lunedì 11 giugno 2012

P. Saverio Cannistrà  EL CARISMA TERESIANO EN EL SEGLAR CARMELITA




Testo integrale della conferenza del Padre Generale dell'Ordine dei Carmelitani Scalzi
al Congresso Iberico dell'Ocds

EL CARISMA TERESIANO EN EL SEGLAR CARMELITA

De puertas adentro: identidad

di P. Saverio Cannistrà  preposito Generale OCD


            Prendo la parola con piacere in questo IV Congresso iberico dei carmelitani secolari e vi ringrazio dell’invito, che mi dà l’occasione di incontrare una parte importante della famiglia carmelitana in Spagna e Portogallo.
            In questi giorni rifletterete sulle questioni più importanti che riguardano la vostra vocazione, la vostra vita e la vostra missione. Lo scambio di esperienze sarà sicuramente di grande importanza per rispondere alle tante domande che si pongono a chi vuole vivere nel mondo di oggi la vocazione carmelitano-teresiana. Gli organizzatori hanno voluto che anche il centro dell’Ordine fosse presente, e non solo nella persona del Delegato per l’Ordine Secolare (e in questo momento devo dire, eccezionalmente, dei Delegati, perché qui sono presenti entrambi, il Delegato uscente e il Delegato entrante). Eccoci dunque qui, il Vicario Generale ed io, per dare inizio a questo incontro con alcuni spunti di riflessione fondamentali. Mi piacerebbe riuscire a proporre qualche punto fermo, che possa servire di base agli sviluppi successivi del dibattito, ma non so se ne sarò capace, vista l’obiettiva complessità della materia e la mia scarsa esperienza in questo ambito. Cercherò di concentrarmi su tre aspetti essenziali dell’identità di un carmelitano secolare: la sua “laicità”; la specificità della vocazione al Carmelo teresiano; la formazione o cura della vocazione.

Chi è il laico cristiano?

            Parlo a dei laici che appartengono alla stessa famiglia del Carmelo, a cui anche io appartengo come religioso. Come possiamo capire e spiegare questa appartenenza comune di laici e di religiosi alla medesima famiglia o, più precisamente, al medesimo Ordine[1]?  La risposta non è così facile e scontata. Credo che stiamo ancora cercando il modo più corretto teologicamente e più adeguato ai tempi di vivere questa compresenza di stati di vita diversi nell’esperienza del medesimo carisma. Tale modo non può consistere né nel trasformare i laici in religiosi, né nel “laicizzare” la vocazione dei religiosi. In altri termini, la difficoltà non si risolve mettendo tra parentesi le differenze che caratterizzano la vita del religioso e quella del laico. Al contrario, a mio parere, l’unico modo corretto di comprendere la relazione è a partire dalla chiara definizione e rispetto delle differenze.
            Certamente, la definizione dello stato di vita del religioso è molto più chiara e circostanziata di quella del laico. Nel Codice di diritto canonico al can. 607 si caratterizza la vita religiosa in base a tre elementi: la professione pubblica dei voti [che non vuol dire fatta in pubblico, ma “nelle mani di un superiore ecclesiastico legittimo, che li accetta in nome della chiesa”], la vita fraterna in comune e il distacco dal mondo. Questi elementi non sono propri dello stato di vita laicale. Pertanto, è importante evitare ogni possibile confusione, ad esempio tra la professione dei voti religiosi e le promesse che fa un secolare o tra la vita in comune di un religioso e l’appartenenza a una comunità o fraternità dell’ordine secolare o ancora tra il distacco dal mondo del religioso e il non essere del mondo di ogni cristiano (sono cose che hanno conseguenze molto concrete; faccio solo un esempio molto chiaro e comprensibile: l’attività politica).
            Il problema della definizione dello stato di vita laicale è che quasi sempre viene formulata in termini negativi. Anche noi abbiamo detto, per esempio, che i laici non sono religiosi. Ma chi è il laico? La risposta a questa domanda è evidentemente la premessa logica per poter poi rispondere alla domanda successiva sull’identità del laico carmelitano.
            La storia del termine “laico” è molto istruttiva sull’evoluzione della posizione del laico nella storia della chiesa e nella storia civile. Come sapete, è un termine che appartiene originariamente al linguaggio della chiesa e indica nei primi secoli coloro che appartengono al laós, al popolo di Dio. Pertanto, la prima connotazione di questo termine è positiva: esprime partecipazione e corresponsabilità nell’unica realtà del popolo di Dio. Solo successivamente, a partire dal IV-V secolo si insiste sulla differenza tra i laici e la gerarchia; mentre agli inizi laico voleva dire pressappoco “cristiano”, ora passa a significare “non sacerdote”. A partire dal XIX secolo, con la separazione tra Stato e Chiesa, conseguente alla rivoluzione francese, la nozione di laico assume ancora un altro significato: è laico tutto ciò che fa parte della sfera “civile”, riconosciuta come “indipendente e neutrale rispetto a qualunque religione o culto”. Oggi, spesso, quando si usa l’aggettivo laico lo si intende nel senso di “non religioso”, estraneo o addirittura ostile a qualsiasi credenza religiosa.
            Noi invece parliamo qui di “laici cristiani” e addirittura di laici che appartengono a una famiglia religiosa, comprendente frati e monache. È evidente lo choc culturale che ciò provoca nell’attuale situazione culturale in cui tutti siamo immersi, almeno in Occidente (e sappiamo che in Spagna, in modo particolare, il processo di laicizzazione della società e della morale ha assunto da diversi anni un ritmo incalzante). Tuttavia, ritengo che sia nostro compito recuperare il concetto di laico e di laicità originariamente appartenente al cristianesimo. Del resto, è ciò che il Concilio Vaticano II ha cercato di fare, rivalutando la figura e la missione del laico in prospettiva teologica ed ecclesiologica. Com’è noto, ai laici, alla loro vocazione e missione è stata attribuita come specifica “l’indole secolare”:
L’indole secolare è propria e particolare dei laici […] Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore (LG 31).
            Queste indicazioni fondamentali del Concilio sono state ulteriormente sviluppate nell’esortazione apostolica Christifideles laici, in particolare al n° 15. La comune dignità propria di tutti i battezzati assume nei fedeli laici una modalità particolare, e cioè la “secolarità”.
            La difficoltà che troviamo nel parlare dell’identità del fedele laico dipende probabilmente dalla insufficienza della nostra riflessione teologica sulle realtà secolari e dalla resistenza  a pensare il mondo come luogo dello Spirito. Secoli di tradizione ci hanno abituati a pensare al mondo come a una realtà negativa, che si oppone alla vita cristiana e alla vita dello spirito. Invece, il mondo è – secondo la prospettiva del Concilio ripresa nella CL – “l’ambito e il mezzo della vocazione cristiana dei fedeli laici” (CL 15). Il mondo, quindi, con le sue concrete realtà, situazioni e impegni, diventa lo strumento di cui la grazia di Dio si serve per la santificazione dei fedeli laici.
L'indole secolare del fedele laico non è quindi da definirsi soltanto in senso sociologico, ma soprattutto in senso teologico. La caratteristica secolare va intesa alla luce dell'atto creativo e redentivo di Dio, che ha affidato il mondo agli uomini e alle donne, perché essi partecipino all'opera della creazione, liberino la creazione stessa dall'influsso del peccato e santifichino se stessi nel matrimonio o nella vita celibe, nella famiglia, nella professione e nelle varie attività sociali (CL 15).
            Questa rivalutazione teologica del mondo dipende dalla nuova centralità che il Concilio ha dato all’uomo e alla storia e dalla considerazione che l’uomo non è pensabile al di fuori del mondo, il mondo fa parte della sua stessa umanità. Pertanto, se la realtà dell’uomo, in tutte le sue dimensioni, corporali e spirituali, fisiche e psichiche è chiamata a partecipare della salvezza, anche la realtà del mondo, da cui l’uomo è inseparabile, condivide lo stesso destino. Come si legge in LG 48:
Col genere umano tutto il mondo, il quale è intimamente unito con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, sarà perfettamente ricapitolato in Cristo (LG 48).
            La vita secolare è quindi l’ambito in cui il cristiano laico è chiamato ad assumere il mondo e unirlo alla vita di Cristo, perché in Lui giunga al compimento del suo essere creato e sia ristabilito nell’unità di tutte le cose. Nel fare ciò il laico realizza al tempo stesso la sua vocazione alla santità e la sua missione nella chiesa:
L'unità della vita dei fedeli laici è di grandissima importanza: essi, infatti, debbono santificarsi nell'ordinaria vita professionale e sociale. Perché possano rispondere alla loro vocazione, dunque, i fedeli laici debbono guardare alle attività della vita quotidiana come occasione di unione con Dio e di compimento della sua volontà, e anche di servizio agli altri uomini, portandoli alla comunione con Dio in Cristo […] La vocazione alla santità è intimamente connessa con la missione e con la responsabilità affidate ai fedeli laici nella Chiesa e nel mondo. Infatti, già la stessa santità vissuta, che deriva dalla partecipazione alla vita di santità della Chiesa, rappresenta il primo e fondamentale contributo all'edificazione della Chiesa stessa, quale “Comunione dei Santi” (CL 17).

 
Chi è il laico carmelitano?

            Ritengo che queste indicazioni provenienti dal recente magistero della chiesa siano di grande importanza e ci aiutino a dare una risposta corretta alla domanda fondamentale che mi avete posto, e cioè: qual è l’identità del laico carmelitano? Permettetemi di citare ancora un breve testo del magistero, e cioè il can. 303 del Codice di diritto canonico, che è l’unico in cui si fa esplicito riferimento alla realtà dei Terzi Ordini o Ordini secolari. Il testo dice così:
Le associazioni i cui membri conducono una vita apostolica e tendono alla perfezione cristiana partecipando nel mondo al carisma di un istituto religioso, sotto l'alta direzione dell'istituto stesso, assumono il nome di terzi ordini oppure un altro nome adatto.
            Con la caratteristica sinteticità di un testo legislativo, questo canone ci aiuta a individuare le caratteristiche effettivamente importanti, anzi costitutive di un Ordine secolare. Sottolineo in particolare i due fini che un Ordine secolare si propone di raggiungere e che ne giustificano l’esistenza: la ricerca della perfezione cristiana e l’impegno apostolico. Tutti e due questi fini sono perseguiti “partecipando nel mondo al carisma di un istituto religioso”; pertanto, è lo spirito caratteristico di una determinata famiglia religiosa, la sua identità carismatica che ispira e indirizza i membri dell’Ordine secolare nel raggiungimento di tali fini, all’interno di una condizione di vita non religiosa, ma secolare.
            Alla luce di quanto detto, il laico carmelitano può essere definito come una persona che ricerca la santità, ossia la pienezza della sua vocazione battesimale, e vive una “vita apostolica”, bella espressione che dice non solo l’assunzione di una serie di impegni e attività di apostolato, ma l’atteggiamento di chi mette tutta la sua vita a servizio di Cristo e del vangelo. Per fare tutto ciò, però, egli non modifica la sua condizione di vita nel mondo, con le sue varie dimensioni affettive, economiche, sociali, politiche e culturali. In tutte queste egli è presente e le vive fino in fondo, evangelizzandole nella sua stessa persona, cioè unendole al Cristo di cui egli è membro, poiché il battezzato  – come diceva Agostino – “è diventato non solo cristiano, ma Cristo stesso” (Commento al vangelo di Giovanni 21,8).

            Vissuta in questo modo la secolarità diventa una vera ricchezza sia per la chiesa, sia per il carisma dell’Ordine, che ha modo di manifestare tutta la sua carica evangelica ed evangelizzatrice, di liberazione e di santificazione dell’uomo e del suo mondo. Illuminate e animate dall’interno, le realtà secolari brillano di quella luce di vita nuova che proviene dal Risorto, il quale – per dirla con Giovanni della Croce – “con sola su figura / vestidos los dejó de hermosura”. Quale grande e meravigliosa missione è questa, di rendere le realtà di ogni giorno, dalla famiglia al lavoro, dall’amicizia allo svago, altrettante immagini, parabole del Regno di Dio che viene, anzi è già venuto in mezzo a noi!
            La ricerca della santità vissuta nel mondo dovrebbe essere, dunque, la nota caratterizzante l’impegno dei membri di un Ordine secolare. È vero che, nonostante sia passato quasi mezzo secolo dal concilio Vaticano II, l’immagine ancora prevalente del santo non è quella del laico, ma quella del martire, del pastore, del missionario, della religiosa o del religioso. Spesso anche nel presentare la santità di un laico si insiste su aspetti eccezionali, quasi a dire che la sua santità si è realizzatanonostante le condizioni di vita laicale, e non all’interno e a motivo di esse. Che un uomo politico, ad esempio, possa aver cercato la santità attraverso la sua attività politica o un imprenditore attraverso la sua attività economica, risulta tutt’altro che evidente.
            Mi domando se questo primato della modalità non secolare nel vivere la vita cristiana e la vita spirituale non abbia influito anche su certe impostazioni degli Ordini secolari, che sembrano copie in formato ridotto di pratiche proprie della vita religiosa. L’esempio più tipico sono le “promesse” di vivere secondo i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, chiaramente derivate dalla professione dei voti religiosi. Va precisato che, dal punto di vista canonico, le promesse (o i voti) non fanno parte degli elementi caratterizzanti gli Ordini secolari. Nel diritto universale non se ne fa cenno e in molti Ordini secolari essi non sono previsti. Addirittura, esiste una certa incompatibilità tra l’appartenenza all’Ordine secolare e la professione pubblica di voti, per cui un religioso non potrebbe essere anche membro di un Ordine secolare (il Codice del 1917 lo vietava esplicitamente).
            Si capisce che è difficile “inventare” per un laico una forma di impegno solenne a vivere in modo pieno e radicale la sua consacrazione battesimale, che sia diversa dalla forma tradizionale della professione dei voti religiosi. L’introduzione della promessa di vivere secondo lo spirito delle beatitudini è un tentativo per differenziare il rito dell’impegno del secolare dal rito della professione religiosa, ma – seguendo ai tre voti religiosi classici (peraltro, non anteriori al XII secolo) – fa quasi l’impressione di un “quarto voto”, la cui prassi si diffuse in molte congregazioni religiose.
            È chiaro comunque che l’impegno decisivo è quello di vivere la sequela di Gesù Cristo, vivere “in obsequio Jesu Christi” in mezzo al mondo. Ciò, inoltre, va fatto – e questo è l’altro elemento essenziale – nello spirito del Carmelo, partecipando al carisma della nostra famiglia religiosa. P. Emilio esporrà in modo più completo e dettagliato le caratteristiche del carisma teresiano. Da parte mia, mi limito a porre l’accento su due aspetti. Il primo è che il carisma di Teresa nasce e si definisce come risposta alla scoperta di essere amata da un Dio fatto uomo, amata così com’è, senza condizioni o riserve, amata nel suo essere povera e peccatrice. Qualcosa si risveglia nella persona di Teresa nel momento in cui fa esperienza di questa vicinanza, di questa presenza d’amore, che attrae con forza, ma al tempo stesso con rispetto e delicatezza, la sua libertà. Teresa da allora in poi non può essere che Teresa di Gesù: la relazione con Lui è il suo nuovo nome, la sua nuova vocazione e missione.
            Al Carmelo siamo per Gesù, perché Lui ci ha toccati misteriosamente, ma indubitabilmente. Impossibile dire perché abbia scelto di porre lo sguardo su di me, ma altrettanto impossibile è dubitare di questo. Ormai, come scrive simpaticamente Teresa, “non ve lo potrete più levare di torno” (C 26,1). Allora la prima e fondamentale manifestazione del carisma teresiano è quella di vivere tutto in compagnia di Gesù: “Tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre” (Col 3,17 cit. nella Regola 19). Ovviamente, non si tratta di un atteggiamento sentimentale, ma di un esercizio di fede, di vita teologale, che è possibile solo se nutrito costantemente dell’orazione, intesa come dialogo amichevole col Signore, e dell’ascolto quotidiano della Parola di Dio.
            L’altro aspetto è la “sollecitudine per l’altro”, per l’altro uomo, per la comunità, per la chiesa. La vita con Cristo e in Cristo non è vita egoistica, centrata su se stessi, ma è vita per l’altro, senza risparmio, senza calcoli. Non è semplicemente un dovere morale o un impegno virtuoso. È un modo di vivere, di pensare l’esistenza. Il fatto è che per gli amici di Gesù Cristo non ha nessun senso vivere in un altro modo, vivere senza perdere la vita. Per questo la vita di orazione, che pure ha bisogno di raccoglimento e di solitudine, tuttavia non ci chiude in noi stessi, ma al contrario ci slancia verso l’altro con una sensibilità e una generosità nuove. Questo è, peraltro, l’unico segno verificabile che davvero ci siamo incontrati col Signore e non con noi stessi.
            Come vedete, queste caratteristiche semplici, elementari del carisma che ha animato la vita di Teresa sono riproducibili in stati di vita assai diversi e in ciascuno manifestano aspetti e ricchezze nuove. Il carisma è fecondo e produce “frutti dello Spirito”: amore, pace, gioia, benevolenza (cfr. Gal 5,22). Al tempo stesso, è esigente e occupa gli spazi della nostra vita, li fa suoi. Per questo chi si decide per questa vocazione, con “determinada determinación”, scoprirà presto o tardi di non appartenersi più, di non avere niente per sé, ma al tempo stesso di possedere tutto in un modo nuovo. Non è questione di promesse, voti o pratiche ascetiche: è una vita dello Spirito che pulsa in noi e chiede di venire alla luce. Se glielo permettiamo, essa opera e trasforma noi e la nostra realtà.

Formazione e comunità
            Vengo al terzo e ultimo punto di cui mi sono ripromesso di parlarvi, e cioè la formazione, la cura della vocazione, che – a mio parere – è inscindibile dalla comunità nella quale la vocazione carmelitana ci inserisce. Il valore formativo della comunità è stato più volte sottolineato da Teresa. Ricordo solo un passo particolarmente significativo della Vita:
Andan ya las cosas del servicio de Dios tan flacas, que es menester hacerse espaldas unos a otros los que le sirven para ir adelante […] Es menester buscar compañía para defenderse, hasta que ya estén fuertes en no les pesar de padecer; y si no, veránse en mucho aprieto. Paréceme que por esto debían usar algunos santos irse a los desiertos. Y es un género de humildad no fiar de sí, sino creer que para aquellos con quien conversa le ayudará Dios; y crece la caridad con ser comunicada (V 7,22).
            Ho l’impressione che nelle Costituzioni  dell’Ordine secolare non sia stato sviluppato a sufficienza questo aspetto della vocazione carmelitana. Nonostante l’affermazione decisiva del n° 40, secondo cui «l’Ordine secolare si struttura fondamentalmente sulla comunità locale quale segno visibile della Chiesa», il discorso sulla dimensione comunitaria sembra ridursi solo alle questioni organizzative e di governo.
            In realtà, Teresa non è stata soltanto maestra di orazione e di contemplazione per i singoli cristiani, ma ha voluto fondare comunità oranti. È significativo che per Teresa l’amore reciproco sia la prima condizione per poter affrontare un cammino di orazione. Ella conosceva per esperienza le difficoltà e i rischi che tale cammino presenta quando si è soli. Nella solitudine è facile scoraggiarsi e rinunciarvi, è facile impaurirsi, è facile soprattutto cadere preda di illusioni pericolose, che ci portano a scambiare lo Spirito con lo spiritualismo, il Dio vivo e vero con le nostre immagini e i nostri idoli. Per questo il confronto con l’altro, con colui che è diverso da me è non solo utile, ma indispensabile. Solo nel rapporto con l’altro io scopro chi sono veramente e in quale tappa del mio cammino mi trovo. La mia verità più profonda non è quella che scopro guardandomi allo specchio o facendo interminabili introspezioni. È quella che si manifesta con evidenza cristallina quando entro in relazione con la sorella o il fratello che mi è accanto. Come diceva già Socrate, nell’Alcibiade Maggiore di Platone, io mi conosco vedendomi riflesso nella pupilla dell’altro.
            Certo, come dicevo all’inizio, non si può identificare la comunità dell’Ordine secolare con la comunità religiosa. Sono realtà differenti, sia dal punto di vista antropologico ed esperienziale, sia dal punto di vista teologico ed ecclesiologico. La comunità religiosa ha semmai il suo parallelo in altre comunità di vita, come la famiglia.
            La comunità dell’Ordine secolare ha caratteristiche e finalità diverse. Si riunisce con una periodicità non troppo frequente (una o due volte al mese). Ciò che la tiene unita è, mi sembra, più che una interazione costante tra i membri, il fatto di camminare insieme, o meglio nella stessa direzione, condividendo obiettivi e finalità, ciascuno nella particolare situazione di vita in cui si trova.
            Proprio questo elemento di “condivisione” diventa fondamentale per una comunità che non vive insieme, ma si ritrova periodicamente per riprendere forza e motivazione nel cammino. Siamo capaci di fare delle nostre comunità secolari degli autentici luoghi di condivisione e di revisione di vita? Se così fosse, esse non potrebbero non essere attraenti, perché mai come oggi si sente il bisogno di luoghi capaci di favorire la concentrazione e il discernimento in una società che tende invece alla dispersione e alla distrazione. Naturalmente, realizzare tali luoghi di condivisione implica un lavoro e un impegno, non esente da rischi. Si tratta di crescere nella fiducia e nella conoscenza reciproca, in modo che la parola possa essere  scambiata con libertà, senza timore di essere giudicati, fraintesi o addirittura traditi. Penso che una comunità debba interrogarsi seriamente se stia facendo questo cammino di maturazione e se il suo ruolo nella vita dei suoi membri sia effettivamente importante o solo marginale.
           
            La lettura degli scritti di Teresa, alla quale tutto l’Ordine è chiamato in preparazione al centenario della sua nascita, è un’occasione preziosa per confrontare le nostre vite con la sua vita, il nostro modo di rispondere al Signore e di servire la chiesa con il suo modo. Penso che Teresa ci inviti tutti a maggiore audacia. Siamo un po’ timidi, un po’ esitanti a percorrere fino in fondo la strada che lei ci indica. Eppure non c’è nulla da temere, poiché – come dice Teresa nella Vita al cap. 35,13-14:
El que os ama de verdad, Bien mío, seguro va por ancho camino y real. Lejos está el despeñadero. No ha tropezado tantico, cuando le dais Vos, Señor, la mano. No basta una caída ni muchas, si os tiene amor y no a las cosas del mundo, para perderse. Va por el valle de la humildad. [14] No puedo entender qué es lo que temen de ponerse en el camino de la perfección. El Señor, por quien es, nos dé a entender cuán mala es la seguridad en tan manifiestos peligros como hay en andar con el hilo de la gente, y cómo está la verdadera seguridad en procurar ir muy adelante en el camino de Dios. Los ojos en El, y no hayan miedo se ponga este Sol de Justicia, ni nos deje caminar de noche para que nos perdamos, si primero no le dejamos a El.
            Così ci parla Teresa con passione di sposa e, insieme, con affetto di madre. Sono parole che vengono dalla vita, da una vita certamente travagliata e sofferta, ma anche da una vita piena e pienamente felice. Saremo noi all’altezza di questo esempio e di questo insegnamento? È comunque importante che con esso non ci stanchiamo di confrontarci e non dimentichiamo che a questo siamo stati chiamati il giorno in cui abbiamo varcato la soglia del Carmelo.





[1] “La grande famiglia del Carmelo teresiano è presente nel mondo in molte forme. Il suo nucleo è l’Ordine dei Carmelitani scalzi, formato dai frati, dalle monache di clausura e dai Secolari. È un unico Ordine con lo stesso carisma” (Costituzioni OCDS, Proemio); “[I Carmelitani secolari] condividono con i religiosi lo stesso carisma, vivendolo ciascuno secondo il proprio stato di vita” (ivi, n°1).

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