mercoledì 29 dicembre 2010

Trovare Dio nel deserto dell’anima


Trovare Dio nel deserto dell’anima

di Giorgio Montefoschi
in “Corriere della Sera” del 29 dicembre 2010
Secondo la scarna descrizione che di lui fecero fra’ Eliseo de los Martires e fra’ Girolamo di San
José, Juan de la Cruz, Giovanni della Croce — uno dei più grandi mistici dell’Occidente — era di
statura medio piccola e ben proporzionato nel corpo; il volto, moro, aveva una fronte ampia e
spaziosa, naso appena aquilino, barba a mezzo pelo, occhi neri profondi e incoraggianti; il
portamento era distinto e grave e, nella sua modestia e mitezza di tratto, irradiava una impronta di
nobiltà spirituale, di serenità, e di calma. Ma, dietro a quella mitezza e a quella serena calma, si
celava una volontà di ferro: la volontà che nel corso della sua non lunga vita (era nato, da una
famiglia povera, nel villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nel 1542, morì nel convento di Ubeda,
in Andalusia, mentre i confratelli gli leggevano brani del Cantico dei Cantici, il 13 dicembre del
1591), gli consentì di lottare con tutte le sue forze per la riforma dell’ordine del Carmelo a cui
apparteneva (in questo vicinissimo a Santa Teresa d’Avila, che aveva incontrato nel 1567 e
procedeva in questa stessa linea, fondando conventi «teresiani» dal Nord al Sud della Spagna); gli
dette il coraggio e la pazienza di sopportare le contestazioni e le umiliazioni dei carmelitani che
rimanevano calzati e vedevano come perturbatori della conservazione gli scalzi, e per circa un anno
un duro carcere; la convinzione interiore di non doversi arrendere in alcun modo e per nessun
motivo all’idea che la vera riforma della Chiesa non andava impiantata sulla ortodossia del pensiero
e della dottrina, bensì cercata e risolta nel cuore dell’uomo addormentato in una fede affievolita, o
spenta. Le sue poesie, fortemente improntate dal Cantico dei Cantici, il libro amoroso e mistico per
eccellenza, descrivono l’Amore: il dolore insopportabile che si prova per la lontananza o l’assenza
di chi è amato e si nasconde; lo sgomento della solitudine; i misteriosi tocchi d’amore che, per sua
volontà imperscrutabile, l’amato concede improvvisamente a chi ama e invece si sente abbandonato
e ferito, come prigioniero nel ventre di una bestia, e poi improvvisamente vede un lampo che, però,
di nuovo lo acceca e lo ferisce, dal momento che è un lampo, e scompare; infine, le dolcezze
sublimi dell’unione, ineffabili, paragonabili con molta approssimazione a un naufragio di una luce
piccola in una luce immensa, di un suono in una musica silente. Sono poesie meravigliose. A chi lo
interrogava su quale fosse l’origine di questi versi così ricchi e belli, rispose: «A volte era Dio a
darmeli, a volte ero io a cercarmeli». Li cercava — come fa ogni poeta, ogni scrittore, ogni artista
— nel buio più assoluto: vera condizione, imprescindibile, per la creazione. È lo stesso buio, la
tenebra, che è al centro dei suoi Commentari — la Salita al Monte Carmelo, la Notte Oscura, il
Cantico Spirituale, la Fiamma d’amore: vale a dire, i lunghi commenti che seguono le Canzoni, nei
quali, appunto, si specchiano il verso e la prosa, i percorsi niente affatto dissimili del poeta e
dell’uomo che insegue Dio e da Dio è inseguito — perché tutto, tutto comincia da lì. Comincia dal
buio che l’anima sente nella mancanza d’amore, e lì finisce: nella tenebra che Dio impone all’anima
per poterla accogliere nuda, smarrita nel buio, dentro di Sé. Nessuno, mai, è riuscito a raccontare
questo cammino dalla tenebra alla tenebra, e dalla tenebra alla luce, come ha fatto Juan de la Cruz.
Nessuno, mai, ha tracciato una salita tanto ardua, priva di ogni consolazione, comprese quelle
ultraterrene. Nessuno, mai, ha concepito per l’anima un abisso così profondo. La Sposa è già in una
notte oscura, eppure è infiammata d’amore: un amore che non riesce a definire e la sovrasta, e che
forse, in una sua precedente visita, le ha regalato lo Sposo. Quindi, esce dalla sua casa
addormentata, esce dalla prigione dei sensi, e va a cercarlo. Ma, per trovarlo, deve andare dove lui
si è nascosto e dove, dunque, deve lei stessa nascondersi; deve ridursi a una tenebra ancora più
oscura: e spogliarsi, annullare ogni conoscenza terrena, ogni conoscenza dell’intelletto, ogni
tentazione della memoria, ogni folle presunzione della fantasia; deve annichilirsi nel corpo e nello
spirito come, nel Getsemani e sulla Croce, fece Gesù. «Per giungere a ciò che non sai» , scrive Juan
de la Cruz nella Salita al Monte Carmelo, «devi passare per dove non sai; per giungere al possesso
di ciò che non hai, devi passare per dove non hai niente; per giungere a dove non sei, devi passareper dove ora non sei; per giungere interamente al tutto, devi rinnegarti totalmente in tutto» .
L’anima, insomma, deve conoscere Dio attraverso ciò che Egli non è, piuttosto che attraverso ciò
che è; deve farsi arida e vuota come il deserto (deve andare nel deserto in cui andò Gesù); deve
sentirsi tradita, abbandonata, morta, sola. Ma ecco che in quel momento, quando penserà di essere
infinitamente lontana da Dio, sentirà un «tocco amoroso» che la sconvolge, una voce forte e dolce
che la chiama, e capirà che mai più di quel momento è stata vicina a Dio: che non è fuggito, è in lei
tutto nascosto, e la sta chiamando. Come è possibile questo amore? Come è possibile amare chi non
si conosce? Come è possibile, nel buio, questo amore del buio? Come è possibile che io vada a
cercarti — dice la Sposa allo Sposo — se «quello che capisco mi piaga e mi ferisce d’amore e
quello che non riesco a comprendere mi uccide?». È possibile — le risponde lo Sposo — perché io
non ti ho abbandonata mai, io ti amata da sempre, prima che tu lo sapessi, e ti amerò per sempre. La
Sposa trema, incredula, a queste rivelazioni che di colpo squarciano la tenebra fitta, e balbetta
d’amore, non sa che dire. Allora, l’Amato le infonde nel cuore una immensa, pacifica e amorosa
certezza: il calore che non si consuma mai della fiamma. E l’anima brucia e non si consuma in
quella fiamma. È rapita e si perde in quella pacificante luce. E — come accade nel Fedro, e alla fine
del Verbo degli uccelli, il poema mistico medievale del persiano Attar, come accade in ogni amore
vero — la bellezza dell’Amata e dell’Amato si specchiano e si confondono.
San Juan de la Cruz o Giovanni della Croce nacque in Spagna nel 1542 e morì nel 1591. Fondatore
dei Carmelitani Scalzi, fu beatificato nel 1675 e canonizzato nel 1726. Il volume contenente Tutte le
opere di Juan de la Cruz, con testo spagnolo a fronte, è curato da Luigi Bracco (Bompiani, pagine
CXCVIII-2330, € 45) e fa parte della collana «Il pensiero occidentale» , diretta da Giovanni Reale.

Centro Meditazione cristiana
 S. Maria della Vittoria
Via XX Settembre,17 Roma
Per informazioni contattare Enrico Pallocca
Cell 3337422760

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