma nel prologo del Castello interiore che proverà a riscrivere cose che aveva già scritto ed erano piaciute a coloro che le avevano lette, sebbene ora fossero andate perdute (non poteva dire direttamente che erano in mano all’Inquisizione e che avevano fatto male a requisirle, perché la dottrina era buona, ma lo fa comprendere): «Sarò felice se riesco a ripetere alcune cose che dicevano che erano ben dette».

Sono molti gli autori che continuano a insistere sul fatto che Teresa non scrisse di propria iniziativa, ma «per obbedienza», quando la realtà è totalmente diversa: lei ha dovuto eludere le molte difficoltà che frapponeva la sua epoca perché una donna si dedicasse alla scrittura, per questo sviluppò una retorica della sottomissione, che bisogna tenere ben presente se vogliamo comprenderla.

Teresa sapeva che era necessaria l’approvazione da parte dei dotti, quegli uomini che avevano autorità per determinare l’ortodossia o l’eterodossia dei suoi scritti. Dalla loro approvazione o dal loro diniego dipendeva la possibilità di diffonderli o no, di influire sui lettori, trasmettendo loro le sue idee o, viceversa, che le sue intuizioni morissero con lei. Ciò spiega il suo continuo andirivieni dagli uni e dagli altri, cercando sempre quelli più affini ideologicamente, chiedendo loro di leggere e revisionare le sue opere, accettando di perfezionare le sue espressioni o anche di riscrivere trattati interi qualora essi glielo avessero chiesto. Di fronte alla necessità di passare al vaglio della censura, si sottomette sempre al parere dei censori e accetta le loro correzioni. Sapeva che era meglio uno scritto mutilato che un testo proibito.

Per guadagnare il favore dei censori, ad ogni passo cerca di giustificare la sua attività, mostrandosi come inoffensiva, confessando di accettare gli argomenti sull’inferiorità della donna (sebbene subito affermi il contrario), insistendo che «me lo hanno molto comandato… in tutto mi sottopongo al parere di quelli che sanno più di me… trovo difficile mettermi a scrivere, quando dovrei occuparmi nel filare… di questo dovrebbero occuparsi altri più esperti e non io, perché sono molto debole e vile… poiché non ho cultura, potrà essere che mi sbagli… scrivo per donne che non comprendono altri libri più complicati…» e cose simili.

Malgrado tutti i suoi sforzi, nei margini dei suoi scritti possiamo trovare annotazioni dei censori come la seguente: «Pare che rimproveri gli inquisitori che rimuovono libri d’orazione». E depennarono con tanta furia lo sfogo del suo cuore, che non si è potuto leggere fino a tempi più recenti, con l’aiuto dei raggi X, e ancora oggi alcune righe non si possono decifrare: «Signore della mia anima, quando andavate per il mondo non avete aborrito le donne. Anzi le avete favorite sempre con molta pietà e avete trovato in esse tanto amore e più fede che negli uomini […]. Che non facciamo nulla per Voi in pubblico che valga qualcosa, né osiamo trattare di certe verità che piangiamo in segreto; ma avverrà per giunta che non abbiate ad ascoltare domanda così giusta? Io non lo credo, Signore, dalla vostra bontà e giustizia, perché voi siete giudice giusto e non come i giudici della terra, i quali figli di Adamo come sono e, in definitiva, tutti uomini non vi è virtù di donna che non tengano in sospetto […]. Che non è ragionevole rigettare animi virtuosi e forti, quantunque siano di donne» (CE 4,1).

Colpisce ancora oggi questa testimonianza personale per il fatto che le donne erano intimidite e costrette a piangere in segreto quello che non potevano dire in pubblico. Eppure, le sue lucide precauzioni furono utili e riuscirono a difendere la maggior parte dei suoi scritti fino ad oggi.

A quanto sopra, si aggiunge la difficoltà di scrivere su problematiche interiori, per le quali non servono «i termini volgari e usuali», secondo quanto dice san Giovanni della Croce (C prologo 1). I primi scritti di Teresa suppongono un tremendo sforzo per far luce sulle sue esperienze mistiche, come lei stessa conferma: «Per vari anni lessi molte cose senza riuscire a comprenderle, e per vari altri non seppi trovare parole per fare intendere quello che Dio mi accordava» (V 12,6).

La creatività letteraria

Per farsi comprendere, comincia a sottolineare l’affinità tra quanto esposto nei libri di certi autori e quello che sembra uguale a ciò che lei sta vivendo. Da qui passa a scrivere brevi Relazioni, che consegna ai suoi confessori e a persone dotte in cerca di consiglio. Più tardi elaborerà una relazione dettagliata, la quale dopo diverse redazioni darà luogo al Libro della Vita, in cui ancora non domina tutti i registri del linguaggio per farsi comprendere: «mi sentii nell’anima un certo movimento […]. Non saprei dire di che si trattasse, neppure per via di paragoni» (V 33,9). E in un’altra occasione aggiunge: «Sto struggendomi per darvi ad intendere in che consista questa operazione di amore, ma non so come fare» (6M 2,3).

Chiaramente questa incapacità di comunicare le sue esperienze, la portò a rileggere tutta la sua vita, per cercare parole con le quali spiegare a se stessa e agli altri quello che stava vivendo. Quando non le trova, sceglie di utilizzare paragoni o inventare immagini innovatrici che le sembrano «sante follie» (V 16,4).

Con lo scorrere degli eventi, le letture, i consulti a persone «dotte» e la pratica, Teresa acquisisce una fluidità ogni volta maggiore ricorrendo sempre più alla scrittura, con chiaro intento di insegnare. Tanto i suoi scritti storici e autobiografici (Relazioni Spirituali, Libro della Vita, Fondazioni), quanto i suoi trattati spirituali (Cammino di Perfezione, Castello interiore, Pensieri sull’amore di Dio) e legislativi (Costituzioni, Modo di visitare i monasteri) rispondono all’intuizione di essere un accompagnamento per oranti, una guida nella conquista del proprio mondo interiore e soprannaturale nel quale Teresa è arrivata ad essere un grande Dottore, pienamente consapevole del fatto che in quel campo aveva una parola da dire, avallata dalla sua propria esperienza: «Sono così difficili da dire queste cose interiori dell’anima che passano con tanta rapidità […]. Parlo di cose soprannaturali, che sono quelle che non si possono acquisire con il proprio sforzo né con la diligenza, anche se si cerca molto» (CC 54,1-3).

Così, dunque, all’inizio Teresa dovette lottare con il linguaggio, con la mancanza di parole adeguate per parlare della sua esperienza soprannaturale; e durante tutta la sua vita dovette confrontarsi con il contesto sociale, che discriminava le donne e non permetteva loro di scrivere (e meno ancora su cose spirituali, sempre sospette di luteranesimo). In modo particolare le difficoltà interiori e ambientali furono la principale causa della sua creatività letteraria. Solo se abbiamo chiari questi presupposti, possiamo avvicinarci alla sua vita e alle sue opere senza fraintendere il suo messaggio, come si è fatto molte volte (forse in modo inconsapevole, ma non innocente).

Come non è possibile capire la Bibbia se non si tiene presente il contesto in cui fu scritto ciascun libro (che equivale a sapere «a quali» domande concrete cerca di rispondere l’autore) e i loro generi letterari (che equivale a sapere «come» risponde ad esse affinché i destinatari possano capire), allo stesso modo non si possono comprendere gli scritti di santa Teresa senza prestare attenzione a quello che dice, a come lo dice, e anche a quello che non dice, ma che possiamo intuire leggendo le sue lettere e altre testimonianze contemporanee.

Oggi non possono essere più attendibili alcune affermazioni avanzate negli anni passati, quando non si possedevano studi seri sul contesto storico e sulla personalità di santa Teresa. Ad esempio, nell’introduzione al Castello interiore, parlando della reazione della Santa all’ordine di scriverlo da parte del padre Gracián, un autore dice: «A questa uscita, che certamente non si aspettava, la Santa si sentì costernata e supplicò con ardore il padre Gracián di non ingiungerle quel comando, di lasciarle filare la sua conocchia e seguire gli atti di comunità, come tutte le altre. Ma il Superiore non si smosse. [...] mentre la Santa andava pensando al modo di cominciare il lavoro, Dio venne in suo aiuto con una splendida visione. Già da tempo la Santa desiderava di vedere un’anima in grazia, e il Signore che dispone le cose con soavità e sapienza, esaudì i desideri della sua serva» (Egidio di Gesù, Prefazione al Castello interiore, Edizioni OCD). Questo stesso autore prosegue dicendo che scrisse il libro in uno stato di estasi e che il foglio si era tutto riempito di parole mentre lei era raccolta in orazione. (La prima edizione risale al 1950, ma è quella che si conserva tutt’oggi in italiano e che è stata rieditata nel 2010 con la medesima introduzione).

La poesia come canale d’espressione

Per farsi capire, Teresa ricorre a immagini e comparazioni, anche se insiste sempre sull’incapacità del linguaggio ordinario di verbalizzare le esperienze più profonde: «l’anima intende che Dio l’ha chiamata, e lo intende così bene che alle volte, specialmente sul principio, trema ed esce in lamenti, benché nulla le dolga. Sente di essere stata ferita, ma non sa da chi, né in che modo. Si lamenta con lo Sposo con esterne parole di amore, senza potersi frenare, perché conosce che Egli è presente [...]. Sto struggendomi per darvi ad intendere in che cosa consista questa operazione di amore, ma non so come fare. Dire che l’Amato dia chiaramente a conoscere di essere con l’anima, e che ciò nonostante chiami l’anima con un segno così evidente da escludere ogni dubbio, con un fischio così penetrante che essa ode e le è impossibile di non udire, sembra importare contraddizione» (6M 2,2).

Per questo cerca di esprimere con i versi quello che non può raccontare in altro modo. Inizialmente, ella non si sente poeta. Le prime poesie nascono da un’incontenibile esperienza mistica che cerca canali di comunicazione e scopre che il linguaggio ordinario è insufficiente: «O mio Dio, che è mai un’anima in questo stato! Vorrebbe cambiarsi in tante lingue per lodare il suo Dio, ed esce in mille santi spropositi, riuscendo in tal modo a contentare Colui che la tiene così. So di una persona che, pur non essendo poeta, improvvisava allora strofe molto espressive, nelle quali manifestava la sua pena. Non eran frutto d’intelligenza, ma sfoghi di anima per lamentarsi con il suo Dio e meglio godere la gioia di cui si sentiva inondata in quello spasimo delizioso» (V 16,4).

Della sua prima poesia, lei stessa riferisce che la compose nel 1557, in un momento di orazione, a casa di donna Guiomar de Ulloa e che le scaturì spontaneamente (Lett. 1,11 a don Lorenzo de Cepeda, del 23/12/1561), sebbene nel trascriverla non la ricordò interamente. Ciò che scrisse in quella occasione è quanto si è conservato fino ad oggi. Dice così:

Bellezza incomparabile / ch’ogni bellezza anneri,
innanzi a Te che l’anima / senza ferir mi feri
ogni terreno amore / non con rimpianto muore.

Nodo che insiem sì varie / cose congiungi e tieni,
deh! Non ti sciogliere! / Se l’anima stretta al suo Dio trattieni,
in gioie senza uguali / mutansi tosto i mali.

Quei che non è, all’Essere / che non ha fine unisci;
m’ami senza mio merito; / senza finir finisci.
Innanzi a Te, o Possente, / fai grande il mio niente (P 6).

Almeno a partire da questo momento (dell’anteriore non abbiamo certezza), la poesia e il canto (coplas, villancicos, cantarcillos) saranno per lei mezzi importanti per esprimere i suoi sentimenti. Alcune poesie avranno la stessa origine di quelle anteriormente composte, altre le scriverà adeguandosi alle musiche precedenti, per essere cantate e ballate durante la ricreazione delle monache. Avranno anche forma dialogata, per essere interpretate da varie soliste in alternanza con il coro. Le raccoglie nelle sue lettere, le invia come regalo alle sue amicizie, commenta quelle che compongono altre persone e le interscambia: «Non so che cosa mandarle in cambio di tutto quello che lei fa per noi, tranne le accluse strofette composte da me […]. Hanno un suono piecevole» (Lett. 6,14 a don Lorenzo de Cepeda, del 02/017/1577); «mi mandi anche le poesie» (Lett. 258,13 alla madre Maria di san Giuseppe, dell’8/12/1581), ecc. Da allora, nel Carmelo rimase l’usanza di realizzare e interpretare composizioni devote durante le feste conventuali.

Quando nel 1560 sperimenta per la prima volta la trasverberazione, capisce che il suo amore è così intenso che le sembrò come se un angelo le conficcasse una saetta di fuoco nel petto e le strappasse le viscere, lasciandola consumata d’amore: «un così alto amor di Dio da non sapere donde provenisse [...]. Mi sentivo morire dal desiderio di vedere Iddio» (V 29,8). Sebbene questo episodio sia stato rappresentato molte volte nell’arte, specialmente nella famosa scultura del Bernini nella chiesa di Santa María della Vittoria a Roma, lei stessa spiega che non si tratta di un angelo reale, né lo sono la saetta e il fuoco, ma sono piuttosto le immagini sensibili con cui narra accadimenti ineffabili: «Si tratta di una specie di ferita che sembra fatta nell’anima, come se qualcuno ci infligga una freccia nel cuore, oppure nell’anima. Se ne ha un dolore così vivo da uscire in lamenti, ma insieme tanto delizioso da non voler mai che finisca. Non è già un dolore corporeo né una ferita materiale: non si ha nulla nel corpo, ma solo nell’anima» (R 5,17).

Nel momento di servirsi dell’immagine dell’angelo con la saetta per spiegare questa altissima esperienza dell’amore di Dio, sicuramente fu influenzata dalla rappresentazione guardata molte volte dell’amore come Cupido, un piccolo angelo che scaglia saette, così come dalle poesie d’amore dell’epoca, che presentavano l’amato come un cacciatore e l’amata come una cerva ferita, che può trovare riposo unicamente in colui che la ferì con le frecce del suo amore. Lei stessa si servì di questo patrimonio per cantare ciò che ha vissuto:

Tutta m’offersi / e rinnovata fui:
il Diletto è per me, / e io per Lui.

Quando il dolce Cacciatore / tese l’arco alla frecciata,
fra le braccia dell’amore / caddi in pieno vulnerata.
Ma ripresi nuovo brio; / e un tal foco m’arse in petto
ché il Diletto è tutto mio / ed io tutta del Diletto.

Mi colpì d’una saetta / infocata dall’amore,
onde l’alma stretta stretta / si congiunse al suo Signore.
Or null’altro qui desìo; / per Lui solo è qui il mio affetto
Ché il Diletto è tutto mio / ed io tutta del Diletto (P 3).

Benché cercasse di passare inosservata e commentava tali esperienze mistiche solo con il confessore, man mano che si moltiplicarono le sue grazie mistiche, crebbero i pettegolezzi e le incomprensioni nella città, per cui fece di nuovo uso della poesia per cercare di spiegare quello che sentiva:

Lungi da Te la vita è di dolore: / ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morir, o mio Signore.

Cammino interminabile, / lungo e crudele esilio,
terra in cui debbo vivere, / soggiorno di periglio!
Signore amabilissimo, / concedimi d’uscire,
ché ansiosa in Te d’immergermi, / desidero morire (P 7).

Se la poesia le serve per spiegare le sue ansie di cielo («Vivo ma in me non vivo / e tanto è il ben che dopo morte imploro / che mi sento morir perché non muoio…»), se ne avvale anche per confessare che desidera solo quello che Dio desidera e che è disposta a rimanere sulla terra fino alla fine del mondo se con il suo operare può salvare una sola anima («Vostra sono, per Voi sono nata, / che volete Voi da me?)».

5.      Teresa fondatrice

A 20 anni, Teresa si fece monaca carmelitana. Non aveva molte alternative. O sottomettersi a un marito fino a morire di puerperio, come molte sue contemporanee inclusa sua madre o farsi monaca. Nei suoi scritti riflette sugli obblighi di una donna ben sposata, che deve sottomettersi in tutto a suo marito, e sulle sofferenze di quelle che hanno un marito geloso, confrontandolo con la libertà delle spose di Cristo (CE 38,1). Lei stessa riconosce che, nel decidersi per la seconda opzione, non lo faceva per motivi soprannaturali del tutto chiari: «Mi pare che a dispormi a prender l’abito agisse di più il timore servile che l’amore» (V 3,8). Inoltre, decide per le Carmelitane perché lì c’era la sua grande amica Juana Juárez: «Io guardai di più ai miei gusti e alla mia vanità che a quello che fosse meglio per la mia anima». Ma Dio sa scrivere diritto sulle righe storte.

La vita all’Incarnazione

Quando Teresa si fa carmelitana, il monastero dell’Incarnazione era un edificio nuovo, ancora non ultimato. Il primitivo beaterio del 1478 si trasformò formalmente in monastero verso il 1500. Da allora aveva conosciuto diverse ubicazioni fino a quando si poté celebrare la prima messa nell’attuale posizione il 4 aprile 1515, lo stesso giorno in cui lei fu battezzata. Il gruppo iniziale di 14 religiose non aveva smesso di crescere, arrivando ad essere di 120 nel 1540, 165 nel 1548 e 200 pochi anni dopo. I costi sostenuti per la costruzione di nuove celle e parlatori ritardavano il completamento della Chiesa e indebitarono gradualmente la comunità.

La struttura di questo e di qualsiasi altro monastero dell’epoca era un riflesso della società contemporanea, e differiva molto da quella che possiamo trovare oggi nelle comunità religiose. La comunità era composta da una piccola minoranza di monache con sincera vocazione, che volevano dedicarsi totalmente al servizio del Signore. Tra di loro ce n’erano alcune esemplari e anche sante. Inoltre, dato che non si accettava che una donna potesse rimanere nubile e la maggior parte degli uomini giovani erano arruolati nell’esercito o in America, i monasteri si trasformavano in residenze di figlie di buona famiglia per le quali i genitori non avevano ottenuto un partito conforme alla loro condizione, così come di bambine e adolescenti, figlie ribelli, pie vedove, e, nel caso dei monasteri più potenti, membri delle grandi famiglie, che si servivano dei beni e dei possedimenti del monastero per aumentare il loro patrimonio e l’influenza sociale. Ad ogni modo, poiché ogni monastero era giuridicamente indipendente (compresi gli appartenenti a una stessa famiglia religiosa), le cose potevano cambiare molto dall’uno all’altro.

– Le religiose che potevano contribuire con una dote e sapevano leggere erano di «velo nero», erano obbligate alla recita delle Ore canoniche nel coro e avevano voce e voto nei capitoli conventuali.
– Quelle che non potevano contribuire con una dote erano di «velo bianco» e si dedicavano ai servizi domestici, senza avere obbligo della recita corale (che si sostituiva con un determinato numero di «Pater Noster») e senza poter partecipare alle riunioni nelle quali si prendevano decisioni conventuali. Erano chiamate «converse». Queste ultime e le serve avevano dormitori e mense comuni, dove molte volte mancava l’essenziale.
– Le «nobildonne» che se lo potevano pagare avevano ampi appartamenti con cucina propria, dispensa, oratorio, sala per ricevere e camera da letto (è il caso di Teresa). Inoltre, potevano portare con sé vestiti, gioielli, familiari e serve che pulivano loro l’appartamento e preparavano le loro pietanze e perfino cani e altri animali da compagnia. Conservavano i loro cognomi, i titoli e i privilegi sociali delle loro famiglie di provenienza ed erano esentate dalla preghiera in comune, così come da altri obblighi.

Il monastero non era in grado di alimentare tutte le monache e curare tutte le inferme, per questo molte trascorrevano periodi più o meno lunghi nelle case dei loro genitori o di altri parenti o benefattori. Quando Teresa vi entra, ci sono 50 religiose in questa situazione. Successivamente, anche lei risiederà lunghi periodi fuori dal monastero.

Oltre a questi tre tipi di religiose («di coro», «converse» e «nobildonne») e delle bimbe e donzelle interne, nelle proprietà del monastero c’erano case per gli ortolani, per l’amministratore delle rendite e per gli altri servi che si prendevano cura delle stalle, dei fienili e del pollaio, pascolavano i greggi, raccoglievano i fitti che il monastero aveva in vari paesi (frutto di doti di alcune monache o di eredità di secolari in cambio di essere sepolti nella chiesa e di determinati suffragi per le loro anime), portavano il grano nei mulini e la farina ai forni, ecc. La comunità, come prassi, aveva anche cappellani e confessori, medici, chirurghi, notai, procuratori e letterati. Perciò, l’Incarnazione sembrava più una piccola città che non quello che oggi identifichiamo con un monastero. Lì c’erano donne di tutte le condizioni sociali, tanto tra le monache quanto tra le secolari.

Com’è naturale, tra quelle che erano obbligate dai loro familiari a rimanere nel monastero, ce n’erano molte demotivate. Riguardo ad esse scriverà santa Teresa che «sono con più pericolo che nel mondo», e che «è preferibile accasarle molto umilmente che metterle nei monasteri». Descrive anche alcune usanze alle quali lei non partecipò mai, ma che erano molto comuni tra queste donne senza vocazione: «curavo assai quelle esteriorità che il mondo ha tanto in pregio […]. Però, io non ne ho mai abusato, né ho mai fatto nulla senza il debito permesso. […] nessuno avrebbe potuto parlare con me in monastero di notte, attraverso fori o dietro i muri» (V 7,2).

Già abbiamo detto che Teresa si fa monaca senza una chiara consapevolezza vocazionale: «Benché ancora non mi decidessi per il chiostro, vedevo tuttavia che quello era lo stato migliore e più sicuro, e così a poco a poco mi risolvevo ad abbracciarlo» (V 3,5). Tuttavia, le pie letture, il buon esempio di alcune sorelle e il suo carattere generoso la fecero arrivare a prendere molto sul serio quella vita. Nel monastero trovò una pace e una gioia che la pervasero. Si sentiva così a proprio agio che non aveva nostalgia delle sue precedenti occupazioni: «soprattutto quando mi avveniva di spazzare in quelle ore che prima solevo occupare in vanità» (V 4,2).

La giovane monaca si dedicava con entusiasmo alle pratiche religiose: confessioni frequenti, orazione nel coro, servizi alle sorelle, compimento di umili uffici, digiuni e penitenze. In quest’ultimo campo non aveva chi la guidasse attraverso le vie della moderazione e la sua impetuosità la portò ad estremi esagerati che più tardi condannerà nelle sue opere. Una testimone dirà: «Faceva tante grandi e straordinarie penitenze, che le ridussero la salute». Effettivamente, gli eccessi furono sul punto di ucciderla: «Gli svenimenti aumentarono, con l’aggiunta di un mal di cuore così violento che quanti mi assistevano ne rimanevano spaventati […]. Il male si aggravava sempre più, tanto che, abitualmente, ero quasi fuori dei sensi, e molte volte fuori del tutto» (V 4,5). È risaputo che le cure di una «guaritrice» di Becedas la stavano quasi uccidendo e che in seguito guarì per intercessione di san Giuseppe.

Trascorse all’Incarnazione 27 anni dedicandosi alle preghiere comunitarie, alla lettura spirituale, all’orazione personale nel suo oratorio privato, all’assistenza della sorella più piccola (che condividerà la sua cella per dieci anni dalla morte di suo padre fino al suo matrimonio, come lo faranno più tardi anche altre due parenti), alle cure verso le inferme della casa e all’attenzione nei riguardi di numerose persone che sollecitavano la sua compagnia nel parlatorio. I testimoni dell’epoca parlano della generosità e della pietà di Teresa, così come della sua simpatia e della semplicità del suo rapportarsi. Molti la consideravano una religiosa esemplare. Lei, tuttavia, non era propriamente contenta, si sentiva combattuta: «Dio mi chiamava da una parte, e io seguivo il mondo dall’altra. Le cose di Dio mi davano piacere, e non sapevo svincolarmi da quelle del mondo. Insomma, pareva che volessi conciliare questi due nemici» (V 7,17). Infine Dio vinse totalmente. A tale riguardo esclama: «castigavate i miei peccati con l’abbondanza dei vostri doni!» (V 7,19) e «mi sono stancata prima io a offenderlo che non Lui a perdonarmi» (V 19,15).

San Giuseppe d’Avila

Una sera di settembre del 1560, nella cella di donna Teresa si trovavano riunite due sue nipoti che lì allevava, e altre dieci amiche religiose, per commentare una lettera circolare che il re Filippo II aveva fatto pervenire a tutti i monasteri, nella quale esponeva i danni causati dai luterani in Francia e nel resto dell’Europa, chiedendo preghiere per l’unità della Chiesa. Cominciarono a trattare del gran bene che fa la preghiera dei buoni religiosi, degli antichi eremiti del Monte Carmelo, di fra Pietro di Alcántara e delle Scalze reali, che egli aveva riformato, di come sarebbe bello vivere in una comunità simile… Sua nipote Maria de Ocampo assicurò che, se si realizzava, avrebbe apportato mille ducati e Donna Guiomar, che si era unita al gruppo, promise anche il suo aiuto. Teresa non era molto convinta, fino a quando pochi giorni dopo sentì, mentre si comunicava, che il Signore «mi ordinò decisamente di far di tutto per attuare quel disegno, assicurandomi che il monastero si sarebbe fondato» (V 32,11).

Furono due anni di lotte continue. I suoi conoscenti (specialmente il confessore) dissero che era una follia. Lei voleva pareri autorizzati, perciò scrisse a san Pietro di Alcántara, a san Francesco Borgia e san Luigi Bertran, i quali risposero appoggiandola incondizionatamente. Anche il provinciale dei Carmelitani approvò la fondazione, per cui decide di chiedere un Breve papale per realizzarla. Quando si venne a sapere la notizia all’Incarnazione e nella città, la maggior parte si schierò contro, per cui il provinciale ritirò il suo appoggio (cf. V 32,15).

L’accusavano di essere allucinata e indemoniata, per cui chiese il parere del teologo più rinomato in quel momento ad Avila: il domenicano padre Pietro Ibáñez, per il quale scrisse un lungo memoriale di 40 paragrafi dove espose la situazione del suo spirito, è la prima Relazione spirituale che conserviamo: «Ecco come ora faccio orazione. È raro che nell’orazione possa discorrere con l’intelletto, perché l’anima comincia subito a raccogliersi e ad entrare nella quiete o nel rapimento, per cui non posso più servirmi delle potenze e dei sensi […]. Ne ho riportato una ferma risoluzione di non più offendere il Signore, neppure venialmente, pronta a soffrire mille morti piuttosto che farlo con proposito deliberato […]. Malgrado tutto, benché sia persuasa che in me agisca il Signore, per nulla al mondo farei cosa che il mio direttore non giudicasse di maggior gloria di Dio […]. Queste le meraviglie che il Signore ha operato in me. E al giudizio di Vostra Grazia rimetto ora ogni cosa» (R 1). È interessante notare che non parla di penitenze (l’ideale di perfezione dell’epoca), ma di esperienza personale di Dio (sospetta in quel momento di luteranesimo). Nonostante l’opposizione della città e le pressioni che ricevette, il parere del domenicano fu positivo e l’accompagnò con un giudizio elogiativo, scritto in 33 punti.

Rincuorata, decise di chiedere un secondo Breve papale; questa volta mettendo il monastero sotto l’obbedienza del vescovo, giacché il precedente permetteva di fondarlo sotto l’obbedienza del provinciale dei Carmelitani, che ora non lo accettava. Poiché il vescovo non era neppure disposto a prendere il monastero sotto la sua obbedienza, san Pietro di Alcántara gli scrisse una bellissima lettera sollecitandolo: «Una persona molto spirituale, con vero zelo, da tempo pretende di fondare un monastero religiosissimo in questo luogo […]. Per amore di Nostro Signore chiedo alla vostra signoria che la protegga e la riceva».

Don Alvaro de Mendoza non si lasciò impressionare e tornò a manifestare il suo rifiuto. Finalmente, san Pietro di Alcántara si diresse alla residenza di riposo del vescovo a El Tiemblo, ma non poté strappargli una risposta positiva. Tutto quello che ottenne fu la promessa che quando sarebbe tornato ad Avila sarebbe andato personalmente a conoscere la monaca della quale aveva tanto sentito parlare per ascoltare le sue ragioni. Così racconta l’incontro il segretario del vescovo, don Juan Carrillo: «Fra Pietro di Alcántara lo condusse al monastero dell’Incarnazione dove stava la madre Teresa di Gesù, perché trattasse con lei l’affare della fondazione; e la sera che venne il vescovo per fare ciò, questo testimone gli sentì dire che Nostro Signore lo aveva trasformato completamente perché gli aveva parlato per la bocca di una donna, e veniva convinto che per nessun motivo si sarebbe tralasciata di fare la fondazione di San Giuseppe». In quel momento don Alvaro divenne amico e confidente della Santa, arrivando ad essere il suo discepolo e a lasciarle i suoi beni in eredità.

Anche se le contraddizioni esterne aumentarono, fece venire da Alba sua sorella Giovanna e suo cognato, perché prendessero l’incarico delle opere di adattamento di una casetta in un quartiere popolare fuori dalle mura (cf. V 33,44). Le opere si dilungarono perché taluni muri crollarono, cadendo sopra uno dei nipoti di Teresa, il quale rimase come morto. Nel venirne a conoscenza, si precipitò sul posto e prese da terra il corpicino, abbracciandosi ad esso. Il bambino si svegliò e Teresa lo consegnò a sua madre. Gli operai lo ritennero un miracolo. Lei rispose loro che sarebbe stato un miracolo se il muro fosse rimasto in piedi, poiché era stato tanto mal costruito, e che dovevano tornare ad alzarlo. Il denaro mancava, ma fu di grande aiuto l’inatteso arrivo di alcune monete d’oro, inviate dall’America da suo fratello Lorenzo (Lett. 1,1-2 a don Lorenzo de Cepeda, del 23/12/1561).

Lei si fece carico personalmente di ultimare le opere di ristrutturazione: «Accomodò una piccola porzione per la Chiesa, con una piccola grata di legno molto spessa, da dove le monache seguissero la messa, e un piccolissimo ingresso da dove si entrava in Chiesa e nella casa, perché tutto, nel piccolo e povero, rappresentava la grotta di Betlemme». Non senza nuovi lavori, si superarono le ultime difficoltà e il 24 agosto del 1562 venne inaugurato il conventino di San Giuseppe (cf. V 36,5). Teresa aveva 47 anni.

Gli inizi furono molto difficili. I pochi amici che le restarono si dimostrarono fedeli in quei giorni terribili. Francesco de Salcedo arrivò a patire con pazienza burla e persecuzioni per aver visitato e favorito le monache di San Giuseppe. Il consiglio della città convocò una riunione per trattare il caso. Furono convocati il sindaco, quattro assessori, due cavalieri, il vicario, tre canonici, i priori di cinque conventi maschili accompagnati da un frate di ogni Ordine, due consulenti del municipio e due rappresentanti del popolo: venticinque uomini riuniti per discutere sui progetti di un gruppetto di donne. Certamente non fu consultata nessuna donna che rappresentasse i sei monasteri femminili della città, ancor meno le interessate. In detta riunione, padre Domenico Báñez fu il suo unico difensore. Quando tutti erano pronti a sopprimere il nuovo monastero, fece notare che non potevano, sotto pena di scomunica, in quanto aveva gli opportuni permessi del vescovo e di Roma.

Poiché non lo potevano sopprimere, il Comune fece loro causa, perché affermava che il muro di cinta del piccolo monastero faceva ombra alle fontane pubbliche. L’argomento aveva poca consistenza, ma con questa e altre storie simili deliberarono di presentare il contenzioso davanti al re, perché desse ordine di chiudere il monastero. Col tempo la questione si placò e il contenzioso fu dimenticato, venendo chiuso formalmente solo nell’anno 2012, in una seduta straordinaria del Comune abulense in occasione del 450° anniversario della fondazione di San Giuseppe.

All’epoca, l’importanza di una città si stimava in base al numero delle chiese e dei monasteri che vi erano. I più apprezzati erano quelli più austeri. Per questo stupisce l’opposizione all’opera fondatrice di Teresa. Dobbiamo tener presente che la causa non fu essenzialmente un motivo economico. Un monastero vicino avrebbe potuto muovere l’obiezione che le elemosine vanno ripartite o che non ce n’erano per tutti. Ma non è questo il caso (come, invece, lo sarà qualche volta nelle fondazioni successive). L’opposizione non viene da uno o più monasteri, ma da tutta la città, per cui le cause vanno cercate altrove.

Una la analizzeremo chiaramente più avanti: fino ad allora monasteri, chiese, ospedali o istituzioni analoghe erano stati fondati da uomini, i quali acquistavano i terreni, dirigevano i lavori e stabilivano le condizioni. Teresa ebbe l’ardire di compiere azioni altrettanto importanti di propria iniziativa. Inoltre, in un contesto di timore davanti alle divisioni ecclesiali causate dalla Riforma luterana, la proposta di interiorità e vita semplice di Teresa sapeva di protestantesimo. La fondazione di San Giuseppe assomigliava troppo alle abitazioni della gente comune e troppo poco all’immagine di un monastero. A nostro avviso, la vera causa della ripulsa iniziale è proprio questa.

Comunque, il Signore stesso la consolò facendole sentire nell’orazione che «Sua Maestà volesse aiutarmi nell’erigere questo piccolo angolo di cielo, come credo che sia questa casa nella quale Egli trova le sue compiacenze» (V 35,12), e dicendole di non preoccuparsi «perché non sarebbe stato distrutto» (V 36,16). Quando la gente venne a conoscenza del modo di vivere di Teresa e delle sue monache, si superò ogni pregiudizio e tutti si affezionarono ad esse, e molti degli antichi persecutori si trasformarono in benefattori: «Era molta la devozione che il popolo cominciò ad avere con questa casa» (V 36,25). Per lei cominciarono «i cinque anni più tranquilli della mia vita» (F 1,1).

Un nuovo stile di vita

Nel frattempo, a San Giuseppe di Avila si confermano i principi di base della tradizione carmelitana, che lei aveva appreso all’Incarnazione e che mai abbandonerà: la vita in ossequio di Gesù Cristo, segnata dall’amore per la Parola di Dio e da una forte dimensione orante, il culto dell’interiorità nel silenzio, i riferimenti a Maria e al profeta Elia, quali modelli di orazione e di servizio.

All’eredità carmelitana si associano armoniosamente altre nuove intuizioni, che daranno vita a quella che nel futuro sarà una delle più feconde correnti di spiritualità che alimentano la Chiesa. Non è che Teresa avesse tutto chiaro fin dal principio: saranno la vita e il dialogo continuo con le sorelle della casa che andranno segnando il cammino da seguire.

Ciò che ha chiaro fin dal principio è che le monache di San Giuseppe si sono consacrate interamente al servizio di Cristo. Egli sarà il centro e la ragione della loro esistenza, non le cose che fanno né gli uffici che disimpegnano. Gesù sarà il loro amico, compagno e sposo, con il quale vogliono gioire, che sono disposte a consolare e per il quale non importa loro di morire. Si consacrano per servirlo ed amarlo, non per praticare determinate devozioni o attività religiose, che saranno utili solo nella misura in cui favoriscono l’unione con Cristo.

Innanzitutto, le monache di San Giuseppe saranno «un piccolo collegio di Cristo», composto da un massimo di 13 donne (12 più la priora, come gli apostoli attorno al Signore, anche se più tardi il numero aumenterà fino a 21). Poche, ma con ferma vocazione. Non ammetteranno pressioni esterne per accogliere le une o le altre, né accetteranno persone che cercano di «ripararsi», come dice lei. Le candidate saranno molto ben selezionate, in modo tale che entrino solo quelle che liberamente vogliono aderire al dato stile di vita e siano qualificate per esso. Insiste con le sue sorelle sul fatto di «non smettere mai di ricevere quelle che vengono perché vogliono essere monache, anche se non hanno beni di fortuna, se li posseggono di virtù». Per lei è più importante un buon intelletto che un buon cognome o una buona dote.

Teresa cambia nome, come segno che inizia una nuova vita. Da quel momento non si chiamerà più «Donna Teresa de Cepeda y Ahumada», ma «Teresa di Gesù». Anche le sue compagne cambiano i cognomi civili per altri religiosi. Tra di loro non è importante la famiglia di provenienza, in quanto tutte si considerano uguali, figlie dello stesso Padre celeste e spose dello stesso Signore Gesù. In principio, non si ammettono suore converse né serve, né trattamenti che indicano l’appartenenza a uno stato superiore, giacché si cerca l’esperienza di una fraternità intensa e semplice. «Qui tutte si devono amare, tutte si devono voler bene, tutte si devono aiutare», scriverà la madre Teresa, la quale aggiunge che vivranno del lavoro delle loro mani e che, indipendentemente dall’incarico che occupano, tutte faranno il turno nei servizi necessari per il mantenimento della casa: cucina, pulizia, lavanderia, orto, attenzione alla portineria… «Gli uffici di pulizia, a cominciare dalla priora».

L’autorità si eserciterà come un servizio di abnegazione, avallato dalla vita prima che dalle leggi: «La priora cerchi di essere amata per essere obbedita». Si adoperi perché ognuna si alimenti e riceva in base alle proprie esigenze, indipendentemente dall’incarico e dall’età. In modo particolare, dovrà prendersi cura delle inferme con la massima sollecitudine, arrivando a stabilire nelle Costituzioni: «Se è necessario, che manchi l’essenziale a quelle che stanno bene in salute per accontentare quelle inferme».

Quando più tardi mette per iscritto gli elementi fondamentali che devono caratterizzare le Carmelitane scalze, prima di parlare dell’orazione o delle pratiche religiose, considera che è necessario mettere in chiaro che il vero fondamento della consacrazione religiosa consiste nelle virtù umane che favoriscono la convivenza: la sincerità, l’affabilità, l’educazione, la gratitudine, la laboriosità, l’igiene… Specialmente parla dell’importanza di praticare tre virtù per poter essere veramente oranti: l’amore delle une con le altre, il distacco da tutto il creato e l’umiltà, che le abbraccia tutte e che consiste nel camminare nella verità.

Per Teresa umiltà, onestà, amore per la verità, conoscenza di sé… sono parole sinonime che invitano alla naturalezza, alla «semplicità» (per dirlo con le sue parole), a non apparire davanti agli altri, arrivando ad affermare che «è grande sollievo camminare con chiarezza». Il suo discepolo Giovanni della Croce dirà che «è insopportabile» l’attaccamento di alcune persone alle cerimonie complicate e la loro mancanza di semplicità nelle cose della fede (3S 43,1).

Dopo aver parlato di ciò che lei chiama «grandi virtù», può soffermarsi su tutto quello che si riferisce all’orazione personale delle religiose, al suo aspetto contemplativo: saranno eremite, con stanze individuali e lunghi tempi dedicati alla solitudine, specialmente un’ora di orazione al mattino e un’altra alla sera. L’orazione non si intende come meditazione, sforzo dell’intelligenza per comprendere il mistero, tale e quale pretendono quelli che «prendono le cose in un modo così ragionevole e misurato secondo la loro comprensione, che sembra che vogliono capire con la loro istruzione tutta la grandezza di Dio». Al contrario, l’orazione è un «rapporto di amicizia», in cui si stabilisce una relazione affettuosa con Cristo. Contro quello che possono dire alcuni dotti, «non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare».

Com’è naturale nelle persone consacrate la giornata sarà segnata dalla celebrazione dei sacramenti e dalla recita della lode divina. Anche se nel monastero si viveva con grande povertà, Teresa amava che si spendesse il necessario per l’ornamento della Chiesa (fiori, profumi, ornamenti liturgici, immagini devozionali) e che le celebrazioni si facessero con dignità, ma con grande sobrietà. Non vuole che le sue monache debbano perdere molto tempo nelle prove di canti difficili né che le celebrazioni si trasformino in concerti o in intrattenimenti per persone disoccupate, per cui preferisce il canto in rettotono e le melodie semplici alla polifonia. Molte volte chiedeva ai sacerdoti amici che spiegassero alla comunità il significato di qualche salmo o di qualche lettura dell’Ufficio divino. Lei si comunicava ogni giorno (qualcosa di veramente eccezionale nella sua epoca), e voleva che anche le sue monache lo facessero o, almeno, che si comunicassero spesso.

Non prescrive pratiche devozionali (neanche il rosario, malgrado lei lo recitasse ogni giorno), né metodi né formule di orazione: «Ciò che più vi muove ad amare, quello fate!». Per alcune può essere utile iniziare con una lettura spirituale e per altre guardare con attenzione un quadro o un’immagine. Per qualcuna può servire rimanere in ginocchio e per un’altra stare seduta. Le pie giaculatorie saranno utili per alcune e la contemplazione della natura per altre. Lei sa che non tutte le persone possono fare «composizioni di luogo» o concentrarsi nella meditazione, però tutti siamo capaci di amare. Quindi, insiste perché parliamo a Gesù con la stessa naturalezza con la quale parleremmo a un padre o a uno sposo o a un amico, raccontandogli le nostre cose, stando in sua compagnia, lasciandoci guardare da Lui. L’importante è che l’orazione sia autentica e che non si disinteressi della vita, ma che sbocchi nell’esercizio dell’amore e nel servizio (cf. F 5).

Di fatto, l’orazione non si limita ai momenti che le religiose trascorrono insieme nel coro della Chiesa. Lei ha chiaro che «anche tra le pentole si trova il Signore» e che sarebbe molto spiacevole se lo si potesse trovare solo «in qualche cantuccio». Quindi chiede alle sorelle di non preoccuparsi se qualche volta devono tralasciare i tempi di orazione per prendersi cura di qualche ammalata o fare altri servizi necessari, perché anche in quelle attività stanno servendo il Signore, giacché le svolgono per amore verso di Lui. Più tardi, quando si moltiplicano i suoi viaggi e le sue occupazioni, le verrà il pensiero che si serve meglio il Signore stando lontana da quegli affari, ma sentirà che Gesù stesso le dice che non si debbono tralasciare, in quanto basta che faccia tutto con retta intenzione e con distacco, come Lui stesso fece in tutte le sue attività (cf. R 11).

Amica della cultura e della buona istruzione vuole che le sue monache abbiano una formazione. È nemica di «devozioni balorde». Vuole che la loro vita spirituale si costruisca su fondamenta solide. Quindi, chiama i migliori predicatori che trova, perché tengano nella Chiesa e nel parlatorio sermoni per le religiose. La priora deve aver cura che la biblioteca conventuale disponga di buoni libri e che l’orario permetta che le sorelle abbiano tempo per la lettura spirituale e per la formazione tutti i giorni. Ma l’«istruzione» non è un fine a sé, bensì un mezzo per meglio conoscere e meglio amare Gesù Cristo. Teresa sa che può nascere una sottile superbia in coloro che si credono superiori per il fatto di avere più studi o più conoscenze. Come abbiamo detto sopra, insiste con le sue monache perché siano semplici nelle relazioni. Non devono essere ricercate nel parlare né entrare in discussione per questioni di parole o di concetti. Tra le Carmelitane scalze, la cultura non può entrare in contraddizione con la semplicità e la naturalezza.

Introduce nella vita delle monache la novità di dedicare un’ora al mattino e un’altra alla sera alla convivenza intensa e rilassante. È la «ricreazione», nella quale si condividono le gioie e le contraddizioni della giornata tra poesie, canzoni e scherzi, mentre si cuce o si realizzano altre attività che non hanno bisogno di troppa attenzione. Conserviamo molti dei poemetti composti dalla Santa per queste ricreazioni: canti per celebrare il Natale, o la Circoncisione, o l’Epifania, o la Settimana Santa, o le feste di sant’Andrea, sant’Ilarione, santa Caterina o in occasione di alcuni eventi comunitari, come l’inizio del noviziato o la professione delle sorelle; compreso uno per supplicare il Signore di essere liberata da un attacco di pidocchi.

Le tue mani onnipotenti / ci hanno dato un bel vestito:
dalle bestie impertinenti / deh! preservaci, Signor!

Vi sarebbe di tormento / quando entrando in orazione
non aveste a fondamento / una soda devozione.
Sian però le vostre menti / in Dio fisse pur allor!
Dalle bestie impertinenti / deh! preservaci, Signor (P 31).

Nella sua epoca, l’autenticità dell’esperienza religiosa si misurava con la capacità di rinuncia e con le penitenze. Nella vita dei Santi si leggevano i loro digiuni e i loro sacrifici. Lei aveva voluto imitarli con conseguenze fatali per la sua salute. Ora, per l’esperienza personale, scrive che «nella vita dei Santi ci sono cose da ammirare e cose da imitare». Le loro penitenze rientrano nella categoria dell’ammirabile, le loro virtù in quella dell’imitabile. Nel monastero di San Giuseppe si insisterà sulla pratica delle virtù, sull’identificazione con Cristo e con i suoi sentimenti, sull’unione amorosa con Lui. L’austerità e l’ascetismo si faranno con moderazione e soavità, «insistendo di più sulle virtù che sul rigore, perché questo è il nostro stile». L’austerità della vita non è un fine in se stesso, ma un mezzo per concentrarsi sull’essenziale, evitando dispersioni.

La gioia delle sorelle sarà la migliore espressione del fatto che le loro vite siano totalmente incentrate su Cristo, il quale riempie i loro cuori. Solo l’unione con Lui può trasformarle in quella luce, sale e lievito di cui il mondo ha bisogno.

L’«estetica» teresiana

A San Giuseppe nasce anche una «estetica» teresiana, una maniera di guardare al mondo e di rappresentarlo. Santa Teresa proviene dall’Incarnazione, monastero costruito nella periferia della città con numerose abitazioni intorno a un chiostro monumentale, con una chiesa in grado di accogliere molti fedeli e con varie strutture attorno al nucleo centrale per ospitare i cappellani, la servitù, i pagliai, gli animali da cortile… I monasteri tradizionali, con i loro solidi edifici, servivano per ricordare al mondo i valori eterni. Se si trovavano distanti dalle città, invitavano ad abbandonare i beni di questo mondo per cercare quelli del cielo.

San Giuseppe sorgerà più come una casa in mezzo a un quartiere rumoroso. La cappella sarà piccola e raccolta, senza campanile, ma con una campanella appesa al muro, per richiamare alla preghiera. La casa di Teresa ricorda quella della società del tempo perché Dio «ha messo la sua dimora in mezzo a noi» e rimane sempre accanto a noi «aiutandoci nell’interiore come nell’esteriore». Lei, che voleva che le sue monache incontrassero Dio non solo nel tempio, ma anche «tra le pentole» e nelle altre attività quotidiane, vuole che la popolazione senta le sue monache vicine, prossime. Per questo, l’architettura conventuale non differiva molto da quella delle abitazioni circostanti.

La cucina, le celle e gli altri ambienti del monastero saranno austeri e funzionali: pareti intonacate, pavimenti in piastrelle di argilla, travi in legno non decorate, una croce nuda nella parete, un appoggio vicino alla finestra per scrivere, una candela, le cose utili da lavoro (fuso, aghi per ricamare, ecc.) e un orcio di acqua per lavarsi. In luoghi appositi saranno collocati alcuni quadri e immagini per mezzo dei quali si cerca di risvegliare la devozione al di là del valore artistico o economico.

Per produrre frutta e verdura e per garantire il passatempo alle sorelle, si curerà l’orto, in cui si pianteranno anche fiori lungo il rigagnolo e si costruiranno alcuni piccoli romitori per il ritiro personale. Tutto è rivolto alla ricerca della bellezza interiore, l’unica che perdura nel tempo. Tutto molto semplice, molto raccolto e molto pulito: «Mi pare molto sconveniente fabbricare grandi case con il denaro dei poveri. La nostra sia piccola e modesta, perché per tredici poverelle, il più piccolo cantuccio è sufficiente […]. Ricordatevi che nel giorno del giudizio dovrà tutto cadere» (CE 2,9).

Sensibilità apostolica

È una delle caratteristiche più sorprendenti di questa monaca contemplativa. Da buona carmelitana, ha come modello il profeta Elia. L’Ordine del Carmelo parla sempre del suo «doppio spirito» (quello contemplativo e quello apostolico), che si manifesta nei suoi due motti, sempre presenti nella spiritualità dell’Ordine. La dimensione contemplativa trova espressione nel motto «per la vita di Dio, alla cui presenza io sto» (1Re 17,1; 18,15). La dimensione apostolica si trova nell’altro motto eliano, tuttora presente sullo scudo carmelitano: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti» (1Re 19,10;14). Ciascuna carmelitana deve fare un cammino personale per combinare queste due realtà, in modo che non si rompa l’armonia, che l’orazione sia apostolica e l’apostolato sia orante.

Santa Teresa diceva che Marta e Maria devono darsi la mano (cf. 7M 4,12) e che tutte le raccomandazioni di Gesù ai suoi discepoli si riassumono nel comandamento dell’amore: «Per noi la volontà di Dio non consiste che in due cose: nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo. Qui devono convergere tutti i nostri sforzi. E se lo faremo con perfezione, adempiremo la volontà di Dio e gli saremo unite» (5M 3,7). Le piaceva ripetere quanto diceva san Giovanni: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

Dal suo innamoramento per Cristo e dalla sua relazione personale con Lui scaturirono le sue bramosie evangelizzatrici e il suo amore appassionato per la Chiesa e per tutti gli uomini, specialmente per i peccatori e per quelli che più soffrono (poveri, infermi, ecc.). Di fatto, insisterà con le sue monache affinché la loro principale occupazione sia pregare per la Chiesa e per le sue necessità, avendo presenti tutti gli uomini davanti al trono di Dio, giorno e notte. Il suo profondo amore per la Chiesa la porta a identificarsi con la sua causa e a dedicare tutte le sue energie a tale servizio, senza perdere tempo in cose secondarie: «Tutto il mondo è in fiamme, vogliono condannare ancora Gesù Cristo, si adoperano per distruggere la sua Chiesa […]. Sorelle mie, non è questo il tempo da sciupare in domande di cose di poca importanza» (CE 1,5).

Confessa che le divisioni religiose del momento sono state il motore che l’hanno spinta a fondare: «Venuta a conoscenza dei danni di questi luterani e dell’incremento che andava prendendo quella setta malaugurata, mi lamentai con il Signore, supplicandolo di por rimedio a tanto male […]. E avendo il Signore tanti nemici e così pochi amici, che questi almeno gli siano devoti; e così venni nella determinazione di fare il poco che dipendeva da me; osservare i consigli evangelici con ogni possibile perfezione, e procurare che facessero altrettanto le poche religiose di questa casa […]. Tutte occupate nell’orazione per i difensori della Chiesa, per i predicatori e per i dotti […]. Per questo il Signore vi ha raccolte qui; questa è la vostra vocazione, queste devono essere le vostre incombenze» (CE 1,2-5).

La sua passione per le anime rimane ampiamente documentata nei suoi scritti e nelle testimonianze dei suoi contemporanei, come in questa di Isabella di san Domenico: «Diceva spesso che se fosse stato lecito alle donne di poter andare ad insegnare la fede cristiana, lei sarebbe andata ad insegnarla nella terra di eretici, anche se al costo di mille vite». La presenza dei fratelli di Teresa in America la tenne ampiamente informata dei progressi e degli abusi della Conquista. Fu sempre preoccupata per la sorte degli indigeni, arrivando a scrivere «che non mi costano poche lacrime questi indios».

Speciali bramosie missionarie si svegliarono in lei e nelle sue compagne a causa della visita al parlatorio di San Giuseppe di un amico del vescovo Bartolomeo de Las Casas, che con un memoriale era diretto a difendere la causa degli indios davanti al re e alla Corte: «venne a trovarmi un religioso francescano, gran servo di Dio, chiamato fra Alfonso Maldonado, che aveva i miei stessi desideri per la salvezza delle anime, ma del quale io avevo grande invidia perché li poteva mettere in pratica. Era tornato da poco dalle Indie, e cominciò a raccontarmi dei molti milioni di anime che laggiù si perdevano per mancanza d’istruzione religiosa. […] mi ritirai tutta in lacrime in un romitorio, e là innalzando la mia voce al Signore, lo supplicai di fornirmi di qualche mezzo per contribuire a guadagnarne qualcuna al suo servizio […]. Invidiavo molto coloro che per amor di Dio potevano darsi all’apostolato» (F 1,7).

Con le sue bramosie evangelizzatrici aumenta anche la sua sensibilità verso i più deboli e la sua voglia di giustizia per i popoli evangelizzati. Nell’anno in cui fu fondato San Giuseppe, scrive una seconda Relazione spirituale per padre Pietro Ibáñez, nella quale rende conto della sua orazione e della sua evoluzione in questo campo: «Dei poveri mi sembra di avere compassione più ora che una volta. Ne ho tanta pietà e tanta brama di soccorrerli che, ascoltando il mio cuore, darei loro anche l’abito che porto. Non solo non sento ripugnanza di parlare con loro, ma neppure di prenderli per mano. E riconosco che questo è un puro dono di Dio, perché, se per amor suo facevo elemosina anche prima, tuttavia compassione naturale non ne sentivo. Insomma, su questo punto mi sento molto migliorata» (R 2,3). Più avanti scriverà una lettera a suo fratello Lorenzo condividendo le sue sofferenze per alcune notizie che riceve sulle conquiste americane: «ciò che mi affligge maggiormente è vedere perdersi tante anime, e quei suoi indiani non mi costano poco. Il Signore li illumini, perché sia qui, sia lì, ci sono grandi sventure. Siccome vado in tanti luoghi e mi parlano molte persone, spesso non so che dire, se non che siamo peggiori delle bestie» (Lett. 2,13 a don Lorenzo de Cepeda, del 17/1/1570).

Donna «inquieta e vagabonda»

Teresa godeva della pace del suo conventino di San Giuseppe: «Era la mia gioia passarmela con anime così sante e pure, la cui unica brama era di servire e lodare il Signore» (F 1,2). Molte giovani le chiedevano di potervi entrare, ma lei non era disposta ad accettare più delle 13 che già vivevano lì, perché sapeva per esperienza i pericoli dei monasteri numerosi. Voleva fare qualcosa per queste donne che avevano intenzione di unirsi a lei, anche se non sapeva che cosa, né trovava un luogo appropriato dove mandarle. Inoltre, cresceva in lei il desiderio di fare qualcosa per gli altri, benché fosse consapevole che alle donne della sua epoca era proibito realizzare qualsiasi apostolato: «Considerando la grande generosità di quelle anime e il coraggio che Dio loro concedeva per soffrire e impiegarsi nel suo servizio, mi veniva spesso da pensare che nel ricolmarle di tante ricchezze il Signore doveva avere qualche grande finalità. […]. Tuttavia, più il tempo passava e più in me crescevano i desideri di contribuire al bene di qualche anima, parendomi, molte volte, di essere come una persona in possesso di un grande tesoro, desiderosa di farne parte a tutti, ma impotente a distribuirlo perché con le mani legate» (F 1,6).

Sa che la sua proposta di vita è buona per la Chiesa, si sente in possesso di un grande tesoro che vorrebbe condividere con tutto il mondo, ma è anche cosciente che la sua condizione di donna le sbarrava le porte a qualsiasi possibilità di mettere in pratica i suoi grandi desideri. Con una espressione altamente significativa dice che è come se le legassero le mani. Come già abbiamo visto, quella era la triste situazione delle donne nella società della sua epoca e le cose non erano molto diverse nel seno della Chiesa. L’unica vocazione femminile che si accettava era quella di monaca di clausura e alle consacrate non si permetteva di realizzare nessuna opera a favore dei loro simili.

Non trovando comprensione tra gli uomini, rivolge la sua preghiera al cielo: «lo supplicai di fornirmi di qualche mezzo per contribuire a guadagnarne qualcuna al suo servizio […]. Invidiavo molto coloro che per amor di Dio potevano darsi all’apostolato […] e mi accade tuttora, leggendo la vita dei santi, di sentire maggior devozione, invidia e tenerezza per le conversioni da essi fatte, che non per i tormenti a cui sono andati soggetti» (F 1,7). Lei desiderava lavorare per far conoscere Cristo, annunciare il suo vangelo, diffondere il suo amore nei cuori e provava invidia dei missionari, dei sacerdoti, di quelli che potevano annunciare pubblicamente la fede.

Da allora, «Stando dunque in questa grandissima pena, una notte, mentre ero in orazione, mi apparve nostro Signore nella maniera che suole, e mostrandomi grande amore mi disse, quasi a consolarmi: “Aspetta un poco, o figlia, e vedrai grandi cose”» (F 1,8). Teresa commenta che queste parole le si erano impresse nel cuore e che non le poteva distogliere da sé, anche se non riusciva a pensare cosa potevano significare. Sapeva che si sarebbero compiute, ma non poteva indovinare la maniera. L’enigma fu chiarito alcuni mesi più tardi.

Nel frattempo, il Concilio di Trento, nelle sue ultime sessioni, aveva redatto i decreti per la riforma del clero e dei religiosi. Nel 1567, Pio V, appena eletto Papa, esortava perché si mettessero in pratica. Quello stesso anno arrivava dall’Italia, in visita pastorale, il generale dell’Ordine, padre Giovan Battista Rossi (o Rubeo, nella versione latinizzata del cognome che usa sempre Teresa), «qualcosa che prima non era successo perché il generale sta sempre a Roma», racconta lei.

Anche se lei ricevette la notizia con paura, perché il generale poteva disfare la sua opera, trovò in lui comprensione e appoggio. Inoltre, le diede il permesso per fondare «tanti monasteri quanti capelli ha in testa». Così iniziava un’opera erculea che la portò a fondare 17 monasteri di monache e 15 conventi di frati in 15 anni.

Per comprendere ciò che questo significò, ricordiamo che le vie di comunicazione continuavano ad essere le antiche carreggiate romane, molto danneggiate dopo 1500 anni di uso, senza riparazioni né manutenzione. Le strade erano piste polverose in estate, che si trasformavano in pantani impraticabili durante l’inverno. I ponti per attraversare i fiumi erano quasi inesistenti, per cui si attraversavano in chiatte (che non erano neppure tante). Le locande erano poche di numero e tutti i racconti dell’epoca sono concordi nel sottolineare la loro scomodità, in quanto si trattava di luoghi sporchi, poco arieggiati, senza letti, pieni di cimici e pulci tra la paglia. Quindi, Teresa e i suoi accompagnatori dormirono di solito sul pavimento delle chiese lungo la strada e fecero solo uso delle locande quando non rimaneva un’altra possibilità. Inoltre, non avevano neppure servizio di mensa (diversamente da quello che appare nei film pseudo-storici che ricostruiscono l’epoca).

La stessa Santa racconta le difficoltà per trovare provviste lungo le strade. Nel viaggio da Beas a Siviglia, per esempio, non trovarono nessun alimento da comprare presso i locandieri né presso i contadini e nell’ultimo viaggio da Burgos ad Alba de Tormes riuscirono ad ottenere solo alcuni fichi secchi. Maria di san Giuseppe lasciò testimonianza scritta sull’argomento: «Molti giorni potemmo solo ottenere alcune fave, o un poco di pane, o alcune ciliegie, o una cosa così; e quando trovavamo un uovo per la nostra Madre, era gran cosa».

Ma la difficoltà principale la incontrò, come per scrivere, nella sua condizione di donna. Fino ad allora, tutti i monasteri e gli Ordini religiosi erano stati fondati da uomini: san Benedetto da Norcia fondò le benedettine, san Domenico di Guzmán le domenicane, san Francesco d’Assisi le clarisse. Anche nei casi di donne che possedevano i beni necessari per erigere un monastero o un ospedale in cui ritirarsi al servizio dei malati (come le regine sant’Elisabetta del Portogallo e sant’Elisabetta di Ungheria dopo essere rimaste vedove), incaricarono uomini che sbrigassero le pratiche necessarie. Teresa invece tratta direttamente con le autorità, stabilisce accordi con i benefattori, acquista case, dirige opere… il che provoca la reazione di quanti non erano disposti a permettere che una donna agisse indipendentemente dal criterio degli uomini. Lei stessa lo confessa riflettendo sulle opposizioni che incontrava: «[tutti rimasero] stupiti che una donnicciola avesse osato erigere un monastero contro la loro volontà» (F 15,11).

La maggior parte di coloro che trattavano personalmente con lei finivano per diventarne amici e appoggiare la sua opera. Ma lei era cosciente che molte persone influenti non accettavano che una monaca uscisse dal monastero, fondasse e scrivesse con libertà, essendo questa vietata in quella società alle donne, per cui non smetterà mai di andare alla ricerca di appoggi: «Mi fa piacere sapere che lei abbia avuto l’occasione di parlare dei miei viaggi. Certo, essi sono una delle cose che più mi stancano nella vita, e che mi procurano maggior travaglio, soprattutto quando vedo che ciò viene giudicato male [...]. Quando vedo come si serve il Signore in queste case, tutto ciò che soffro mi sembra poco» (Lett. 62,7 a don Teutonio di Braganza, del 2/01/1575).

Siccome quasi tutti insistevano che le donne dovessero sottostare agli uomini, ad un certo punto le sorsero dei dubbi sulla sua opera. Specialmente perché i suoi superiori (confessori, provinciali, vescovi) sono i rappresentanti di Dio e i più contrari alla sua opera. Quasi tutti sanno che il nunzio la qualificò «donna inquieta e vagabonda, disobbediente e contumace, che, sotto pretesto di devozione, inventa dottrine erronee, va in giro fuori clausura contro le prescrizioni del concilio di Trento e dei superiori, pretende di insegnare come un dottore mentre san Paolo ha detto che le donne nella Chiesa se ne stiano in silenzio». Ad un certo punto, anche il papa san Pio V scrisse una lettera al vescovo di Avila in cui prescriveva che non permettesse alla madre Teresa di abbandonare il monastero per fondarne altri né per visitare quelli già fondati.

Per una donna onesta e sempre in cerca della verità, la domanda sorse spontanea: Si autoingannò per tutto quel tempo? Si ingannarono pure i tanti consiglieri ai quali aveva chiesto lumi in quegli anni? Fu Cristo a consolarla, come ci confessa: «mentre pensavo se non avessero ragione di vedermi di malocchio uscir di clausura per fondare monasteri, e se non fosse meglio darmi con maggior impegno all’orazione, intesi queste parole: “Finché si è sulla terra, il profitto non sta nel procurare di maggiormente godermi, ma di fare la mia volontà”. Mi era parso che per me la volontà di Dio fosse in quello che dice san Paolo circa il ritiro in cui devono vivere le donne, come mi era stato detto poco prima e io stessa avevo altre volte udito. Ma Egli mi disse: “Fa’ loro sapere che bisogna guardare la Scrittura non in una parte sola, ma in tutto il suo insieme. O che forse mi potranno legar le mani?”» (R 19). In questo modo, con l’aiuto del Signore e con molta immaginazione e tenacia, perseverò scansando tutti gli ostacoli per realizzare la sua opera.

La conclusione della sua avventura

Perfino nel morire fu originale. Morì il 4 ottobre del 1582, a 67 anni di età. I testimoni all’atto raccolgono due sue espressioni particolarmente significative. Da una parte, affermò: «Muoio, infine, figlia della Chiesa», che è una sorta di grido rivendicativo. Anche se è sempre vissuta sotto sospetto e molte volte sotto minaccia, i suoi nemici non riuscirono ad espellerla dalla comunità cristiana. Dall’altra, rivolgendosi a Dio, esclamò prima di morire: «È tempo di camminare». Molti la volevano rinchiusa e inattiva, mentre aveva percorso itinerari al servizio di Cristo e dei fratelli e pensava di continuare a farlo dopo la sua morte.

Quel giorno si riformò il calendario. Fino ad allora si usava quello «Giuliano», istituito da Giulio Cesare nell’anno 46 a.C., che constava di 12 mesi di 30 giorni ognuno, con cinque giorni in meno all’anno e uno bisestile ogni quattro anni. L’imperatore Aureliano lo ritoccò nell’anno 270 d.C., ma aveva l’inconveniente che si perdevano alcune ore ogni anno. Il Papa Gregorio XIII ordinò che si iniziasse a usare un nuovo modo di contare il tempo: il calendario «Gregoriano», tutt’oggi vigente. Per regolare lo sfasamento, furono soppressi 11 giorni del calendario, trasferendo così il «dies natalis» di santa Teresa dalla notte del 4 ottobre al 15 ottobre del 1582.

Abbiamo detto che le sue opere furono rapidamente pubblicate e tradotte in altre lingue. Anche le sue figlie si propagarono per tutto il territorio spagnolo fino ad arrivare in Portogallo, Francia, Paesi Bassi, Inghilterra… e oggi sono sparse per il mondo intero.

Facciamo nostre le parole di fra Luis de León incluse nel prologo dell’edizione principe delle opere di santa Teresa (anno 1589): «Io non conobbi, né vidi mai la madre Teresa di Gesù mentre era su questa terra, ma ora che vive nel cielo la conosco e la vedo quasi sempre nelle due immagini vive che ci lasciò di sé, che sono le sue figlie e i suoi libri». Oggi, come allora, chi vuole conoscere il vero spirito di questa donna ha due vie: la lettura delle sue opere e il rapporto con le sue figlie.

6.      L’esperienza orante di santa Teresa di Gesù

Santa Teresa è conosciuta innanzitutto per i suoi insegnamenti sull’orazione. La sua dottrina è così profonda e convincente per averla vissuta prima di scriverla. Di fatto, è solita ripetere che scrive solo quello che ha sperimentato. In questo senso, tutti i suoi libri sono autobiografici. In essi espone il suo cammino di orazione e lo propone a coloro i quali desiderano ascoltarla.

Infanzia e giovinezza

Teresa stessa ricorda che sua madre prestava molta cura nell’insegnare la preghiera ai suoi figli e nel trasmettere loro la sua devozione alla Vergine e ad alcuni Santi (V 1,1). Da parte sua, con un fratello coetaneo, Teresa passava molto tempo a leggere vite dei Santi, che voleva imitare. Già all’età di «sei o sette anni» le piaceva meditare sul fatto che la gloria del cielo e le pene dell’inferno sono per sempre (V 1,4). Con suo fratello giocava a fare gli eremiti (V 1,5) e con altre bambine della sua età a fare le monache. Racconta che «cercavo la solitudine per recitare le mie molte devozioni, che erano tante, e specialmente il rosario» (V 1,6). Per questo, quando a tredici anni restò orfana, ricorse spontaneamente a Maria, chiedendole che fosse sua Madre (V 1,7).

A sedici anni la misero in un educandato, dove le ragazze della sua condizione sociale venivano formate sino al momento del matrimonio (V 2,6). Teresa vi conduce una vita di pietà accompagnata dalla recita di molte preghiere vocali (V 3,2). L’abbandona a causa di una malattia ma, lungo il tragitto verso la casa di sua sorella, dove va a curarsi, sosta presso lo zio Pedro. Costui, che dedica il suo tempo alla lettura di buoni libri religiosi e, più tardi, si farà monaco, regala a sua nipote le Lettere di san Girolamo, che parlano molto dell’orazione (la 3a parte si intitola Sullo stato eremitico o vita contemplativa). La sua compagnia induce Teresa a ricordare le meditazioni dell’infanzia su quanto rapidamente tutto passa e che il cielo e l’inferno sono per sempre. Così decide di farsi monaca (V 3,5).

La scoperta della meditazione

Durante il noviziato nel monastero dell’Incarnazione di Avila trova un buon clima orante. Di fatto, la Regola del Carmelo invita a «rimanere in orazione notte e giorno, meditando la Parola di Dio e vegliando in orazione» (Regola 8). Le Costituzioni del monastero dicevano: «Le novizie lavorino diligentemente nello studiare e imparare a cantare i Salmi e l’Ufficio divino e siano istruite in tutte le rubriche» (BMC 9,494). Sebbene lei non sappia il latino, la recita dei Salmi e dell’Ufficio divino le occuperà molte ore della sua vita a partire da quel momento. Forse è di allora il suo primo incontro con i vangeli tradotti in spagnolo, poiché affermerà: «Sono stata sempre affezionata e mi hanno raccolto più le parole dei vangeli che gli altri libri» (C 21,4).

Tre anni dopo abbandona temporaneamente il monastero, a causa di un’altra malattia. Di nuovo sulla strada di casa di sua sorella, suo zio torna a fornirle buoni libri. In primo luogo, il Commento al libro di Giobbe, di san Gregorio Magno, nel quale trova un buon modello di orazione biblica: Giobbe parla con Dio, nel bel mezzo della sua malattia, esponendogli le sue sofferenze e rivolgendosi a Lui con le sue proprie parole. Anche il Terzo Abecedario, di Francisco de Osuna, sarà fondamentale nella sua vita, perché le aprirà la strada dell’orazione mentale. L’affascina tutto ciò che vi trova, fin dalla prima pagina: «L’amicizia e la comunicazione con Dio è possibile in questa vita, più stretta e più sicura che sia stata mai tra fratelli o tra madre e figlio». Commenta che, fino a quel momento, «non sapevo come procedere nell’orazione né come raccogliermi. Perciò, mi rallegrai molto con quel libro e decisi di proseguire la strada con tutte le mie forze» (V 4,7).

Comincia a praticare quello che in seguito chiamerà «primo grado dell’orazione», che consiste nel meditare sulla vita di Cristo e nella conoscenza di sé. La aiutano la lettura dei buoni libri, il fissare lo sguardo su immagini del Signore e la contemplazione della natura, nella quale scorge un’impronta del Creatore. Nei tre anni che rimane nell’infermeria del monastero, dedica molto tempo all’orazione e a insegnare a pregare alle altre, le quali si stupiscono della sua pazienza e della sua allegria (V 6,4). Suo padre stesso ne diviene discepolo.

L’orazione tentata

Verso i 27 anni si ristabilisce dal suo indebolimento (V 6,8). La sua guarigione miracolosa, la profondità delle sue parole e la sua simpatia naturale fanno sì che molti si rechino a parlare con lei nel parlatorio del monastero e a interpellarla sui propri affari. Le conversazioni si prolungano, deviando su argomenti insignificanti, trasformandosi in veri e propri passatempi. Ma poiché questo ha un ritorno in elemosine per il monastero, tanto bisognoso, a tutti sembra buona cosa. Qui il demonio ha introdotto la più grande tentazione di tutta la sua vita, travestita di umiltà. Teresa si sente indegna di avvicinarsi all’orazione, convinta che solo le persone perfette sono degne di trattare con Dio e vedendo se stessa così imperfetta: «cominciai ad aver timore di fare orazione mentale» (V 7,1). Lei vuole sinceramente chiarire i suoi dubbi, ma non trova con chi. L’occasione arriva con la malattia e la morte di suo padre. Mentre lo assiste, ha modo di parlare con il suo confessore, il quale la incoraggia a comunicarsi spesso e a ritrovare l’orazione (V 7,17).

Le viene proposto di praticare ogni giorno, almeno, un’ora di orazione silenziosa. Di ritorno al monastero, la sua vita quotidiana si divide tra le preghiere comunitarie, la lettura spirituale, l’orazione personale, l’assistenza alle ammalate e l’attenzione nel parlatorio a quanti la visitano. Molti la considerano una religiosa esemplare. Ma lei non è contenta, perché si sente combattuta: «Da una parte mi chiamava Dio e dall’altra io seguivo il mondo. Tutte le cose di Dio mi davano tanta gioia, ma quelle del mondo mi tenevano legata. Mi sembrava che volessi conciliare questi due nemici» (V 7,17).

Quando scrive i suoi ricordi, ormai al vertice della sua vita spirituale, considera tutto il tempo perso come un tradimento all’amore di Dio. Ricevendo tante grazie da Lui, si sente maggiormente obbligata a vivere nella sua amicizia, abbandonandosi senza riserve. Sentendosi così imperfetta, la umiliano le grazie che il Signore le concede: «Castigavate i miei peccati con abbondanti doni» (V 7,19). In questa tensione rimane per 10 anni, finché Dio la vince completamente.

La conversione

Davanti a un’immagine di Cristo molto piagato, decide di abbandonarsi totalmente nelle sue mani, facendo sempre e in tutto la volontà di Dio (V 9,1). Esclamerà: «Mi sono stancata prima io ad offenderlo che non Lui a perdonarmi» (V 19,15). Teresa ha 39 anni e si prepara a iniziare una nuova tappa della sua esistenza, nella quale la priorità sarà coltivare la vita interiore. È finito il tempo di costruire la propria vita su ciò che gli altri possano pensare di lei, sull’affetto nei confronti delle creature, sulle occupazioni e sulle attività esteriori (per quanto molto buone e religiose siano). Da quel momento, l’orazione sarà la colonna portante della sua vita.

È importante avere presente che, per Teresa e i suoi contemporanei, l’orazione non è soltanto un’attività dell’anima, ma un modo di essere, una scelta di vita che comporta introspezione, ricerca di una relazione personale con Dio e un modo di collocarsi davanti al mondo, vivendo alla luce del Vangelo. Oggi viene chiamata: “spiritualità”. Lo vediamo in sant’Ignazio: «Per Esercizi spirituali si intende ogni modo di esaminare la coscienza, di meditare, di pregare vocalmente o mentalmente e di altre attività […] per rimuovere da sé tutte le affezioni smodate e cercare la volontà divina» (Prima annotazione degli Esercizi). Questa è la “orazione” nel secolo XVI.

Questo argomento è così importante che, quando santa Teresa racconta la sua storia, si sente costretta a fare una lunga digressione di 12 capitoli (V 11-22), per introdurre alcune riflessioni sull’orazione che ci aiutino a comprendere ciò che viene dopo. In special modo, sottolinea la dimensione relazionale dell’orazione, che non consiste nel ripetere formule. È una relazione di amicizia con Dio, che sgorga dal saperci amati e accettati da Lui e che comporta una vera trasformazione della propria esistenza, avendo Cristo come modello: «A mio parere, l’orazione mentale non è altro che trattare di amicizia, stando spesso a trattare in solitudine con Chi sappiamo che ci ama» (V 8,5). Nel riprendere il racconto della sua vita, dirà: «Da qui in avanti è un altro libro nuovo, dico un’altra vita nuova» (V 23,1).

L’orazione affettiva

Da quando inizia la pratica dell’orazione, Teresa incomincia col meditare qualche pagina del Vangelo o di un altro libro spirituale. Nella meditazione si «rappresenta» una scena della vita di Cristo e riflette sui suoi insegnamenti: «Avevo questa modalità di orazione: cercavo di rappresentare Cristo dentro di me […] e stavo con Lui finché i miei pensieri me lo permettevano» (V 8,4).

Ad un certo punto, comincia a percepire la presenza misteriosa, ma reale, del Signore al suo fianco, senza che lei faccia nulla per provocarla. È l’ingresso nell’orazione mistica: «Mi sentivo invadere all’improvviso da un sentimento della presenza di Dio, da non potere dubitare in alcun modo che era Lui dentro di me ed io tutta avvolta in Lui» (V 10,1). Questo le produce stupore e gioia. I suoi confessori credono che il diavolo la inganni, ma lei non può dubitare che è Dio che la visita, sentendosi ogni giorno più salda nella fede e nella speranza, più generosa nella pratica della carità e più staccata da tutto.

Nella sua orazione, i pensieri e le meditazioni occuperanno ogni volta meno tempo. Al contrario, ciò che prevarrà sarà l’amore e il desiderio di amare. Si sente in presenza di Cristo, al quale guarda amorevolmente e dal quale si lascia guardare, al quale parla, senza badare alle parole da usare, come con un amico, un fratello, uno sposo. Questo stesso atteggiamento raccomanda ai suoi lettori: «Non vi chiedo che pensiate, né che sappiate molti concetti, né che facciate grandi e delicate considerazioni con l’intelletto. Vi chiedo solo che lo guardiate […]. Se sei nella gioia, contemplalo risorto […]. Se sei triste, contemplalo sulla strada dell’orto […] o legato alla colonna […] o carico della croce […]. E Lui ti guarderà con occhi così belli e dimenticherà i suoi dolori per consolare i tuoi […]. E parla spesso con Lui. Se parli con le altre persone, perché ti dovranno mancare le parole per parlare con Lui?» (C 26, 3-9). Effettivamente, Teresa ha scoperto che «qui l’essenziale non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare. Così, quello che più vi eccita ad amare, quello fate» (4M 1,7).

La pienezza contemplativa

Da quando inizia a praticare questa orazione affettiva (lei la chiama orazione di raccoglimento), si moltiplicano le grazie mistiche: parole interiori, visioni, estasi, ferite d’amore nel cuore. A differenza della meditazione, che è discorsiva e si realizza con lo sforzo dell’intelletto, questa orazione è intuitiva e si riceve come un dono gratuito. All’inizio Teresa si spaventa. Non trova le parole adeguate per spiegare quello che le accade. In cerca di luce per comprenderlo, incomincia a metterlo per iscritto. I suoi primi consiglieri non la comprendono. Le chiedono «spiegazioni» comprensibili ma Teresa può offrire loro solo una «testimonianza» di come tale incontro la trasformi.

Sa che le sue esperienze non sono il risultato del suo operare, ma che derivano da Dio, per gli effetti che producono: vera umiltà, libertà interiore, distacco da tutto il creato, forza nella sofferenza, amore disinteressato. San Francesco Borgia, san Pietro di Alcántara e san Giovanni d’Avila le confermano che provengono da Dio. Con tali buoni sostegni, scompaiono le sue paure e tutto si trasforma in orazione: «cessarono i miei mali e il Signore mi diede forza per liberarmi da essi […]. Tutto mi serviva per conoscere meglio Dio ed amarlo e vedere ciò che gli dovevo e dispiacermi di quella che ero stata» (V 21,10).

Si sente completamente identificata con Cristo e i suoi sentimenti. Dalla sua unione con Lui scaturisce il suo amore appassionato per la Chiesa e la forza necessaria per lavorare per la causa di Cristo senza fare caso alle opinioni contrarie. Mentre raggiunge le più alte vette della mistica, diviene «cavaliere errante» di Dio, fondatrice di monasteri, maestra di orazione e scrittrice di libri di spiritualità. In lei, Marta e Maria camminano indissolubilmente insieme, poiché «per questo motivo il Signore concede tante grazie in questo mondo» (7M 4,4).

Voglia il Signore che, nel seguire l’esempio di santa Teresa, la nostra orazione ci stimoli ad abbandonarci completamente al servizio di Cristo e a lasciarlo agire in noi.

7.      Insegnamenti sull’orazione

Santa Teresa di Gesù è maestra di orazione nella Chiesa. I suoi scritti sono serviti da stimolo e alimento per la vita spirituale di varie generazioni cristiane. Come già abbiamo detto, quando narra la storia della sua vita, ad un certo punto deve interromperla e introdurre un trattatello di orazione, perché altrimenti non si capirebbe quello che viene di seguito. Prendendo insegnamenti da quelle pagine e da altri suoi scritti, qui offro una lettera che santa Teresa non ha scritto, ma che è composta a cominciare dai suoi testi, per cui la possiamo perfettamente leggere come rivolta da lei ad ognuno di noi, con il suo stile diretto e interrogante. Incomincio come fa lei nel suo epistolario: «Gesù. Lo Spirito Santo sia con vostra grazia».

La necessità dell’orazione

Trovandomi in questo Colombaio della Vergine, ho saputo del suo interesse per le cose dello spirito, di ciò ne ho avuta molta gioia. E poiché lei mi ha insistito così tanto perché le scriva qualcosa di ciò che comprendo su questioni di orazione, metto qui di seguito alcune delle cose che ho scritto altrove, con la fiducia che chi lo legga ne tragga profitto per amare un poco di più Nostro Signore, al quale sia la gloria per i secoli. Amen.

Dunque, parlando di quelli che cominciano ad essere servi dell’amore (non si può dire diversamente il determinarsi a seguire Chi tanto ci ha amati attraverso il cammino dell’orazione) è una dignità così grande, che mi diletto a pensare che possiamo avere un rapporto intimo con Dio, il quale si umilia volentieri a trattare con i suoi servi. Noto bene che non c’è qualcosa con cui si possa paragonare un tal gran bene sulla terra, poiché consiste nel trattare nientemeno che con Dio, il quale vuole comunicarsi in questo esilio con le sue creature per concedere loro grandi grazie. Se facciamo quello che possiamo nel disporci per raccogliere i beni che Lui vuole regalarci nell’orazione, sua Maestà ci aprirà i tesori del suo cuore, perché Lui non si nega a nessuno che lo cerchi con cuore sincero.

Le dirò che l’orazione mi sembra tanto necessaria, che penso che chi non la fa è come un corpo invalido, che sebbene abbia piedi e mani, non li può comandare. E così sono le nostre anime, create da Dio con grandi possibilità e doni, che si scoprono e si mettono in pratica soltanto nell’incontro amoroso con Colui che le ha create con infinita misericordia. Prendo in considerazione che la nostra anima sia come un castello, tutto di diamante o di tersissimo cristallo nel quale ci sono molte stanze, così come nel cielo ci sono molte dimore. Nel centro e in mezzo a tutte, vi è la stanza principale, che è dove accadono le cose di grande segretezza tra Dio e l’anima. Non trovo cosa migliore con cui paragonare la grande bellezza dell’anima e le sue grandi capacità. Basti pensare che sua Maestà dice che ci ha fatto a sua immagine e somiglianza, per supporre qualcosa della nostra ricchezza interiore. A quanto posso capire, l’unica porta per entrare in questo castello è l’orazione.

Vedo la mia anima così progredita e ricca in virtù da quando faccio orazione, che è come se mi coccolassero con numerosi gioielli e cibi succulenti. Penso che dobbiamo essere molto sciocchi se non apriamo i nostri cuori a questo grande Signore perché Lui ci riempie, perché è come se stessimo accanto alla fonte e, per non fare lo sforzo di portarci l’acqua in bocca, morissimo di sete. Quindi, cosa non darà ai suoi amici chi è così amante del dare e può dare quanto vuole? Lui, che ha dato la sua vita per noi, per forza deve continuare a darci tutto quello di cui abbiamo bisogno per crescere nel suo amore, se glielo chiediamo con fiducia. Nel nome di Nostro Signore prego a chi non fa orazione di non privarsi di tanto bene come sua Maestà vuole donarci in essa.

Allo stesso tempo, devo dirle che quando non facevo orazione, non vivevo, ma combattevo con un’ombra di morte. Ora mi fa paura come ho potuto chiamare vita quel vivere senza di essa. Dio mi perdonerà perché, a causa della mia ignoranza, non sapevo apprezzare tal gran bene. O forse è stato l’orgoglio, che ci fa credere che bastiamo a noi stessi e che sappiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno di sapere e che non necessitiamo di un Salvatore, alla fin fine, perché non lo cerchiamo.

Posso dire soltanto ciò che so per esperienza, e cioè che, malgrado i peccati che faccia chi ha cominciato l’orazione, non la lasci, poiché è il mezzo per poterci salvare e senza di essa sarà molto difficoltoso. E chi non l’ha incominciata, per amor di Dio lo scongiuro che non si privi di tanto bene. Qui non c’è da temere, ma da desiderare, che nessuno ha preso Dio per Amico che non fosse ricambiato da Lui. Ma oso dire: Dio è colui che ci ha amato per primo, e ci cerca e ci chiama a squarciagola, e sta desiderando di manifestarsi a noi… e ci chiede solo che ci disponiamo nell’orazione per poterci coccolare.

Che cos’è l’orazione

In quanto a saper dire che cos’è l’orazione, non è altro, a mio parere, se non trattare di amicizia, stando frequentemente in solitudine a trattare con Chi sappiamo che ci ama. Quando l’anima prega, intrattiene amorevole conversazione nientemeno che con Dio, per cui è bene che avverta o abbia molto in considerazione con chi sta e chi è lei e cos’è quello che dice, perché se non è così, io non la chiamo orazione, per quanto muova molto le labbra. Non è sufficiente ripetere formule imparate a memoria, come possono fare quegli uccelli che ripetono quello che ascoltano, ma senza capire ciò che dicono. Non c’è bisogno di parole ricercate né di eleganti ragionamenti, ma parlare al cuore del suo Sposo con umiltà e sincerità.

Non pensi che le devono mancare le parole per parlare con Gesù. Almeno, io non lo penserò, perché basta trattarlo come Amico, Compagno e Fratello, valoroso Capitano, sempre vicino ai suoi in battaglia. Il mio Dio non è per niente permaloso, né guarda le minuziosità. Molte volte sua Maestà apprezza più l’umiltà di una povera contadinella che se sapesse di più, di più direbbe, dei più eleganti ragionamenti. Non sono così importanti le cose che gli diciamo come il rendersi conto che stiamo trattando con Dio stesso, che ci accoglie in sua compagnia e ci fa membri della sua famiglia. Nella nostra relazione con Lui, l’essenziale non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare. Così, ciò che più vi stimolerà ad amare, quello fate.

Certo, l’anima non ha bisogno di condizioni speciali per trattare con Dio nell’orazione, né di forze corporali; dunque, chi non può gettare qualche pagliuzza sul fuoco quando vede che si sta spegnendo? Non penso che sia maggiore lo sforzo di starsene in affettuosa compagnia con Chi ha dato tante dimostrazioni d’amore. Lui ci accoglie, nonostante la nostra bassa condizione, a patto che in quel momento gli vogliamo dare per intero il cuore. E, poiché sopporta tutto e lo sopporterà per trovare un’anima che voglia starsene con Lui, e trattarlo con amore, sia quella la nostra. È vero che, perché sia vero l’amore, si devono accordare le condizioni e gli amanti devono essere simili. La condizione del Signore già sapete che non può fallire, perché ci ama come Dio. La nostra è quella di essere vili e miserabili.

Per quanto ritengo, non posso capire che un Dio così grande venga a trattare con alcuni vermetti maleodoranti. Mi fa paura l’umiltà di questo grande Imperatore, che ama una come me e mi accoglie nella sua compagnia, considerandomi parte della sua famiglia. Signore mio e Dio mio, quanto sono immense le vostre grandezze!, e camminiamo qui come dei pastorelli stupidi, che ci sembra di capire qualcosa di Voi, e deve essere tanto quanto un nonnulla. Se mi spaventa contemplare la vostra maestà, mi spaventa di più, Signore mio, contemplare la vostra umiltà e il vostro amore, perché possiamo in tutto trattare con Voi come vogliamo, senza bisogno che gli altri ci presentino o ci introducano. Voi stesso vi abbassate a cosa così piccola come la nostra anima, e ci dilatate e ampliate a poco a poco, in conformità a ciò che è necessario per quello che desiderate porre in noi.

Le fondamenta dell’orazione

Forse penserà che nel parlarle di orazione le insegnerò come deve sedersi o respirare, quanto tempo deve dedicare al suo esercizio e come dividerlo per impiegarlo bene. Non è questa la mia intenzione. Le parlerò piuttosto di quelle che considero essere le fondamenta sulle quali si deve elevare l’edificio dell’orazione: sono l’amore degli uni verso gli altri, il distacco da tutto il creato e l’umiltà (la quale, sebbene la indichi alla fine, è la principale). Se queste cedono verrà giù tutto l’edificio.

In quanto all’amore, già si sa che quelli che di più hanno fatto per il prossimo sono stati sempre i più grandi amatori di Dio, e tutto il resto è fumo di paglia, che dura un momento, come si suol dire. E, per unirci a Dio, che è lo stesso Amore, è chiaro che deve essere camminando nell’amore, come ci ha insegnato il suo Divino Figlio. È importante rendersi conto che il suo amore ci precede e accompagna sempre, giacché amore chiama amore. Impareremo ad amare i fratelli se guardiamo a Colui che ci amò fino al punto di dare la vita per noi e che ci ha chiesto di imparare dal suo esempio.

In quanto al necessario distacco, mi pare che sia chiaro come ci si debba liberare da tutto quello che non è Dio per andare da Lui. Se i desideri e le cose occupano i nostri pensieri e le nostre forze, come diremo che amiamo il Signore al di sopra di tutto?

Le dicevo che è ugualmente necessaria l’umiltà, che non è altro che camminare nella verità; questo vuol dire conoscerci, scoprire che non siamo vuoti, ma che Dio stesso ci abita, e comprendere che siamo chiamati per unirci a Lui e che, sebbene con le sole nostre forze non siamo capaci, possiamo disporci perché Lui operi in noi. Chiediamogli con fiducia la sua luce, perché Lui non si nega a nessuno.

La conoscenza di sé

Non si stupisca se le dico che la conoscenza di sé è essenziale. E non solo agli inizi, ma in ogni momento, che è il pane con cui dobbiamo accompagnare tutti i manicaretti. Il fatto è che molte volte non conosciamo noi stessi, né sappiamo le grandi capacità che Dio ha messo in noi. E allora, come potremo svilupparle e metterle in pratica?

Riprendo l’immagine che ho usato prima, perché non trovo una migliore: consideriamo la nostra anima come un castello, tutto di diamante, nel quale vi sono molte mansioni. Al centro vi è la stanza principale, dove abita Dio. Non vi è nulla che possa paragonarsi alla grande bellezza di un’anima e alla sua immensa capacità. Basta pensare che Sua Maestà dice di averci fatto a sua immagine e somiglianza, per avere un’idea della nostra ricchezza interiore. Per quanto io ne capisca, l’unica porta per entrare in questo castello è l’orazione.

Che confusione e pietà non poter – per nostra colpa – intendere noi stessi e capire chi siamo. Non sarebbe grande ignoranza se uno, interrogato chi fosse, non sapesse rispondere, né dare indicazioni di suo padre, di sua madre, né del suo paese di origine? Se ciò è indizio di grande ottusità, assai più grande è senza dubbio la nostra, se non procuriamo di sapere chi siamo, per fermarci solo ai nostri corpi. Sì, sappiamo di avere un’anima, perché l’abbiamo sentito e perché ce l’insegna la fede, ma così all’ingrosso, tanto è vero che ben poche volte pensiamo alle ricchezze che sono in lei.

Per questo, la prima cosa da fare nel pregare è prendere coscienza della grandezza e della dignità della nostra anima, della sua immensa capacità, per farla fruttificare con l’aiuto del Signore, e così facendo non rimarremo nani.

Le distrazioni nell’orazione

Desidero insistere ancora una volta che l’essenziale nella nostra orazione non è nel molto pensare, ma nel molto amare, per cui le nostre occupazioni devono essere in quelle cose che più eccitano all’amore. Forse non sappiamo ancora in che consista l’amore, e non mi meraviglio. L’amore di Dio non sta nei gusti spirituali, ma nell’essere fermamente risoluti a contentarlo in ogni cosa, nel fare ogni sforzo per non offenderlo, nel pregare per l’accrescimento dell’onore e della gloria di suo Figlio e per l’esaltazione della Chiesa cattolica. Questi sono i segni dell’amore, non già non distrarsi, quasi basti la più piccola divagazione per mandare a monte tutto.

Io ho sofferto molto a causa di questo, perché mi si diceva che la mia orazione non era vera se soggetta a distrazioni. Ma ho appurato per esperienza che queste scompaiono solo nelle ultime mansioni, quando il Signore le fa cessare. Per questo non bisogna dar loro troppa importanza, né permettere che ci tolgano la pace, e neppure abbandonare l’orazione quando non siamo in grado di controllare i pensieri. La soluzione è sopportarli con pazienza, poiché procedono dalla debolezza della nostra natura umana, ferita dal peccato. E siccome i pensieri dell’immaginazione sono frutto della nostra misera natura, non dobbiamo inquietarci né affliggerci quando non possiamo controllarli. La cosa importante è perseverare cercando di contentare in tutto il Signore, anche con le nostre fragilità.

I gradi dell’orazione

L’orazione è un’arte, nella quale possiamo perfezionarci durante tutta la vita. Non creda che la si debba praticare sempre allo stesso modo. Per spiegarmi meglio, farò uso di un paragone: chi comincia a pregare deve fare conto che è come colui che vuole piantare un orto su un terreno abbandonato, pieno di pietre ed erbe cattive. Con l’aiuto di Dio dobbiamo cercare, da buoni ortolani, di togliere dal cuore le pietre e le erbe cattive, che sono i nostri peccati, e piantare quelle buone, che sono le virtù. Dobbiamo fare in modo che queste piante crescano, e avere cura di innaffiarle, perché non vadano perdute, ma diano fiori che facciano buon odore, affinché questo nostro Signore venga spesso a dilettarsi nel nostro giardino e si trovi lì a proprio agio.

Quelli che cominciano a fare orazione sono come quelli che cavano l’acqua dal pozzo, che è qualcosa di molto faticoso e il risultato è minimo. È vero che costa loro molto raccogliere i sensi, i quali, poiché sono abituati a divagarsi e sono pieni di rumori, necessitano di molto lavoro. Hanno bisogno di abituarsi a stare in silenzio interiore ed esteriore, leggendo su buoni libri e discorrendo con il proprio intelletto su ciò che leggono, meditando sulla vita di Cristo, e sulla conoscenza di se stessi, e sui misteri della nostra santa religione. Ci sono molti libri per questo, i quali offrono meditazioni per ogni giorno della settimana e all’inizio possono aiutare molto.

Il secondo modo di irrigare l’orto avviene servendosi di una noria con il suo tornio e i canali, che tira fuori più acqua con meno lavoro (ricordo che a casa di mio padre c’era una di queste). Chiamo questo modo «orazione di quiete», in cui le potenze dell’anima cominciano a raccogliersi dentro di sé. Bisogna cercare di avere Cristo, nostro bene, sempre presente, abituandosi a non vedere o a sentire nulla al di fuori di Lui. Se è triste, lo contempli sulla strada della croce, perseguitato dagli uni, rinnegato dagli altri, intirizzito di freddo, posto in tanta solitudine, in modo che vi potete consolare a vicenda. E Lui è così buono che dimenticherà le sue pene per consolare le vostre. Se è nella gioia, lo contempli risorto e goda nella sua gloria. Ma non si stanchi nel molto pensare né si rompa la testa con molte parole, piuttosto impieghi la volontà con molta delicatezza a starsene in amorevole attenzione e tenero affetto con il suo Sposo. Quando la memoria e l’intelletto non aiutano la volontà ad eccitarsi per amare di più, le ignori e si concentri in questa amorevole attenzione al suo Sposo in pace e quiete, senza cercare parole né considerazioni che lo vogliano spiegare. Si lasci guardare da Cristo e lo guardi con affetto e gratitudine.

La terza forma di irrigare l’orto è quando si ha un fiume o un ruscello, per cui l’acqua si avvia attraverso i solchi e si lascia che impregni la terra con poco lavoro da parte dell’ortolano. È certo che il flusso d’acqua lo deve dare il Signore. Questo terzo grado di orazione è un sonno delle potenze in cui si gode di Dio con molta delizia, senza capire che cosa le succede né poterlo spiegare a parole. Non mi sembra che questa pace, delizia e gioia nascano dal proprio cuore, né dai suoi pensieri, né da quello che ha visto o udito, ma da un’altra parte più interiore. La gioia che si prova non è come quelle di qui. Penso che deve essere qualcosa che accade nel centro dell’anima, dove Dio è presente e si comunica. L’anima si dimentica completamente di sé e desidera solo compiere in tutto la volontà di Dio. Posso ben dire che si compie quello che diceva l’apostolo san Paolo: che lo Spirito di Dio prega in noi con gemiti ineffabili. È tale la gioia interiore che tutta ella vorrebbe essere lingue per lodare il Signore, al quale dice mille sante e amorose assurdità.

Il quarto grado di orazione è come quando piove sul campo, il terreno si inzuppa di più e l’ortolano non lavora per nulla. Così, quando Dio vuole comunicarsi in questa divina unione, gode senza capire che gode, partecipando alla vita, all’amore e alla compagnia di Dio, che la eleva e la introduce in sé. Facciamo conto che i sensi e le potenze (che sono gli abitanti del castello) ascoltano un sibilo amoroso del loro Re. Un sibilo così soave che quasi non lo comprendono, ma produce il suo effetto e lasciano da parte tutte le cose esteriori in cui erano occupati, si introducono nel castello e sono tutti coinvolti in ciò a cui sono obbligati, che consiste nel servire il proprio Signore, compiendo così l’ufficio per il quale sono stati creati. Allora l’intelletto conosce i segreti ineffabili di Dio, la memoria rimane piena della sua presenza e la volontà si fa una con quella di Cristo, di modo che può dire con l’apostolo, che ora non è più lei che vive, ma è Cristo che vive in lei.

L’unione delle volontà

Non tutti provano gioia nell’orazione, che è data da Sua Maestà a chi vuole e come vuole. Sarà bene che a coloro i quali il Signore non dà favori tanto soprannaturali non venga meno la speranza, perché – con l’aiuto di nostro Signore – tutti possiamo conseguire benissimo la vera unione se ci sforziamo di acquistarla, volendo compiere in tutto la volontà di Dio. Questa è l’unione che io ho desiderato per tutta la vita, che sempre chiedo a nostro Signore e che è più evidente e sicura.

Ma noti bene che non basta desiderarlo o immaginarlo. L’unico modo che abbiamo per sapere se veramente desideriamo fare in tutto la volontà di Dio sta nelle opere concrete, le quali rivelano che il nostro amore è vero, giacché il Signore ci chiede solo due cose sulle quali dobbiamo lavorare: amore di Dio e del prossimo. Se le compiremo con perfezione, adempiremo la sua volontà e staremo uniti a Lui con vera orazione.

L’amore è così importante che dobbiamo praticarlo fin nelle più piccole cose, e non lasciarlo solo per le occasioni straordinarie. Il Signore vuole che se lei vede un’ammalata alla quale può dare qualche sollievo, non si curi di perdere la devozione e la consoli; e se ha qualche dolore, faccia propria la sua sofferenza; e se è necessario, digiuni affinché l’altra mangi. Questa è la vera unione con la sua volontà, e se sente lodare molto un’altra persona si rallegri di più che se quelle lodi fossero per lei stessa.

La perseveranza

Ho sentito tanto affetto particolare per lei, perché per me non c’è maggiore delizia di trattare con persone che fanno orazione. Alcuni dicono che questo è un sentiero stretto. A me non sembra, ma Strada Maestra, che di sicuro ci porta al Regno promesso. L’anima occupata nell’orazione è come l’ape, che fabbrica il miele nell’alveare. Così, quando volano a Dio e si riempiono della sua dolcezza, possono estenderla per il mondo.

Certo, dobbiamo pregare sempre e in ogni luogo, ma è tanta la nostra debolezza, che sarà bene cercare alcuni momenti di solitudine e impiegare tempi regolati da dedicare ogni giorno al Signore, e una volta iniziata l’orazione, non lasciarla per qualsiasi nonnulla, ma perseverare fino a bere alle acque della vita che Nostro Signore ci promette. Cominci, dunque, con una determinata determinazione, dedicando ogni giorno un poco del suo tempo a stare in presenza di Colui che tanto ci ama. E non lasci l’orazione mai, per molte aridità, ostacoli e distrazioni che il demonio le ponesse davanti; perché verrà tempo in cui il Signore glielo valorizzerà tutto. E, poiché niente si apprende senza un pochino di sforzo, dia per bene impiegato questo, perché le dico che, per un momento che il Signore le faccia gustare la sua presenza, restano compensati tutti i travagli che troverà nel cercare l’orazione. Ponga gli occhi su Cristo e su tutto quello che Lui ha passato per amor nostro, e tutto ciò che farà sarà poco.

Rimanga vostra grazia con Dio e con la gloriosa Vergine Maria, Nostra Signora. Lei non è stata un istante della sua vita senza trattare di amore con il suo Divin Figlio, e così deve essere la nostra principale maestra di orazione, insieme con il mio padre e signore san Giuseppe che così intimamente trattò sua Maestà sulla terra. E si mantenga su questa strada, senza abbandonare il mio Signore, perché Lui stesso insegna che iniziare è di molti e perseverare di pochi; e in questi tempi difficili sono necessari amici forti di Dio.

Resto serva di vostra grazia. Teresa di Gesù.

8.      Conclusione

Teresa di Gesù fu una donna profondamente contemplativa ed efficacemente attiva. Come dicevamo all’inizio, in queste pagine abbiamo cercato di avvicinare il lettore alla sua ricchissima personalità a partire da quattro aspetti che la caratterizzano: donna, scrittrice, fondatrice e maestra d’orazione. Perché si comprenda meglio l’originalità della sua proposta, l’abbiamo presentata nel contesto in cui ella è vissuta, dal quale prende alcuni elementi e con il quale si scontra per altri.

Siamo fermamente convinti dell’attualità dei suoi insegnamenti, e che essi possono aiutare il credente di oggi a trovare la via per incarnare la perenne novità del vangelo nella società e nella Chiesa dei nostri giorni. Crediamo di aver offerto alcune chiavi per capire il suo messaggio e confidiamo sul fatto che la lettura di questo libro induca molti ad avvicinare gli scritti di santa Teresa. Lì scopriranno che «se la grandezza di Dio non ha limiti, non ne hanno neppure le sue opere» (7M 1,1). Il Dio che Teresa ci ha presentato come amico e compagno è ancora bramoso di comunicare con noi. Seguendo il suo esempio e la sua dottrina, apriamogli le porte del cuore!

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